18. L’EUROPE DE DEMAIN Autore: Thelos, pseudonimo di Ernesto Rossi. Luogo e data di redazione: Lugano, 1944 Prima edizione a stampa:, Centre d’Action pour la fédération européenne, L’Europe de demain, La Bacconiére, Boudry, 1945 Fonte: idem L’Europe de demain è senza dubbio uno dei lavori di maggior rilievo fra le pubblicazioni di carattere federalista di Ernesto Rossi ed è testimonianza di quanto abbiano influito gli studi che Rossi compì durante il suo periodo di esilio in Svizzera. Dopo Ventotene, la Svizzera rappresentò per Rossi e per tutti i numerosi fuoriusciti che in questa terra trovarono asilo, una sorta di secondo luogo di elezione perché qui iniziò il periodo di attività e, se vogliamo, di proselitismo da parte dei federalisti. Rossi arrivò in Svizzera il 14 settembre 1943 e dopo un periodo trascorso a Lugano riuscì a farsi trasferire a Ginevra dove avrebbe stabilito importanti relazioni con esponenti della resistenza che provenivano dalle varie aree geografiche d’Europa. Ma Ginevra fu anche il luogo dell’importante incontro con Luigi Einaudi la cui influenza è particolarmente evidente nel terzo paragrafo della prima parte del saggio L’Europe de demain dedicato al fallimento della Società delle Nazioni. Il periodo trascorso in Svizzera fu inoltre molto fecondo per la produzione di testi di carattere federalista. Rossi, insieme a Spinelli, trovò validi interlocutori tra gli aderenti al Partito d’Azione, anch’essi rifugiati in terra elvetica, anche se nel Partito d’Azione le adesioni alle tesi federaliste rimanevano spesso delle generiche tendenze e fu spesso difficile dare loro un formato programmatico. Rossi e Spinelli portarono avanti con impegno e costanza il loro progetto di diffusione del programma federalista ed ottennero numerose adesioni tra i giovani, fra questi vale la pena ricordare Guido Rollier, fratello di Mario Alberto, grazie al quale si deve la pubblicazione di L’Europe de demain e di altri testi di Rossi presso la casa editrice “La Baconnière”. L’attività che Rossi e Spinelli svolsero in Svizzera fu dunque importante e fondamentale per l’affermazione del Movimento federalista e si arricchì di numerosi contributi, tra questi quello di Silone, Jacini, Bolis, Treves e molti altri. Ernesto Rossi, appena giunto in terra elvetica, iniziò la sua attività pubblicistica propedeutica al lavoro di propaganda organizzata. Presso la biblioteca di Lugano consultò numerosi testi e pubblicazioni, soprattutto quelli che riguardavano studi sugli aspetti economici dell’unione federale europea. Durante il periodo svizzero, la sua attività si svolse su due piani paralleli: quello dell’azione su scala internazionale in stretta collaborazione con Spinelli e il lavoro di proselitismo federalista fra i rifugiati, tale impegno si concretizzò in dibattiti, conferenze, appelli, sottoscrizioni, articoli su giornali e diffusione di pubblicazioni, riscotendo un notevole successo soprattutto fra i giovani. Come spesso accadeva tra i rifugiati, per le pubblicazioni venivano usati vari pseudonimi e così Rossi usò quello di Storeno per il testo italiano e quello di Thelos per quello francese, l’intervallo di circa un anno che intercorre fra le due pubblicazioni fu senza dubbio ricco di avvenimenti e fu anche un anno di fondamentali progressi per il Movimento Federalista. Dopo la costituzione del Comitato direttivo interpartitico a Lugano, Rossi diede vita ad un altro Comitato a Zurigo (febbraio 1945) che “avrebbe dovuto rappresentare tutte le tendenze politiche che avevano inserito la federazione europea nel loro programma, dimostrando così la completa indipendenza del M. F. E. dal P. d. A. e da qualsiasi partito”1. Uno studio e una ricerca incessanti, consentirono a Rossi di raccogliere documenti che attestavano come le tendenze federaliste fossero presenti in quasi tutti i paesi europei e come anche i movimenti per la Resistenza avessero acquisito la consapevolezza che una pace durevole sarebbe stata possibile solo in una organizzazione di tipo federalista del continente europeo. Ne L ’Europe de demain, Rossi pubblicò una serie di documenti che nelle intenzioni dell’autore dovevano costituire un utile strumento per lo studio del problema della federazione europea e, come già è stato detto, avere un chiaro fine pedagogico .La ricerca dei documenti fu svolta con una cura particolare nonostante una situazione oggettivamente difficile soprattutto per le scarse risorse economiche di cui disponeva Ernesto Rossi e in generale quasi tutti i rifugiati in terra elvetica2. La prima parte del testo federalista, firmata “Thelos”, pseudonimo meno usato e meno noto di Rossi (più usati erano Empirico e Storeno), è costituita da otto paragrafi nei quali vengono prese Antonella Braga, La collaborazione con Ernesto Rossi nel lavoro di organizzazione e propaganda del Mfe in Svizzera, in Dalla resistenza all’Europa, il mondo di Luciano Bolis, a cura di Daniela Preda e Cinzia Rognoni Vercelli, Pavia, 2001, p. 121 2 cfr. Antonella Braga, La collaborazione con Ernesto Rossi…, op. cit. 1 in esame le cause della guerra, la soluzione federalista e le reali possibilità di attuazione dell’unità europea. Ciò che più colpisce il lettore, anche quello meno avvezzo a certi argomenti, è la semplicità con la quale Rossi affronta i vari temi rendendoli non solo di facile fruizione, ma anche, a nostro avviso, dotandoli di notevole capacità persuasiva. D’altra parte tale capacità persuasiva Rossi cominciò ad esercitarla proprio in Svizzera, come testimoniò anni più tardi Luciano Bolis, secondo il quale “ se gli scritti di Spinelli lo colpirono per la loro lucidità di analisi, furono il fervore missionario e l’umana simpatia di Rossi a coinvolgerlo, in modo continuativo, nell’attività federalista”3. Naturalmente è innegabile un continuità ed una influenza del Manifesto di Ventotene nell’opera di Rossi e in particolare ci riferiamo ai capitoli riguardanti i compiti della federazione e il problema tedesco, ma L’Europe de demain, pur rimanendo figlio legittimo del Manifesto, presenta un federalismo europeo arricchito di tutte quelle verifiche e di tutte quelle conoscenze bibliografiche di quanto si andava affermando, in campo federalista, nei vari paesi europei. Il testo si avvale dei contributi dei vari gruppi della Resistenza europea, delle voci federaliste presenti sulla stampa clandestina di Francia, Italia, Belgio, Norvegia, Polonia e Olanda, degli orientamenti federalisti dei paesi anglosassoni e infine di alcuni testi di scrittori e uomini politici di fama internazionale. Nota sulla fonte: L’Europe de demain fu scritto in Svizzera da Rossi con la collaborazione di René Bertholet (Robert) come risulta da una lettera di Spinelli per Rossi in data 5 luglio 1944 e pubblicato nel 1945 da Editions de la Baconnière, Buodry, ma la prima parte del saggio era stato pubblicato nel maggio 1944 come gli Stati Uniti d’Europa, introduzione allo studio del problema a firma di Storeno, a Lugano, Nuove edizioni di Capolago e tirato in duemila copie 4. L’Europe de demain fu ristampato nel dopoguerra nel volume di AA.VV., Federazione europea, con prefazione di Tristano Codignola, Firenze, La Nuova Italia, 1948 e infine parzialmente ripubblicato a cura di Eluggero Pii presso le edizioni Guerra, Perugia, 1996. L’EUROPE DE DEMAIN DE THELOS Antonella Braga, La collaborazione con Ernesto Rossi…, op. cit. p. 108 cfr. (a cura di) Piero Graglia, Altiero Spinelli, Machiavelli nel secolo XX – Scritti del confino e della clandestinità 1941-1944, Bologna, 1993, p. 489, n. 19 3 4 L’EUROPE EST UN ETAT composé de plusieurs provinces Montesquieu I. LA DESTRUCTION DE NOTRE CIVILISATION La question de l’ordre international à instaurer dès la fin de cette guerre constitue le plus grave des problèmes; il est absolument indispensable de lui donner le pas sur tous les autres. La solution qui lui sera apportée conférera seule un sens sérieux aux réponses particulières proposées pour toutes les questions politiques économiques ou spirituelles concernant actuellement les divers Etats. Si l’on ne parvenait pas à constituer l’organisme international susceptible de mettre fin aux guerres répétées et comprenant tous les pays du monde, il n’y aurait plus d’espoir de sauver notre civilisation; nous serions au seuil d’un nouveau moyen âge, sous l’influence et l’impulsion des idéologies totalitaires. La guerre totale La guerre a cessé d’ être un simple choc entre deux nations; elle est devenue une collision entre des peuples qui jettent dans la lutte toutes les vies, tous le biens. Chaque belligérant cherche dans cette guerre totale, avec tous le outils fournis par la science, à détruire le potentiel de guerre de l’ennemi et à abattre son moral comme moyen indirect pour anéantir son armée. Cette nouvelle forme de lutte arrache les populations entières de leurs terres ancestrales pour le déporter à des milliers de kilomètres, sans même se soucier de leur donner de nouvelles habitations, ni même les plus modestes moyens d’existence. Ainsi, on tend à massacrer indifféremment hommes, femmes, vieillards, enfants; on ne respecte ni les hôpitaux, ni l’églises, ni les asiles pour enfants; on réduit en décombres fumants les bibliothèques, les musées, les oeuvres d’art, tout le plus précieux patrimoine constitué en d’innombrables générations. L’oeuvre destructrice des guerres actuelles est encore plus terrible dans le domaine de l’esprit que sur le plan matériel. Dans les pays totalitaires, discours, journaux, cinéma, radio font sans cesse appel aux forces irrationnelles de l’âme pour créer une folie collective, afin de fondre tout un peuple dans une seule volonté orientée vers une fin unique: la victoire à tout prix, moyennant n’importe quel sacrifice. Personne n’a plus même le droit de demander ce que signifie au juste la victoire. On exige la victoire pour la victoire. On veut survivre, sauver n’importe comment même ce qui ne mérite aucunement d’être sauvé. La dissimulation, les mensonges sont systématiquement utilisés, à l’égal des armes de combat, des bombes ou des torpilles. Raisonner, douter, c’est être un ennemi de la patrie. Toutes les valeurs morales sont bouleversées. On récompense la violence, la méconnaissance complète de toute règle de vie civilisée, la haine sans aucune atténuation, le conformisme et l’obéissance la plus aveugle aux ordres venus d’en haut. On n’a plus aucun respect pour la vie humaine, pour la loi, pour l’esprit de tolérance. On perd tout sens de la responsabilité individuelle et aussi tout sens critique. Conséquences politiques de la paix armée La simple menace de guerre corrompt les périodes de paix, leur communique déjà les caractères essentiels de la guerre. D’autre part, les passions sociales déchaînées par la guerre ne s’apaisent généralement pas avec la cessation des hostilités. Les institutions juridiques traditionnelles, désormais chancelantes ou même effondrées, ne peuvent plus contenir ces passions; aussi se précipitent-elles de tous côtés en désordre, et la lutte politique reprend la caractère violent de lutte armée entre factions. Pour que les libertés existent, il