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l’identità femminile islamica proprio come modello in negativo rispetto alla modernità, alla libertà e
alla civiltà.
La terrificante «macchina mediatica», che è la fonte primaria degli stereotipi, ha costruito delle
norme ormai internazionali di un tipico profilo della donna musulmana ridotta alla sua simbologia più
arcaica, quella di una rappresentazione unica, antistorica, pallido remake della classica visione
orientalista.
Di fatto la «ultra mediatizzazione» internazionale e il discorso ricorrente riguardo la tematica “donne
musulmane vittime dell’islam» con il loro status giuridico precario, con la loro ritardata
emancipazione, la loro messa sotto tutela culturale, i loro burka e veli di ogni tipo, ha finito per
instaurare nell’immaginario collettivo contemporaneo un’immagine indelebile, quella di donne
perennemente sottomesse e fatalmente alienate. Immagine che mantiene sornionamente l’idea che
la disuguaglianza dei sessi è, in fondo, strutturale alla sola simbologia islamica di cui, d’altronde, la
stessa qualificazione di islamica dispensa da qualunque analisi o riflessione profonda. C’è quindi un
accanimento drammatico a voler fare delle donne musulmane, «tutte le donne musulmane», le
principali vittime di un islam necessariamente tirannico, discriminatorio, di sapore barbarico, che
soltanto le vie di una emancipazione occidentale idealizzata e universalizzata a oltranza sono in grado
di liberare.
La necessità di questa parola d’ordine «liberiamo le donne musulmane», indotta da un
etnocentrismo intellettuale ormai evidente, ha finito per relativizzare, se non addirittura per
assolvere, le altre culture e società, in particolare quelle occidentali, da ogni accusa di
discriminazione nei confronti delle loro donne che sarebbero, loro sì, «naturalmente liberate» in
quanto si suppone che abbiano acquisito tutti i loro diritti.
Questo «diritto di ingerenza» intellettuale profondamente ancorato in una certa ideologia
occidentale fa sempre parte dei requisiti previ di un discorso politicamente corretto. «Liberare le
povere donne musulmane vittime dell’islam» è così una formula politica che si vende sempre molto
bene e che testimonia, per quanto possibile, una indubbia appartenenza al mondo «civilizzato».
Il meta-discorso attuale sulla donna musulmana, velata, reclusa, oppressa in fondo è soltanto
un’eterna riproposizione della visione orientalista e colonialista, sempre in voga nelle
contemporanee rappresentazioni postcoloniali, che certe femministe europee hanno a giusto titolo
indicato come l’intreccio di sessismo e razzismo…Questo discorso paternalista e perennemente
accusatore serve soprattutto da alibi a tutte le tendenze politiche di dominazione culturale e
supporta l’analisi binaria che oppone, come se fosse la cosa più normale, due modelli antinomici: il
modello universale della donna occidentale liberata e il particolarismo della donna musulmana
oppressa e quindi da liberare. Peraltro questa ossessione di liberare la donna musulmane ha anche
servito da pretesto politico per legittimare imprese coloniali come la guerra in Afghanistan dove
l’esercito americano ha cercato di liberare le povere afgane dal loro orribile burka…
Può essere utile ricordare qui due fatti evidenti.
* Il primo riguarda l’estrema varietà di donna musulmana. Ci sono tante società musulmane diverse
quanti modelli di donna musulmana che dall’Indonesia al Marocco, passando per l’Arabia Saudita o
l’Europa Centrale e l’Africa Sub-Sahariana, sono, non foss’altro che dal punto di vista geografico,
rappresentativi di una importante eterogeneità socio-culturale. Questa pluralità esistente è in
flagrante contraddizione con l’immagine monolitica e uniformizzante de LA donna musulmana,
proposta dagli stereotipi occidentali e che tende a ridurre sistematicamente tutte le donne
musulmane ad un’unica sola dimensione culturale.