faut que le pouvoir soit décentralisé, il faut que les citoyens aient la possibilité effective de s’intéresser à la chose publique, il faut que la vie politique circule dans les nombreux organismes intermédiaires, nécessaires entre l’individu et l’Etat, et surgis spontanément par l’association de tous ceux qui ont les même intérêts et le même idéal. Une telle décentralisation s’oppose aux buts que les gouvernements sont obligés de se proposer dans les périodes de paix armée. Dans le préparation de la guerre, les résultats les plus effectifs s’obtiennent si l’on fait converger vers un but unique toutes les forces économiques, démographiques et spirituelles, conformément à un plan d’ensemble étudié et mis au point par un gouvernement ayant le maximum de puissance et la plus grande continuité, c’est-à- dire en fait un Etat despotique tendant à l’organisation pacifique de la vie, devient un vice irrémédiable si l’on ne songe qu’à l’efficacité de la guerre. Dans le heurt opposant démocraties et totalitarismes, les premières – à cause de la publicité donnée à leur politique, des fréquents changements dans les équipes gouvernementales, de la lenteur avec laquelle sont prises les décisions les plus importantes, de l’opposition à vaincre lorsqu’il s’agit d’augmenter les dépenses militaires, de décréter la conscription obligatoire, etc. – sont nécessairement brisées. Même les peuples qui ont les plus anciennes traditions de gouvernement libre et qui ont les plus profondément attachés aux institutions libérales sont inévitablement entraînés dans le sillage des peuples qui acceptent un régime totalitaire, puisque ce dernier s’avère militairement plus efficace. S’ils tardent eux- mêmes à suivre de plus ou moins prés cet exemple, leur propre existence est rapidement mise en danger. Ainsi, le règlement du problème international constitue nettement la condition primordiale de toute réforme tendant à donner plus autonomie à la vie politique locale au sein de tout Etat et à permettre aux citoyens de mieux contrôler l’action de leur gouvernement. Conséquences économiques de la paix armée La paix armée tend toutes les forces économiques vers la destruction et non vers le progrès. Elle diminue le rendement du travail et constitue une entrave à l’élévation du niveau de vie des classes laborieuses, que rendrait possible une redistribution plus rationnelle et plus équitable des richesses sociales. Au cours des années de sa plus grande capacité productive, une notable partie de la population reste sous les armes et vit ainsi en parasite. Une autre partie s’emploie à transformer en casernes, canons, machines et appareils de guerre de toutes sortes les ressources matérielles qui devraient servir à construire des maison, à cultiver la terre, à répondre aux mille besoins normaux d’un pays. Avec les produits employés pour construire un seul grand cuirassé moderne, on pourrait loger gratuitement la population d’une ville de plusieurs dizaines de milliers d’habitants. Une conséquence économique aussi onéreuse apparaît à tous. Mais il y en a bien d’autres qui échappent à l’homme de la rue et qui n’en constituent pas moins un terrible fardeau pour la société. Les chemins de fer, les autostrades, les ports ne sont plus construits en vue d’un trafic normal, mais en fonction des nécessités militaires. Des subventions de plusieurs centaines de millions sont données tous les ans aux arsenaux et aux compagnies de navigation, afin de constituer la marine marchande indispensable au ravitaillement en temps de guerre. Au lieu de se spécialiser dans la fabrication d’articles que l’on pourrait manufacturer aux prix les plus bas, et d’obtenir les autres par échanges commerciaux, en profitant ainsi des énormes avantages de la division internationale du travail, chaque peuple s’acharne à produire tout lui-même; au fond, on semble ne plus apprécier aucun autre échange que celui des bombes que l’on peut se lancer réciproquement du haut des avions. Grâce aux droits de douane, aux contingentements, aux interdictions d’importation, aux primes à la production, toutes les collectivités nationales s’efforcent d’atteindre à une autarcie de plus en plus complète, afin de pouvoir vivre et se défendre, même coupées de toutes communications avec toute autre collectivité. Les politiques monétaires, bancaires, commerciales sont, elle aussi, toutes dirigées vers ces mêmes fins. De plus en plus, les dépenses militaires remplacent les dépenses sociales. Pour augmenter les premières, on est bien obligé de diminuer les autres. Les budgets des Etats ont beau absorber plus d’un quart de revenu national; du fait du gaspillage et de la réduction de productivité résultant de la paix armée, ils sont loin d’être au large; aussi ne trouve-t-on plus de marge pour les assurances sociales, la construction d’écoles ou de logements populaires, l’extension des services gratuits en faveur des classes pauvres. En fait, la moitié ou les trois quarts des entrées budgétaires sont absorbés par les dépenses militaires et les intérêts des dettes antérieures déjà contractées pour les mêmes besoins militaires. Ces considérations appellent encore la conclusion qui a déjà été formulée: la solution du problème international s’impose; c’est la condition préliminaire de toute réforme économique sérieuse. Conséquences spirituelles de la paix armée En période de paix armée, toutes les valeurs spirituelles sont faussées ou mutilées. La famille est tenue pour une simple fabrique de soldats. Des systèmes d’allocations, des taxes, des facilités ou des obstacles divers à l’entrée des carrières poussent les jeunes gens au mariage et à la procréation. On récompense publiquement les femmes qui ont beaucoup d’enfants, comme on prime les meilleurs reproducteurs dans les concours agricoles. Pour mieux préparer les enfants aux marches, au maniement des armes, à la discipline («croire, obéir et combattre»), on les soustrait, dès l’âge le plus tendre, à l’influence de leurs parents. L’école enseigne aux jeunes à tout sacrifier, même leur propre conscience, à la divinité de l’Etat; on les persuade que leur pays a toujours eu et aura toujours raison; on déprécie tout ce qui se fait de l’autre côté des frontières; enfin, on ne manque pas de leur faire considérer la guerre comme une merveilleuse aventure romanesque. Il se trouve naturellement des prêtres pour bénir les instruments de mort, pour placer leur autel au milieu des canons et faire passer pour paroles de l’Evangile les incitations à la haine et au massacre. A côté du fort de la halle qui sait encaisser les coups ou du champion de course, l’intellectuel apparaît comme un animal inférieur. La culture humaniste devient un luxe superflu; on la tient même en suspicion, puisqu’elle rend les individus plus conscients de leur personnalité, plus rétifs aux exigences de la vie de caserne, moins prêts à obéir en aveugles aux ordres du moindre gradé. Dés lors, ce que l’on nomme «intelligenzia» n’est plus qu’un ramassis de propagandistes et d’experts. On repousse les oeuvres ayant une valeur universelle; on dédaigne les recherches désintéressés; on exalte, au contraire, les oeuvres qui célèbrent les sentiments nationalistes ou les perfectionnements techniques qui accroissent le potentiel de guerre. Ainsi, dans la paix armée, c’est déjà la guerre qui accommode les âmes selon ses propres nécessités. Aucune réforme de l’éducation n’amènera les hommes à reconnaître la dignité de la personnalité humaine et l’importance de la solidarité, tant que n’aura pas été constitué l’organisme international assurant aux peuple une plus grand sécurité de vie. * * * La guerre totale, dès qu’elle sévit, signifie carnage, peste, destruction de notre civilisation. La simple préparation à la guerre comporte déjà la tyrannie, la misère et le retour à la barbarie. Ce n’est plus à l’intérieur d’un pays que la vieille distinction entre les forces réactionnaires et les forces de progrès revêt toute sa portée. Elle est bien plus valable, appliquée d’une part à ceux qui s’opposent à l’avènement d’un nouvel ordre international susceptible de niveler des différences entre les Etats et de rendre plus difficiles et beaucoup plus rare le recours à la guerre, de l’autre à ceux qui le favorisent. II. L’ANARCHIE INTERNATIONALE La première cause des guerres est l’inexistence d’un ordre juridique international, donc l’absence de toute réglementation des rapports entre les différents Etats. Il manque à la fois et le juge qui, sur la base d’une telle loi, prononcerait ses arrêts en cas de litige, et le gendarme empêchant les Etats de faire la justice eux-mêmes en leur imposant le respect des décisions intervenues. Jugements erronés sur les causes de la guerre Dire que le guerres ne sont que la conséquence du capitalisme, de la malignité humaine ou du nationalisme n’a pas grand sens. Certes, les marchands d’armes et certains groupes capitalistes peuvent avoir un intérêt direct à la guerre, mais il n’en résulte pas que leur désir, ou même leurs manoeuvres, suffisent à la provoquer. En théorie, à l’intérieur de chaque Etat, les minotiers pourraient trouver leur avantage dans une famine, les architectes auraient certes plus à construire si de grands incendies étaient fréquents. Néanmoins, les minotiers n’ont pas le pouvoir de provoquer des disettes et les architectes n’incendient pas les villes. Dans chaque Etat, l’appareil judiciaire parvient à constituer les digues nécessaires contre les forces dangereuses pour la vie collective. Dans le domaine international, si de telles digues juridiques existaient, les forces destructrices ne pourraient pas opérer d’aussi cruels ravages. Appuyés par leur gouvernement, des groupes capitalistes étrangers parviennent certes s’assurer l’exclusivité de certaines fournitures, à obtenir des concessions de travaux publics ou d’autres privilèges; ils opèrent surtout dans les pays faibles ou dans leurs colonies; même sans vouloir la guerre, ils y poussent, car leur action suscite des difficultés sans fin et des litiges internationaux dangereux. Cependant, ils ne peuvent ainsi mettre la paix en péril que du fait de l’absence de tout ordre juridique international. A noter, en effet, que si la capitalistes berlinois peut pousser à la guerre l’Allemagne contre la Grande-Bretagne, le capitaliste de Philadelphie, au contraire, ne peut rien pour précipiter la Transylvanie contre la Virginie. Cette différence est due à une circonstance toute simple: ces derniers Etats n’ont ni douane ni armée particulières, ils sont tous les deux soumis à une autorité supérieure – l’autorité fédérale – assez forte pour imposer le respect des lois reconnues dans l’ensemble du territoire des Etats-Unis. La seule socialisation des moyens de production ne constituerait pas non plus un remède suffisant contre la guerre. Tout comme un Etat capitaliste, un Etat collectiviste peut tendre à frustrer son voisin plus faible. Dans une société collectiviste, comme dans pays bourgeois, peuvent naître et s’envenimer des querelles idéologiques sur les diverses manières de comprendre et de pratiquer la vie sociale; des conflits économiques peuvent naître de l’inégalité des richesses; enfin, le désir de minière peut jeter le pays dans la guerre. Rien de plus instructif à cet égard que les multiples oppositions qui surgissent parmi les prolétaires entre blancs et noirs, travaillistes et marxistes, ouvriers qualifiés et non qualifiés. Certes, si tous les hommes étaient animés dans leurs rapports par des sentiments de fraternité évangélique, toute coercition légale serait inutile. Mais tant que les hommes seront ce qu’ils sont, l’intervention d’une autorité de justice sera indispensable dans les rapports internationaux, comme dans les relations entre individus. On ne peut pas considérer les sentiments nationalistes comme innés. Ces produits antisociaux sont nés de la politique; celle-ci peut donc aussi les faire disparaître. Les différences de langue, de race, de religion n’empêchent pas les cantons suisses de vivre en paix, tandis que la communauté de langage, de race, de religion et de coutumes semble aviver encore les différends entre Boliviens et Paraguayens. Si les cantons suisses ne s’étaient pas unis en une seule nation, il est vraisemblable qu’ils continueraient à se haïr et se combattraient encore, comme ils l’ont fait si longtemps. Si la Bolivie et Paraguay avaient conservé leur ancienne unité, il est probable que l’on n’aurait jamais entendu parler de patriotismes bolivien et paraguayen, farouchement dressés l’un contre l’autre. Le droit international Chaque Etat affirme aujourd’hui avec une brutale intransigeance son absolue souveraineté. Il n’admet pas que celle-ci puisse subir la moindre modification: il entend, quels que soient les cas, demeurer le juge unique de son droit. Pour défendre ce droit, il veut surpasser la force de ses ennemis éventuels, au besoin en s’alliant avec d’autres pays. La sécurité obtenus par un Etat a naturellement pour corollaire l’insécurité des autres. Le soi-disant «droit international» en fait, n’est pas un droit; en effet, son autorité tombe dés que disparaît la bonne volonté des parties. Dans tout accord international, la clause rebus sic stantibus (les choses étant ainsi) est pour le moins sous-entendue; un gouvernement ne se considère lié que jusqu’au moment où l’exécution des obligations résultant de l’accord apparaît à son insondable jugement contraire à l’intérêt de son pays. La manifestation, à la fois la plus grandiose et la plus grotesque, de la complète vanité du droit international actuel a été, en 1929, le Pacte Kellog, qui mettait la guerre «hors la loi». A peu prés tous le gouvernements du monde – et parmi eux ceux de l’Allemagne, de l’Italie et du Japon – se plurent à donner des preuves publiques de leur pacifisme en tuant légalement la guerre, en proclament officiellement qu’elle était morte. Discours à grand fracas, échanges de télégrammes entre chefs d’Etat, toasts, félicitations, articles de presse dithyrambiques, rien, absolument rien n’y marquait. Mais l’enfer aussi est pavé de bonnes intensions. En fait, le Pacte Kellog, qui ne prévoyant contre la guerre aucune sanction effective, laissa les choses suivre leur cours. Tout occupée à massacrer et à détruire, la guerre ne c’est sans doute même pas aperçue qu’elle avait été mise «hors la loi» par tant de gens bien intentionnés. L’arbitrage et le désarmement Tant que les Etats jouiront d’une souveraineté illimitée, aucun arbitrage ne pourra vraiment mettre fin à la guerre. Dans tous les accords tendant à déférer les conflits à une cour d’arbitrage, les Etats ont bien soin d’exclure les conflits dans lesquels ils verraient leur honneur engagé ou leurs intérêts vitaux compromis; ils se réservent ainsi le droit de soustraire à l’examen du tribunal d’arbitrage les litiges les plus graves. En 1903, les Etats de l’Amérique centrale avaient décidé de donner à une cour permanente une compétence générale pour trancher tous leurs litiges éventuels, mais au premier conflit grave, en 1917, l’état condamné refusa de se soumettre à la sentence et, aussitôt, tout le système s’écroule; il n’en pouvait être autrement. Tant que le droit dans les rapports internationaux procédera de la force, il est vain d’espérer que les Etats puissent s’entendre sur une politique de désarmement effectif. Au cours de conférences qui se sont réunies si souvent entre les deux guerres, et dont les rapports remplissent 14.000 pages, les experts se sont acharnés en vain à découvrir des critères en vue de la réduction parallèle des armements, afin de ne pas modifier le rapport des forces existences entre les adversaires éventuels. L’inanité d’une telle recherche est d’une grossière évidence: des moyens offensifs et défensifs égaux auront en effet un rendement singulièrement différant suivant les circonstances selon lesquelles ils seront employés. Même si les experts étaient venus à bout des problèmes qui leur étaient soumis, jamais les diplomates n’auraient pu s’entendre sérieusement: les Etats militairement plus faibles, mais susceptibles d’accroître leur appareil de guerre, n’auraient pu consentir à la consolidation du rapport des forces existantes; aucun Etat, d’ailleurs, n’était sincèrement disposé à accepter pour lui – même le contrôle qui seul pouvait assurer le respect des obligations contractées. Ainsi les conférences se réduisaient à des joutes absurdes, chaque pays essayant tour à tour de pousser les autres à des sacrifices effectifs qu’il était bien résolu lui – même à éviter. Assurer la paix des peuples grâce à des accords sur l’arbitrage ou le désarmement, c’est aussi vain que de vouloir maintenir l’ordre entre les individus sans code, sans juges, sans prisons, simplement en faisant signer à tout les citoyens l’engagement solennel de ne jamais se servir de bâtons, de couteaux ou de revolvers pour se venger ou pour imposer sa volonté personnelle. Dans le cadre international comme dans le cadre de l’Etat, la solution est la même. Il faut que l’Etat ait le pouvoir d’agir sur ses justiciables pour leur faire respecter la loi. Il faut qu’une force soutienne la loi internationale. Il faut que cette force soit plus grande que celle de chacun des membres de la communauté et si grande que personne et qu’aucun organisme même ne puisse se flatter de lui résister impunément. III. LA FAILLITE DE LA S.D.N. A la fin de l’autre guerre, il y eut une tentative sérieuse pour assurer la paix du monde. Pourquoi cette tentative a-t-elle complément échoué? La responsabilité de l’Amérique L’absence des Etats-Unis suffit-elle à expliquer que la S.d.N. ait manqué du prestige et la force qui lui auraient permis de maintenir l’ordre international? En réalité, la participation des Etats-Unis n’aurait pas fortifié la S.d.N. autant qu’il l’eût fallu. Tout comme les autres membres, ils auraient gardé leur souveraineté absolue et, par conséquent, auraient cherché, eux aussi, à utiliser l’institution genevoise surtout pour atteindre leurs objectifs nationaux. Lorsque le Japon envahit la Mandchourie, la France et l’Angleterre ne laissèrent pas porter la question devant l’assemblée de la S.d.N.; l’agression était absolument évidente, mais ces deux puissances craignaient d’encourir le ressentiment du Japon, qui aurait pu menacer leurs possessions en Orient. Au moment où se dessinait la menace d’agression italienne contre l’Abyssinie, Laval négocia des accords avec Mussolini, en s’engageant, en contrepartie d’avantages pour France, à ne pas aller au delà de sanctions collectives purement symboliques, et sans conséquences réelles pour l’Etat agresseur. S’il y avait eu des représentants des Etats-Unis au Conseil de la S.d.N., ils auraient, eux aussi, fait d’éloquents discours sur la «sécurité indivisible», comme leurs collègues anglais et français; mais, dans la pratique, toutes leurs décisions auraient été prises en fonction de l’intérêt propre des Etats-Unis et ils auraient appuyé l’un ou l’autre des blocs opposés, sans tenir aucun compte effectif du droit et des engagements pris aux termes du pacte. La faute des hommes d’Etat Celle-ci disent certains, est bien la cause profonde de tous les maux. La S.d.N., selon eux, n’a pas protégé efficacement la paix, parce que les gouvernements ne l’ont pas voulu. Ils n’ont pas respecté la parole donnée et se sont peu souciés des intérêts généraux de la civilisation. Ce sont les hommes qui ont échoué, non la S.d.N. Ainsi parlent les moralistes candides qui voudraient édifier l’ordre international sur ce qui devrait être et non sur ce qui est. Tant que les Etats maintiendront leur caractère individuel strict, «égoïsme sacré» restera la règle de conduite essentielle des hommes au pouvoir; n’importe quel pacte, n’importe quel traité ne sera plus, pour eux, qu’un «chiffon de papier» dès qu’il cessera de concorder avec les intérêts de leurs pays. Les hommes les plus moraux, les plus sincèrement pacifistes, ne sont plus que les représentants des intérêts particuliers de leur nation, dès qu’ils assument les responsabilités directes du pouvoir;la sécurité de leur pays devient leur objectif essentiel ; ils ne cherchent plus qu’à porter sa puissance militaire au plus haut point. Les gouvernants qui, dans un Etat, essaieraient de garder une optique universelle, tromperaient, en fait, la confiance de leurs concitoyens, à supposer, ce qui est peu probable, qu’il leur fût possible de se maintenir plus d’un moment au pouvoir. Dans le jeu des conflits internationaux, il seraient les victimes toutes désignées de leurs collègues étrangers moins scrupuleux; aussi pourrait-on, à juste titre, les accuser d’avoir, avec leurs idéologies abstraites, préparé l’asservissement de leur patrie. Etant donné le caractère essentiel de la S.d.N. et l’absence de toute autorité supérieure garantissant l’ordre international, il était naturel que les délégués n’eussent d’autre pensée que de chercher à résoudre chaque problème au mieux des intérêts immédiats de leur pays, sans jamais subordonner ceux-ci aux grands intérêts collectifs. La règle de l’unanimité Certains prétendent que la règle de l’unanimité et la faculté de démissionner sont les principales raisons de l’échec de la S.d.N.tous ceux qui raisonnent ainsi paraissent être victimes d’une erreur. Si, à la S.d.N., le vote d’un Etat avait eu une valeur égale à celui de n’importe quel autre Etat, une coalition de petits pays aurait pu, en fait, imposer sa volonté aux grandes puissances et disposer à leur propre avantage des ressources économiques et des forces armées de celles-ci. En se mettant d’accord, cinq Etats, représentant au total 5 millions d’habitants, auraient pu l’emporter sur la décision d’un Etat groupant 50 millions d’habitants. Evidement, une anomalie aussi injuste et aussi antidémocratique n’aurait jamais pu être admise par les grandes puissance. Mais, par ailleurs, l’attribution à chaque Etat d’un nombre de voix proportionnel au chiffre de ses habitants n’aurait jamais été acceptée, ni par les Etats les plus importants (ceux-ci comptent davantage sur le potentiel industriel et sur leur capacité politique que sur leurs forces démographiques), ni par les Etats plus petits (ces derniers auraient craint de perdre leur personnalité et de n’être plus que des pions isolés dans la main des grandes puissances). Il faut convenir que la règle de l’unanimité, même lorsqu’elle ne paralysait pas la S.d.N., mettait en jeu une procédure trop longue, empêchant, en cas de conflits internationaux, toute intervention de se produire à temps. Cette régle était la conséquence inévitable du principe de souveraineté que le pacte avait tenu à sauvegarder. Jamais, d’ailleurs, les petits Etats n’auraient accepté la prépondérance des grandes puissances au conseil, s’ils n’avaient pas eu l’assurance complète qu’aucun Etat ne serait jamais contraint de faire ce qu’il ne voulait pas; ainsi la règle d’unanimité constituait un expédient qui consacrait la situation de fait et consolidait les rapports de force existant entre les divers Etats. De la reconnaissance de la souveraineté absolue de tous les Etats membres résultait, comme un corollaire, le droit de se retirer de la S.d.N., mais l’effet de ce corollaire était la suivant: en cas de conflit international, n’acceptaient le jugement de la collectivité que les Etats qui voyaient un avantage pour eux dans la sentence intervenue. Si ce jugement leur paraissant désavantageux, ils donnaient le préavis exigé et démissionnaient. Une société formée d’Etats souverains ne peut pas être organisée démocratiquement et par suite ne constitue pas une société véritable; ce n’est rien de plus qu’une ligue, une alliance entre Etats poursuivant une action commune dans des questions pour lesquelles ils sont d’accord. L’absence de force armée On attribue encore la faillite de la S.d.N, non plus à un défaut de structure ou à un vice essentiel, mais au simple fait qu’elle n’a pas disposé de la force nécessaire pour exercer la police internationale. L’expression même «police internationale», lorsqu’elle est employée dans ce sens, prête à équivoque. Les opérations de police proprement dites sont exercées exclusivement à l’intérieur des Etats particuliers contre les individus qui violent les lois. Ces opérations requièrent l’emploi de forces relativement réduites, ne représentant qu’une petite partie de la population et de la richesse d’un pays, les criminels n’obtenant pas complicité ni l’appui de leurs concitoyens. Un gouvernement peut faire respecter la loi par les Etats: il ne trouve en effet en face de lui que des individus. La S.d.N., au contraire, avait à faire respecter la loi par les Etats: il ne s’agissait donc plus de simples opérations militaires, requérant l’emploi de forces considérables. Ces opérations devaient nécessairement être dirigées contre un pays tout entier, c’est-à-dire pratiquement contre touts ses habitants, qu’ils aient soutenu la politique de leur gouvernement, politique condamnée par la communauté, ou qu’au contraire ils l’aient combattue. Il est évident qu’en combattant ainsi un pays, on amenait le plus souvent toute la population à faire bloc autour du gouvernement, quelle que fût la responsabilité encourue par lui. Une fois lancée dans une pareille aventure, les chances de succès auraient été plus ou moins grandes, suivant la puissance ou la faiblesse de l’Etat à soumettre. Ainsi, la S.d.N. aurait été naturellement plus portée à imposer le respect de l’ordre juridique aux petits Etats qu’aux pays pourvus de trop grands moyens d’action dans ces conditions, sous le masque de l’ordre international, ce serait hypocritement cacher le désir d’hégémonie des grands Etats. D’ailleurs, mettre une force armée à la disposition d’une S.d.N. composée d’Etats entièrement souverains eût été mettre la charrue devant les boeufs. Du moment que la force armée constitue la preuve concrète de la souveraineté, aucun Etat ne peut consentir à la création d’une armée internationale qui serait susceptible de lui imposer là lui-même une volonté contraire à la sienne. Même en supposant résolues mille difficultés de principe, comment pourrait-on pratiquement organiser une telle armée? La nomination du commandant en chef, obéissance des soldats dans le cas où ils seraient contraints de combattre leurs compatriotes, la préparation des plans de guerre, autant de problèmes qui ne peuvent être résolus que par un gouvernement unitaire chargé de la défense l’union fédérale et disposant de soldats jouissant du droit de citoyenneté fédérale entraînant un sentiment de fidélité envers le gouvernement de cette grande communauté. * * * La S.d.N. a fait faillite pour les mêmes raisons que la Confédération américaine de 1781: «La vérité essentielle, écrivait Hamilton dans le Federalist, c’est qu’une souveraineté sur des Etats souverains, un gouvernement au-dessus des gouvernements, une législation pour des collectivités et non pour des individus, sont non seulement théoriquement absurdes, mais encore, en pratique, ils bouleversent l’ordre et les buts de la politique civilisée, parce qu’ils mettent la violence à la place de la loi, c’est-à-dire la coercition destructrice de l’épée à la place de la contrainte pacifique et salutaire de la magistrature». Grâce à l’intelligence et à la compétence d’hommes tels que Washington, Hamilton, Franklin, Madison, l’échec de la Confédération américaine de 1781 a été suive de l’établissement de la Constitution fédérale de 1789, sous l’égide de laquelle les EtatsUnis ont atteint leur prospérité et leur grandeur actuelles. Il nous appartient de partir de la faillite de la S.d.N. pour créer une Constitution fédérale des peuples d’Europe. IV. LA SOLUTION FÉDÉRALISTE Lorsque les guerres sont devenues endémiques, il n’y a plus qu’un moyes de passer du règne de la force au règne du droit dans les rapports internationaux; ce remède, c’est l’organisation soumettant les peuples à une souveraineté unique. Unité impériale et unité fédérale Des formes diverses que peut prendre une telle organisation, il n’y a pas lieu de considérer ici, puisqu’elle ne correspond pas au but de notre étude, la centralisation amenant les peuples à se fondre dans un seul Etat, comportant une administration unique, un seul gouvernement, une citoyenneté assurant à tous des droit égaux. Cette forme peut réussir en permettant l’heureux développement d’institutions libres – on l’a bien vu en Italie dans les cinquante ans qui ont suivi l’unification – encore faut-il qu’elle n’englobe que des peuples ayant déjà une grande homogénéité ethnique, une suffisante ressemblance spirituelle, un niveau de vie sensiblement égal, un fonds commun de traditions religieuses, artistiques, littéraires. Le modes d’organisation qui retiendront notre attention sont le suivants: 1. l’impérialisme assujettissant les peuples au pouvoir de celui qui a la prédominance militaire. 2. le fédéralisme, super-Etat auquel les Etat fédérés transfèrent la part de souveraineté indispensable à la gestion commune de toutes les affaires d’intérêt général, alors qu’ils conservent les pouvoirs qui leur permettent de résoudre dans l’indépendance les problèmes qui leur demeurent particuliers. Ces deux formes d’organisation peuvent amener la suppression de toute guerre sur l’ensemble du territoire auquel elles s’appliquent. Mais, différence essentielle, la première forme révolte les peuples conscients de leur personnalité et du sens de leur ancienne autonomie. Même si elle réussissait momentanément, par le fer et par le feu, à unifier les peuples les plus différents sous une commune servitude, en fait, ces peuples, frappés dans leur dignité, n’apportent plus leur contribution au progrès de l’humanité. Le fédéralisme, au contraire, permet aux peuples les plus différents par la race, la religion, la langue, de vivre pacifiquement entre eux, comme en Suisse, sans renoncer en rien au libre développement de leur génie individuel. Cette solution fédérale, libérale entre toutes, a pour elle tous les hommes de tendance progressiste qui songent à sortir du marasme actuel et à éliminer l’anarchie internationale, pour garantir enfin aux peuple leurs indispensable libertés. Caractéristiques de l’organisation fédérale Les unités de base de l’organisation fédérale ne sont pas les Etats, mais les individus. Le gouvernement fédéral ne se compose pas de délégués des gouvernements des divers Etats, responsable vis-à-vis de ces gouvernements, mais de représentants choisis par tous ceux qui sont, non seulement citoyens des Etats fédérés, mais aussi citoyens de la fédération; c’est devant ces citoyens que les représentants restent responsables. Ainsi la constitution met sous la sauvegarde de la fédération ces droits, conditions indispensables de l’exercice des libertés politique. On ne conçoit pas qu’un Etat membre d’une fédération puisse vivre en régime totalitaire, puisque ce dernier supprime la vie des partis d’opposition et abolir les libertés de presse et d’association; comment, dans un tel Etat, le citoyens seraient-ils en mesure de choisir librement leurs représentants au gouvernement fédéral? La Fédération étant un véritable Etat et non une simple alliance entre Etats souverains sa constitution associe définitivement tous les peuples fédérés; aucun d’eux n’a donc le droit de se retirer de l’association et de reprendre sa complète indépendance sous un gouvernement particulier. Le fait qui les unités de base de la fédération ne sont pas les Etats, mais les individus, permet d’appliquer le principe démocratique aux délibérations des assemblées législative. Il amène les forces opposées à se grouper conformément à leur orientation politique et non par Etats distincts. En conséquence, les campagnes pour les élections fédérales débordent les limites de chaque Etat membre et les représentants dans les assemblées législatives votent selon leurs opinions, indépendamment de toutes questions de citoyenneté nationale: socialiste, par exemple, soutient le socialiste d’un autre Etat membre de la fédération contre son compatriote conservateur; les conservateur, de leur côté, sont soutenus par les conservateurs des autres Etats contre leurs compatriotes socialistes. Certes, c’est là le plus solide fondement de l’unification: la communauté de sentiments et d’intérêts au sein des partis étendant son action sur tout le territoire fédéral, détruisant, ou tout au moins atténuant, préventions, haines et orgueils nationalistes. Dans les limites de sa compétence, la fédération a une juridiction direct sur tous les citoyens. La déjà a été la raison essentielle du grand succès de la Constitution américaine de 1789. tant qu’un gouvernement central avait dû recourir aux Etats pour encaisser les impôts, enrôler les soldats, faire exécuter les jugements des tribunaux, toute son action était subordonnée au bon vouloir des gouvernements distincts; aussi leur égoïsme naturel avait amené la confédération au bord du désastre, malgré la grande valeur et l’incomparable prestige de son chef. «Influence is not government!» disait Washington, en constatant que le système gouvernemental l’empêchait d’obtenir, en fait, les soldats, le ravitaillement et l’argent qui lui avaient été promis par les Etats pour la lutte commune contre l’Angleterre. La paix conclue, la situation financière glissait vers l’effondrement: des émeutes grondaient de tous côtés; on ne réussissait plus à payer les dettes, ni même les pensions militaires; les puissances étrangères, ne respectant pas les accords conclus, traitaient directement avec les Etats distincts. Du fait de l’anarchie, il y avait péril de dictature et même de tyrannie. La péril fut écarté et l’unité américaine prit vraiment corps, grâce à la création d’organismes relevant directement du gouvernement central et imposant le respect de la loi sur toute le territoire des différents Etats, cette fois réellement unis. Tâches de la fédération Une fédération se constitue surtout pour remplir trois tâches: relations avec l’étranger, défense du territoire, protection de la paix à l’intérieur de la fédération. Elle doit donc avoir: 1. un gouvernement qui se réserve le questions de politique étrangère; 2. une armée obéissant au gouvernement et remplaçant les armée nationales; 3. un tribunal suprême jugeant toutes les questions relatives à l’interprétation de la loi fédérale et tranchant tous les litiges, soit entre Etats membres, soit entre les Etats et la fédération. Ce n’est pas ici le lieu d’étudier les problèmes constitutionnels relatif à l’établissement de l’ordre fédéral: système de la chambre unique ou des deux chambres; pouvoir exécutif assumé par un cabinet choisi par le parlement ou par un président directement élu par les citoyens; forme de représentation; mode de nomination des magistrats fédéraux; procédure en vue des modifications constitutionnelles, etc. Il n’est pas non plus utile de définir ici les attributions complémentaires qu’il peut y avoir lieu de confier à la confédération. La répartition des pouvoirs entre l’Etat fédéral et les Etats membres dépend évidemment des circonstances politiques de sa formation, de l’étendue des territoires fédérés, du degré d’homogénéité des peuples unis, ainsi que de bien des facteurs qui ne sont pas tous prévisibles. Il convient toutefois d’observer que l’Etat fédéral serait incapable de remplir les trois tâches essentielles analysées cidessus, s’il ne pouvait au moins contrôler le commerce avec l’étranger, les mouvements d’émigration, la monnaie, l’administration des colonies. A noter encore que l’organisation générale des grandes voies de communication, la distribution d’énergie électrique, la lutte contre les monopoles, une partie de la législation sociale constituent des missions qui peuvent être remplies, avec plus d’ampleur et de compréhension des intérêts généraux, par les organismes fédéraux que par les Etats particuliers. L’unification économique renforce considérablement l’unification politique. Les liens fédéraux se consolident d’autant plus rapidement que l’union a des effets heureux sur l’économie; il y a tout intérêt à ce qu’un Etat fédéral multiplie l’interpénétration de toutes les activités économiques; ainsi l’unité s’en racisme très profondément et peut ensuite résister aux plus violents tempêtes. V. L’EUROPE ET LE PROBLÈME ALLEMAND La paix et la liberté ne pourront vraiment être garanties que si l’on arrive à donner tout son développement à l’organisation fédérale. Notre but doit donc être la fédération de tous les peuples de la terre. Un bel but cependant ne peut être qu’éloigné, en raison des différences de civilisation et du fait même que certaines de ces civilisations sont incompatible avec un régime fédéral représentatif. Ce qui importe actuellement, c’est donc de former un premier noyau fédéral, noyau qui rendra possible ultérieurement tous les développements souhaitables. L’organisation européenne dans le cadre de l’organisation mondiale A la fin du présent conflit, il sera indispensable de faire renaître une Société des Nations, étendue cette fois au monde entier. Un tel organisme pourra contribuer dans une grande mesure au maintien général de la paix à condition toutefois qu’il ne soit pas, comme la défunte S.d.N., chargé de tâches irréalisables si l’on maintient la souveraineté absolue des Etats. Il sera donc essentiel qu’un nouveau pacte ne comprenne pas de dispositions analogues à celles de l’article 16 sur les sanctions, de l’article 19 sur la révision des traités. Il conviendrait de se borner à créer un organe de coordination dans lequel s’intégrerait le travail diplomatique normal des diverses chancelleries et qui faciliterait la collaboration des gouvernements dans toutes le questions d’intérêts communs. Une telle organisation n’aurait pas grande efficacité, si on ne tentait pas de détruire les principales causes de conflits possibles. Le foyer le plus dangereux est certainement l’Europe, puisque, en seule génération, elle a été à la fois le principal théâtre et le cause déterminante le deux guerres mondiales. L’anarchie internationale a fait de notre petit continent un vrai nid de vipères. Qu’il suffise de citer quelques-uns des problèmes résultant de l’absolue souveraineté des Etats, problèmes qui ne peuvent trouver de solution réelle que dans le fédéralisme, si l’on tient à garantir enfin liberté et paix en Europe, ce qui est le seul moyen de les garantir aussi dans le monde: unité des groupes nationaux, frontières naturelles, utilisation économique des ressources, accès à la mer réclamé par des pays à l’intérieur du continent, régime des détroits et des fleuves traversant le territoire de plusieurs Etats, intégration des systèmes économiques nationaux dans un espace vital suffisant, questions de l’Irlande, des Balkans, antagonismes franco-allemand et anglo-allemand... Le bloc des 80 millions d’Allemands Le problèmes allemand ayant une importance centrale, il convient de lui réserver la plus grande attention. L’existence d’un bloc compact de 80 millions d’Allemands, doté d’un outillage industriel extrêmement puissant, dominé par des junkers et des magnats à mentalité féodale, influencé par la doctrine du «Herrenvolk», pourvu d’une force d’expansion presque illimitée, représente pour tous les autres peuples européens un danger d’asservissement et de mort. A la fin de la guerre, tous les pays ayant subi les horreurs de l’invasion ou la menace imminente du plus grand désastre, tiendront à ce que l’Allemagne soit mise par le nouvel ordre européen dans l’impossibilité complète de nuire. Comment atteindre ce but? Ceux qui se laissent aller à la fièvre nationaliste et au ressentiment voudraient imposer à l’Allemagne une paix carthaginoise. Une telle paix aurait pu être imposée par Hitler, mais la coalition de trois grandes puissances ne peut pas ce qu’aurait pu le Führer, justement parce que c’est une coalition. Trois puissances seront toujours loin d’avoir absolument les mêmes intérêts. On conçoit donc difficilement qu’elles puissent être longtemps d’accord sur une politique d’écrasement de l’Allemagne. Dès le lendemain de l’autre guerre, l’Allemagne sut, en diverses occasions d’importance, obtenir l’appui de l’Angleterre. Celle-ci reprit en effet sa politique d’équilibre des puissances. Elle craignait l’hégémonie française sur le continent; aussi permit-elle à l’Allemagne de réarmer, dans l’espoir, d’ailleurs, de la dresser contre le «péril bolcheviste». Cependant, en 1939, nous avons vu la Russie se mettre d’accord avec l’Allemagne la laisser occuper les Etats baltes. Les Allemands ne manqueront pas d’essayer à l’avenir de profiter de semblables divergences de vues pour retrouver une part de ce qu’ils auront perdu avec la défaite. Ces efforts se produiront, quelles que soient les conditions imposées par le traité de paix. Pour peu qu’ils conservent leur régime démocratique, ni les Etats-Unis ni Angleterre ne pourront continuer à exercer le long contrôle nécessaire sur l’Allemagne. Avec la liberté de la presse et de libre élections, l’opinion publique ne permettra pas aux gouvernements anglais et américain de traiter, pendant une longue période, 80 millions d’Allemands comme s’ils étaient tous des criminels; elle ne permettra pas non plus le maintien très prolongé d’une armée d’occupation en Allemagne. Assez vite, les classes laborieuses se solidariseraient avec les ouvriers allemands «victimes du capitalisme»; elles ne voudraient pas partager la responsabilité d’une politique affamant des millions d’enfants, de femmes et de vieillards, privant les «camarades allemands» de leur droit politique, de leurs titres à la dignité d’hommes. L’Angleterre et les Etats-Unis ne pourraient continuer longtemps à tenir l’Allemagne sous le joug qu’en se transformant eux-mêmes en Etats autocratiques et totalitaires. Conséquences d’une paix carthaginoise Examinons les principales conséquences économiques d’une paix aussi dure. Pour détruire le potentiel de guerre allemand, détruire l’industrie des armements ne suffirait pas; il faudrait encore réduire considérablement les possibilités de l’industrie électrique, les transports et beaucoup d’autres industries accessoires ou complémentaires des premières. De telles mutilations, après les destructions de la guerre qui ont déjà tant réduit l’outillage économique de notre continent, seraient des marques désespérantes de folie. Si l’on ne tient pas à mourir de faim, mais au contraire à reprendre au plus tôt une vie normale, loin de continuer en temps de paix les destructions de la guerre, il faut essayer de tire profit du moindre établissement de la moindre machine et faire travailler tout ouvrier disponible. Exiger des Allemands le paiement complet des dommages de guerre, indépendamment de leur capacité de paiement, signifierait leur asservissement pour toujours aux vainqueurs, la renonciation des Alliés à utiliser leurs qualités d’invention et d’organisation dans le domaine industriel et commercial. On n’ignore plus l’étroite solidarité qui relie l’économie des divers pays de notre continent. La prospérité de l’Allemagne – marché important de vente et d’achat pour les autres pays – est condition nécessaire de bine – être de toute l’Europe; celui qui vend a intérêt à ce que son client soit riche, et celui achète a intérêt à ce que son fournisseur soit outillé pour produire au plus bas prix. Même si les vainqueurs étaient en mesure d’imposer une paix carthaginoise et disposés à en payer le prix, combien de temps une telle paix pourrait-t-elle durer? Faire du peuple allemand un nouveau peuple maudit, le maintenir divisé, dans la sujétion et la misère, aboutirait à la création d’une poudrière dans le centre de l’Europe. Personne ne peut raisonnablement penser que 80 millions d’Allemands – après les innombrables preuves qu’ils ont données de leurs solidarité nationale, avec leurs traditions communes de gloire militaire – se satisferaient du démembrement de l’Allemagne, accepteraient de rester sous la tutelle de l’étranger et de travailler à son profit sans espoir de rédemption. Quelle que soit la propagande employée par leurs oppresseurs pour faire abandonner aux Allemands leurs idées nazistes, leur donner une éducation démocratique, les habituer à la collaboration pacifique avec les autres peuples, la violence d’un terrible «Diktat» donnerait des résultats opposés à ceux que l’on recherche. Très vite surgirait un nouvel Hitler qui se dresserait contre les injustices subies par son pays; il ferait appel aux sentiments nationalistes, promettrait la résurrection et la vengeance, et aurait ainsi derrière lui toute l’Allemagne, donc la facilité de mettre, au moment de son choix, le feu aux poudres. L’Allemagne dans la Fédération européenne L’Europe a besoin de l’Allemagne. Il faut que les 80 millions d’Allemands soient amenés à collaborer pacifiquement à la vie des autres peuples européens, si l’on ne veut pas qu’ils restent le poison mortel, le cancer de notre civilisation. Pour croire à l’impossibilité d’un tel résultat, pour se persuader que le peuple allemand ne peut être que le tyran ou l’esclave des autres peuples européens, il faut oublier les dizaines et même les centaines de milliers d’Allemands qui sont morts ou qui languissent dans les camps de concentration et les prisons, ou qui ont dû s’exiler parce qu0ils refusaient d’être associés, même passivement, à la politique du Führer. Il n’est que juste d’ailleurs de se souvenir que les jugements qui frappent actuellement le peuple allemand ont déjà été formulés contre le peuple anglais pendant les périodes d’expansion impérialiste, ainsi que contre le peuple français pendant et après l’ère napoléonienne. Indiscutablement, tous les criminels de guerre devront être sévèrement châtiés, mais le peuple allemand doit être placé dans des conditions telles qu’il puisse reprendre sa place dans le concert des peuples européens avec une parité totale de droits et de devoirs. Cela n’est pas possible si l’Allemagne ne fait pas partie de la Fédération des Etats-Unis d’Europe. Seule une solution de cet ordre pourra réduire au minimum l’opposition de l’Allemagne aux mesures transitoires qui seront indispensables pour assurer la vie des institutions libérales, en Allemagne même: accès au pouvoir d’éléments sincèrement démocratiques, destruction administrative, éducation antinaziste, etc. Il faut que de telles mesures, loin de paraître prises en haine par le peuple allemand, témoignent par elles-mêmes du désir d’amener ce peuple à la même situation que tous ceux qui relèveront de l’organisation fédérale commune. Seule la création des Etats-Unis d’Europe parviendra à désarmer l’Allemagne pour toujours, sans l’humilier et, par conséquent, sans exaspérer ses sentiments nationalistes; en effet, simultanément, les autres Etats renonceront à leurs armées, armées qui seront toutes remplacées par les forces militaires fédérales. Seule l’organisation fédérale sera à même d’assurer la sécurité collective, sans détruire le potentiel industriel allemand; seule elle pourra utiliser, dans l’intérêt commun des peuples, les industries lourdes et les industries chimiques, ainsi que toutes les autres grandes industries allemandes; elle placera celles-ci sous un contrôle rigoureux, mais ce contrôle jouera exactement dans les mêmes conditions pour les industries de même nature des autres pays. VI. L’UNITÉ EUROPÉENNE L’Europe n’est pas seulement la partie la plus malade du monde et celle qu’il convient de guérir de toute urgence si l’on veut établir la paix et la justice dans univers. Pour des motifs d’ordre économique et spirituel, c’est aussi la zone la plus susceptible d’être immédiatement unie en une organisation fédérale. La physionomie économique de l’Europe La contiguïté de tous les pays du continent a créé une interdépendance si étroite entre leurs intérêts que leur division en 26 systèmes douaniers et 13 systèmes monétaires était, au moment où a éclaté la guerre, beaucoup plus anachronique et absurde que la subdivision, avant 1850, de l’Allemagne en 39 Etats et de l’Italie en 7 Etats, pourvus d’un système douanier. En 1840, Sir Robert Peel passait ses vacances à Rome; rappelé à Londres par une crise ministérielle, il se fit indiquer l’itinéraire le plus court et le moyen de communication le plus rapide. Il dut constater qu’il lui faudrait, pour se rendre de Rome à Londres, exactement autant de temps qu’à Jules César, cinquante ans avant Jésus-Christ. Avec le progrès de la technique des transports, les distances d’aujourd’hui devraient à peine compter, puisque l’aviateur qui traverse le continent ne peut même pas remarquer les frontières des pays qu0il survole. Cependant, l’organisation internationale reste, en gros, ce qu’elle était lorsqu’on voyageait en diligence et que l’on ne connaissait ni le télégraphe ni la radio. En unifiant l’Europe, on pourrait donner le meilleure solution technique au problème de la production et de la distribution internationale de l’électricité; il serait possible, en effet, d’utiliser à plein les sources d’énergie actuellement perdues du fait de l’impossibilité de toute utilisation locale. Les divers systèmes de production électrique seraient combinés de manière à compenser les déficiences saisonnières de certaines régions par l’excédent dont disposent d’autres zones aux mêmes époques. L’unification de l’Europe permettrait également la coordination des grands autostrades des différents pays européens; conçue avec ensemble et intelligence, cette coordination doterait l’Europe d’un système précieux de très grandes voies; il serait, par exemple, possible de créer une transversale transalpine, une grande ligne allant des Balkans à la Baltique, une longitudinale Paris-Vienne-Athènes, une autre Paris-BerlinVarsovie-Moscou, comme le proposait, dés 1931, le mémorandum du B.I.T. pour le problème du chômage. L’unification faciliterait, dans les mêmes conditions, l’aménagement harmonieux des voies navigables; le mémorandum déjà cité prévoyait notamment le rattachement du Rhône au Rhin, la liaison des voies navigables de l’Allemagne du Nord avec le Danube, etc. Beaucoup d’autres réalisations des plus importances sont rendues possibles par la technique moderne. L’envergure des moyens dont dispose celle-ci entraîne, en effet, la conception de très vastes projets, dépassant le cadre national. La plupart du temps, la subdivision du continent en de nombreux Etats souverains, jaloux d’un de l’autre et ayant mutuellement peur de leur puissance, empêche la réalisation de ces plans, qui pourraient cependant porter à un niveau encore inconnu les ressources économiques dont dispose le continent. Rappelons pour mémoire, que le projet d’un tunnel sous la Manche a déjà été conçu depuis de longues années et que ce ne sont pas des raisons techniques qui en ont empêché la réalisation. Les échanges commerciaux de l’Europe Naturellement, les échanges commerciaux sont plus faciles entre les pays européens qu’entre ceux-ci et les Etats situés dans un autre continent. A l’exception de l’Angleterre, tous les pays européens envoient en Europe même la majeure partie de leurs exportations. Tous, sauf l’Angleterre et la France, reçoivent des autres pays la majeure partie des marchandises qu’ils importent. Si c’est que, par politique, elles ont prévu des tarifs préférentiels pour maintenir des liens très intimes avec les diverses parties de leur empire. En 1935, le commerce intra européen, l’U.R.S.S. non comprise, a constitué 64% de la valeur globale des exportations européennes et 54% de la valeur globale des importations. (A noter que c’est la dernière année qui n’a pas été trop influencée par des conjonctures politiques ou économiques exceptionnelles: en 1936, il y eut en effet la guerre italo-éthiopienne; en 1937, le boom; en 1937-38, la guerre d’Espagne et l’accumulation des stocks en prévision d’une nouvelle guerre générale.) le commerce de l’Europe avec le reste du monde représentait donc, en 1935, seulement 36% des exportations et 46% des importations des pays européens. Etant donné que la population de l’Europe (toujours l’U.R.S.S. non compris) est le 19% de celle du globe, il en résulte qu’un Européen achète en moyenne à un Européen cinq fois plus qu’à un habitant des autres continents; à un Européen, il vend presque vingtquatre fois plus qu’à un habitant des autres continents. La publication de la S.d.N.: Le commerce de l’Europe (Genève 1941), dont nous avons tiré ces chiffres, fait ressortir que ces données seraient à peine modifiées si l’on tenait compte des statistiques concernant l’U.R.S.S. La solidarité économique des pays du continent européen paraît encore plus évidente si l’on retient un fait essential: la moitié, en effet, du trafic de l’Europe avec les Dominions britanniques, les Indes et les territoires européens d’outre-mer pour lesquels existaient des tarifs préférentiels, sans lesquels les échanges entre l’Europe et ces pays d’outre-mer auraient été sérieusement réduits. Si l’Angleterre exportait vers l’Europe continentale moins d’un tiers en valeur de l’ensemble de ses exportations et si elle importait d’Europe moins d’un tiers de la valeur globale de ses importations c’était, en grande partie, du fait des accords d’Ottawa. Son commerce impérial était supérieur de 7% à son commerce avec l’Europe, mais naturellement ce fait ne pouvait résulter que de la politique de l’Angleterre vis-à-vis de son empire. La physionomie morale de l’Europe L’Europe, on ne saurait trop le remarquer, a déjà une unité spirituelle. On s’en aperçoit facilement lorsque l’on comparse sa civilisation à celle de l’Asie et à celle du nouveau monde. Cette unité spirituelle est née avec l’Empire romain. Nourrie de culture hellénique et de pensée chrétienne, elle s’est de plus en plus affirmée à travers les événements qui, pendant des siècles, ont soulevé en même temps tous les peuples du continent à travers ces grands courants de pensée qui tendaient à donner aux divers époques une physionomie et un ton uniques. L’influence de la papauté et des mouvements monastiques, celle de la féodalité et de l’Empire, celle des croisades, de la Renaissance et des universités, de la Réforme et de la Contre-réforme, de l’absolutisme, puis de la Révolution française, du romantisme, puis de l’ère des nationalités, du parlementarisme, de la démocratie et du socialisme, ont de plus en plus développé ne véritable communauté d’âme. En effet, elles ont comporté beaucoup d’expériences vécues par tous les peuples de notre continent. Tous ont dû affronter les même grands problèmes et ceux-ci forment la trame de leur histoire générale, comme de leurs histoires nationales particulières. Les Européens ont désormais en commun un certaine manière de vivre, de sentir, de réagir devant les grandes questions; ils ont la même conception de la vie familiale et des rapports entre les différentes classes sociales. En dépit de tous les litiges internationaux et même de la guerre des milliers d’Européens, appartenant à tous les pays d’Europe – pourquoi ne pas dire qu’ils sont le sel de leur terre? – ont la même «Weltanschauung», les mêmes aspirations progressistes et, pardessus les frontières, s’entendent bien mieux entre eux qu’ils ne réussissent à s’entendre avec beaucoup e leurs compatriotes. Ces facteurs économiques et spirituels peuvent donner, dés le début, une grande solidité à l’unité fédérale de Europe. Non seulement cette unité fédérale est appelée par les besoins de heure, mais toute l’histoire la prépare déjà, et elle aura beaucoup plus de solidité que n’en pourraient avoir d’autres systèmes fédéralistes qui tendraient à unir un certain nombre de peuples européens avec des peuples d’autres continents. Parmi ces constructions, citons, par exemple, le projet de L. Curtis (le conseiller écouté du gouvernement anglais, au moment de la constitution du Sud-africain après la guerre des Boers) tendant à l’union des peuples du Commonwealth; l’union des Américains des Etats-Unis avec les Anglais et les peuples européens bordant la côte d’Atlantique, projet préconisé par Clarence Streit (le journaliste américain dont le livre Union Now a été le départ en 1938, du mouvement de la «Federal Union» en Amérique). ** * A tous les hommes qui pensent, les guerres entre Européens semblent aujourd’hui des guerres civiles, des guerres entre frères ennemis. Ils cultivent le même champ: si, jusqu’ici, ils se sont haïs et entre-déchirés, c’est parce que leur maison empêche toute cohabitation pacifique. Mais, la guerre actuelle finie, cette maison sera presque complètement écroulée. Pourquoi ne nous proposerions-nous pas de la reconstruire de manière que tous puissent l’habiter en paix, avec des droits et des devoirs égaux? dans ces nouvelles conditions de vie, il nous serait bien plus facile de mettre en pleine valeur, pour le plus grand profit de toute l’humanité, donc pour le nôtre, notre champ, c’est-à-dire la vieille Europe. VII. LES ÉTATS-UNIS D’EUROPE Il est difficile de déterminer, dés maintenant, les limites territoriales des Etats-Unis d’Europe, qu’il faudra créer dés la conclusion de la paix. Il semble en tout cas qu’il faudra au moins commencer par unir le quatre grandes puissances de l’Europe occidentale: Angleterre, France, Allemagne et Italie. La position de l’Angleterre Sans l’Angleterre, les autre pays d’Europe ne consentiraient pas à s’associer par des liens fédéraux à l’Allemagne; seule l’Angleterre peut former un contrepoids suffisant à un bloc de 80 millions d’Allemands. Ce n’est pas tant ici la force démographique et économique de l’Angleterre qui compte que l’éducation politique que le peuple anglais doit à ses traditions de «self-gouvernment». Si l’Angleterre n’y participait pas, la fédération aurait bien du mal à surmonter, pas des méthodes démocratiques, les difficultés du début. Sir walter Layton, l’éminent économiste anglais, a exposé, le 3 mars 1944, à l’Université d’Oxford, un bien curieux projet: il s’agirait d’une organisation fédérale qui grouperait tous les Etats européens, à l’exception de l’Angleterre et de l’U.R.S.S.. Sans faire partie de la fédération, ces deux grandes puissances exerceraient, en commun avec les Etats-Unis, une sorte de tutelle supérieure sur la dite fédération. C’est à ces trois puissances qu’il appartiendrait de garantir ensemble le respect d’une nouvelle loi internationale sur le continent. Reconnaissons tout de suite qu’un tel système est absolument irréalisable. Il suppose, bien légèrement une communauté permanente d’intérêts et d’inspiration, chez trois grandes puissances victorieuses; mais, en outre, il répugne profondément à notre conscience d’hommes libres; il soumettrait, en effet, tous les peuples d’Europe, toujours à un protectorat constituant une sorte de nouvelle Sainte-Alliance. Nous pensons que l’Angleterre doit faire partie de la future Fédération européenne et assumer aussi, à la fin de la guerre, en tant que grande puissance victorieuse, une fonction de guide et d’inspiratrice. Cette solution présente évidemment des dangers. L’organisation fédérale pourrait, entre les mains des réactionnaires anglais, devenir un instrument en vue d’«angliciser» à leur profit le continent. Notre tâche, la tâche de tous les hommes de tendance progressiste appartenant à des pays européens autres que l’Angleterre, sera d’empêcher les impérialistes britanniques d’angliciser l’Europe et de parvenir, au contraire, grâce à une activité intelligente, à «européaniser» l’Angleterre. Le Commonwealth britannique La perspective d’une Fédération européenne avec participation de l’Angleterre soulève d’autres problèmes. Comme cette étude n’a d’autre but que d’être une introduction, nous n’évoquerons que les plus importants d’entre eux. Nous ne nous dissimulons d’ailleurs pas que nous entrons ici dans un domaine difficile et que toutes les solutions que nous proposons pourront prêter à discussion, malgré tout le zèle avec lequel nous essaierons de rester fidèle aux principes essentiels de l’Union fédérale européenne. L’une des premières questions que l’on peut poser est celle-ci: que deviendra le Commonwealth britannique? L’Angleterre consentira-t-elle à ce qu’il soit dissous? Il ne nous semble pas que la participation de l’Angleterre aux Etats-Unis d’Europe doive entraîner une telle conséquence. C’est d’ailleurs ce que reconnaissent d’éminents spécialistes du droit constitutionnel qui ont particulièrement étudié cette question. A noter que les Anglais excellent à trouver des formules juridiques d’une grande efficacité comme compromis, inspirées des états de fait existants, et qu’en somme il importe assez peu que de telles formules puissent, un regard d’une théorie trop abstraite du droit, paraître quelque peu absurdes. N’avons-nous pas vu récemment le Canada entrer dans l’Union panaméricaine, union de défense dirigée par les EtatsUnis, naturellement rompre en rien les liens qui le rattachent à la couronne britannique? Il va de soi que l’attitude des différents Dominions, à l’égard d’une Fédération européenne, serait déterminée par des intérêts très divers. Le Canada est déjà dans l’orbite des Etats-Unis d’Amérique; ainsi il préférerait probablement l’union avec eux à la participation plus ou moins étroite à une Fédération européenne. Au contraire, malgré leur éloignement, l’Australie et la Nouvelle-Zélande dépendent si étroitement de l’Angleterre et de l’Europe, au point de vue de leur prospérité économique, qu’il serait plus facile de les amener à devenir membres de la fédération. Elles seraient poussées d’ailleurs par des raisons militaires, puisqu’elles ont besoin de se défendre contre le «péril jaune». Si les colonies anglaises et françaises passaient sous le contrôle de la fédération, celleci aurait à administrer la plus grande partie de l’Afrique. Dans ces conditions, l’adhésion de l’Afrique du Sud ne ferait guère de doute. D’autant plus qu’elle serait aussi poussée par les mêmes raisons de défense que l’Australie et Nouvelle-Zélande. Même si les Dominions refusaient de devenir membres de la fédération, l’Angleterre, tout bien examiné, aurait encore intérêt à y adhérer. Pour s’y déterminer, il lui suffirait de comprendre qu’il est impossible à l’Europe de se fédérer sans son concours actif et que, d’autre part, hors de l’unification fédérale, l’Europe ne pourrait choisir qu’entre le chaos et la soumission à l’Etat militairement le plus fort. L’importance d’un marché européen unifié ne pourrait pas paraître négligeable à l’Angleterre; elle mériterait même d’être mise en parallèle avec celle des échanges effectués avec les Dominions. Il convient d’ailleurs de ne pas oublier que les Anglais, non seulement dans les Dominions, mais même dans tout leur empire, sont relativement peu nombreux: 5 millions 250.000 au Canada, pays gravitant déjà autour des Etats-Unis; 6 millions 750.000 en Australie; 1 million en Afrique du Sud; 250.000 aux Indes; 250.000 dans les possessions coloniales. Même sûre de leur loyalisme, Angleterre ne parviendrait pas à maintenir la sécurité de son empire si l’unification de l’Europe se faisait sous la forme impérialiste et militaire. L’attitude hostile de l’Irlande, i’importance en Afrique du Sud de l’opposition à la politique interventionniste, prouvent que la solidité du Commonwealth n’est pas entièrement à l’abri de toute épreuve. Les indes sont sur la voie de l’indepéndance complète. En raison de leur situation géographique, de l’importance de leur population, de l’immensité de leur territoire, du caractère très particulier de leur civilisation, il ne semble pas qu’elles soient appelées, au moins immédiatement, à participer à une Fédération européenne. Leur tâche serait plutôt d’unir leurs propres peuples sous la forme fédérale et d’arriver à une complète autonomie pendant que se formeraient, de leur côte, les Etats-Unis d’Europe. La position de la Russie Depuis un quart de siècle, les rapports de l’U.R.S.S. avec le reste du monde ont été empoisonnés par la plus grande méfiance réciproque. Ainsi l’U.R.S.S. a constitué un monde politique à part. Cependant, cette guerre a prouvé qu’elle ne pouvait pas se passer de la coopération des autres pays et que ceux-ci ne pouvaient pas se passer de la coopération des Russes. Sur quelle base cette coopération est-elle possible, en particulier avec l’Europe démocratique? Certains pensent que la condition préalable de cette coopération serait la transformation de pays européens en Etats collectivistes qui adhéreraient, au fur et à mesure de leur formation à l’Union soviétique, union qui, par sa structure politique, semble susceptible d’une extension progressive. Pendant un quart de siècle, les communistes ont caressé un tel rêve. Il semble aujourd’hui peu réalisable, tant les forces spirituelles, politiques et économiques d’Europe semblent répugner à voir la civilisation européenne se transformer en organisation communiste. Certes, partout en Europe on éprouve de plus en plus le besoin de créer des institutions socialistes, assurant plus de justice sociale; cependant, aucun peuple ne désire renoncer aux formes libres de vie qui, dans domaines politique, économique et spirituel, constituent les caractères mêmes de la civilisation occidentale. Pour garder ces valeurs traditionnelles, l’Europe a besoin de se reconstruire sur des formes démocratiques; cette nécessité est comprise maintenant, même par les admirateurs les plus enthousiastes de l’U.R.S.S., même par ceux qui avaient tendance, dans leur lutte contre le nazisme, à soutenir la propagande des Soviets. Lorsque nous défendons aujourd’Hui le principe d’une fédération européenne, nous ne concevons toujours qu’une Fédération d’Etats démocratiques, renonçant en faveur du pouvoir fédéral à part de leur souveraineté et adoptant entièrement les principes démocratiques, tant pour la gestion des intérêts locaux que pour celle des grands intérêts fédéraux. Tout en pensant que l’unification européenne ne peut pas être réalisée selon l’idéologie communiste, beaucoup admettent que l’U.R.S.S. devra faire partie de la Fédération démocratique européenne. Naturellement, si elle se transformait en Etat vraiment démocratique, sa place dans la fédération serait tout indiquée. Il est normal, en effet, que cette fédération reste ouverte à tous les pays qui peuvent et veulent en faire partie. Mais il faut bien reconnaître pourtant que la Russie n’est pas, pour le moment, un pays démocratique. Si elle le devenait, ce serait sûrement à la suite d’une évolution interne et absolument autonome; elle est trop forte, en effet, pour qu’une telle transformation puisse lui être imposée de l’extérieur. L’U.R.S.S. a emprunté à l’Europe la plupart des grands progrès techniques; elle garde cependant beaucoup des caractéristiques politiques qu’elle doit aux périodes de l’histoire russe qui ont précédé la révolution bolcheviste; du fait de ces survivances, elle reste profondément différente des peuples européens. Pour ceux-ci, tout progrès semble lié a une politique démocratique; pour l’U.R.S.S., au contraire, le progrès s’appuie encore sur un certain principe autocratique; ces dirigeants sont de plus en plus portés à se considérer comme les successeurs des grands tsars réformateurs. Il se peut qu’après s’être approprié la technique occidentale, les peuples soviétiques se pénètrent aussi du sentiment de la valeur de la personnalité qui, jusqu’ici leur a fait défaut et que leur politique se modifie en conséquence. Répétons-le toutefois, ces réformes ne leur seront pas imposées du dehors et l’on peut prévoir que le régime soviétique, surtout au lendemain de grande victoires, conservera son caractère d’Etat absolu assez longtemps et au moins pendant tout le temps qu’il faudra à la fédération pour se constituer. Dans ces conditions, il est difficile de prévoir une participation directe, au moins immédiate, de l’U.R.S.S. à la nouvelle organisation fédérale; tant qu’elle n’aura pas de régime vraiment représentatif, sa participation à une fédération démocratique restera impossible. Aucune opposition n’étant tolérée en Russie, seul le parti du gouvernement peut se déclarer. Tant que la liberté de la presse et la liberté d’association n’auront pas été effectivement reconnues, ainsi que les autres liberté et garanties, caractéristiques d’un régime démocratique, l’U.R.S.S. ne pourrait envoyer à l’Assemblée fédérale des représentants de diverses tendances de ses peuples, mais seulement des délégués de son gouvernement; elle ne permettrait donc pas à la fédération de défendre les libertés des citoyens russes contre les abus éventuels de leur gouvernement, et naturellement elle ne renoncerait effectivement à aucun des attributs de sa souveraineté. Une organisation confédérale sur le type de la S.d.N. est concevable même entre Etats de structures politiques substantiellement différentes, mais une telle fédération serait un non-sens. L’attitude des hommes d’Etat soviétiques Ainsi paraissent également irréalisables l’extension de l’Union soviétique à toute l’Europe et la création d’une fédération avec la participation de l’U.R.S.S. De cette double impossibilité va-t-on conclure avec certains qu’il faut renoncer à l’idée même de réaliser enfin une union européenne? Les hommes d’Etat soviétiques pourraient être portés à considérer comme un bloc antirusse une union européenne qui serait constituée sans leur concours. Dans ce cas, ils mettraient tout en oeuvre pour empêcher la formation d’une telle union. Il n’en faut pas moins se méfier d’une renonciation a sauver l’Europe et la civilisation, renonciation qui ne pourrait être qu’un parti de désespoir. Les Soviets ont de bonnes raisons pour s’opposer à la constitution de fédérations régionales qui ne contribueraient en rien à la solution du problème européen, mais qui risqueraient d’amener la formation d’une ou deux nouvelles grandes puissances et qui, en tout cas, essaieraient de remplir contre l’U.R.S.S. la fonction de «cordon sanitaire» dans l’intérêt immédiat d’un groupe de grandes puissances occidentales. Toutefois, si l’on songeait à maintenir en Europe des «atomes», c’est-à-dire des petites nations constitutivement faibles, en vue de former, sous l’influence de l’U.R.S.S., une véritable ceinture économique et politique, tous les progressistes de l’Europe occidentale auraient le droit et le devoir de s’opposer à la réalisation d’un dessein si dangereux. Dans un article récent, paru dans la Tribune de fin mars 1944, M. Bevan, le représentant travailliste des mineurs du Pays de Galles aux Communes, a bien montré la nécessité d’une telle attitude. Cette «atomisation» jetterait de nouveau l’Europe dans une terrible anarchie et ne pourrait manquer d’inciter l’U.R.S.S. elle-même à maintenir et probablement à renforcer une structure militariste, nuisible à son développement intérieur comme tout militarisme l’est pour tout pays. Pourquoi, d’ailleurs, admettre que l’U.R.S.S. ne puisse que s’opposer à l’établissement d’une Fédération européenne? Loin d’être dirigée contre la Russie, cette fédération pourrait, au contraire, se former avec son aide et collaborer avec elle. Il n’est aucunement impossible de trouver des formules politiques et juridiques qui assureraient le plein respect des intérêts de la Russie en Europe occidentale. Sans même nous étendre sur ce points, il est évident qu’un accord réalisé sur le plan général de constitution d’une fédération, tous les problèmes secondaires seront plus facilement résolus. Placés en face d’une volonté absolue des peuples européens de se fédérer, les dirigeants soviétiques comprendront sûrement l’extrême intérêt d’une union fédérale européenne, extirpant radicalement le militarisme des grandes puissances, maintenant l’ordre juridique sur le continent et demeurant complément fermée à toute intrusion militariste. Dans un telle union, ils verront la meilleure garantie de paix pour l’U.R.S.S. elle-même. Aussi seront-ils portés à aider la fédération à s’inspirer des principes qu’ils ont mis eux-mêmes dans leur Constitution de 1936, mais auxquels, en particulier à cause des nécessités militaires, ils n’ont pu encore, dans la pratique, donner qu’une bien petite partie du développement souhaitable. Ainsi seraient jetées les bases d’une collaboration pacifique entre les civilisations européenne et russe et une plus grande compréhension mutuelle. VIII. UTOPIE ET RÉALITÉ On peut toujours considérer comme vaine toute idée politique neuve qui n’a pas encore reçu son application complète dans des institutions juridiques et économiques de «realpolitiker». En 1786, Josiah Tucker, le philosophe et économiste libéral, doyen de Gloucester, dont Turgot a traduit l’ouvrage Important Questions of Commerce, écrivait: «L’idée que l’Amérique pourrait devenir, soit sous la forme républicaine, soit sous forme monarchiste, une grande puissance, constitue une rêverie extrêmement ingénieuse, mais beaucoup plus illusoire que toutes les inventions d’un romancier. Les antipathies réciproques et les intérêts contradictoires des Américains, les différences qui existent entre leurs gouvernements, leur usages, leurs habitudes nous donnent une certitude, c’est qu’ils ne pourront jamais trouver un centre d’union et un seul intérêt commun. Ils ne pourront jamais atteindre l’unité d’un Etat bien rassemblé capable d’avoir un gouvernement unique, de quelque forme que soit celui-ci; jusqu’à la fin de siècles, ils continueront à rester divisés et subdivisés en petites communautés et principautés, coupées par des barrières naturelles: grands golfes maritimes, vastes fleuves lacs et chaînes de montagnes». En 1844, un des grands historiens de l’époque, homme qui avait une longue pratique des choses politiques, César Balbo, écrivait, dans un livre qui eut un prodigieux succès, «qu’aucune nation ne fut moins souvent unie que l’italienne». Il mettait en lumière les raisons qui ne permettaient pas de considérer comme possible l’unification de l’Italie et qualifiait de folie l’idée unitaire de Mazzini. Il ajoutait encore: «Cette idée est une puérilité de songe-creux, de rhéteur, de poète vulgaire, de politicien d’arrière-boutique». Les circonstances qui nous sont favorable Aujourd’hui, nous ne pouvons pas encore prévoir ce que sera la situation précise à la fin de la guerre, ni par conséquent les possibilités concrètes qui s’offriront alors. Cependant, si difficile qu’il puisse être de former les Etats-Unis d’Europe, nous restons convaincu qu’un tel but est seul véritablement digne d’être poursuivi de toutes nos forces. Même si nous devions échouer, nous aurions combattu pour une de ces causes qui donnent à la vie un sens plus élevé. A notre sens, la véritable utopie ce n’est pas notre conviction, mais tout au contraire l’idée que la paix et la liberté pourraient être établies sur notre continent, soit par une nouvelle édition de la S.d.N., soit par le démembrement de l’Allemagne et la division de l’Europe en zones d’influence au profit des trois vainqueurs, soit même par une politique d’accord entre ces trois puissances pour exercer en commun la «police internationale», soit même par tout autre système n’entraînant aucune diminution de la souveraineté particulière des Etats. De toute évidence, les circonstances nous seront plus ou moins favorable, selon l’intelligence et la volonté dont nous aurons fait preuve, mais dés maintenant nous disposons d’un certain nombre d’éléments favorables à notre cause. En poussant son rouleau compresseur de divisions blindées sur la plupart des pays d’Europe, en déplaçant par force d’un bout à l’autre du continent 44 millions d’hommes, en brassant les peuples envahis, en coordonnant leurs diverses économies au moyen d’organismes ne tenant aucun compte des frontières nationales, Hitler se trouve avoir fait faire, en dépit du caractère exclusivement impérialiste e sa politique, de très grands pas à l’unification européenne. Les gouvernements américain et anglais ont eu, eux aussi, une action unificatrice dans les pays placés plus ou moins sous leur tutelle directe ou sous leur inspiration: qu’il suffise de citer les plans internationaux tendant à l’application de la loi «prêt et bail» ou l’organisation de l’U.N.R.R.A. A cet égard, on doit reconnaître l’importance particulière des mesures prises par le gouvernement britannique en vue de mettre en application l’idée centrale du Plan Keynes, pour arriver à stabiliser la monnaie grâce à un financement international comptabilisé d’un centre unique; ce système étend en effet la sphère du «sterling» non seulement au Commonwealth, mais encore à la France, à la Belgique, à la Hollande et à leurs colonies, par des accords qui doivent rester valables après la fin de la guerre. L’unification de l’Europe est naturellement rendue plus facile vu l’inexistence des monarchies autocratiques qui fondaient sur le droit divin leurs prétentions à posséder comme des apanages particuliers le pays qu’elles dominaient. Les Hohenzollern, les Habsbourg, les Romanoff, les Bourbons, qui se seraient immanquablement opposés à la fédération de leurs peuples, ont disparu pour toujours et il est probable que la maison de Savoie partagera bientôt leur sort. Les dynasties qui restent n’assumant plus que des fonctions comparables à celles de présidents de république, sauf en ce qui concerne leur caractère héréditaire, pourraient s’adapter facilement aux institutions fédérales. Les bombardements terroristes et la menace d’invasion ont, mieux que n’importe quelle propagande, convaincu le peuple anglais que son pays fait désormais du continent. L’Angleterre ne cherchera donc plus à s’enfermer dans son ancienne politique d’isolement et d’équilibre des puissances. En 1940, les Anglais ont vu la mort en face; elle les a forcés à comprendre ce qu’en des temps tranquilles la simple raison ne pouvait que leur suggérer. La proposition d’union franco-britannique Quelques jours avant l’effondrement de la France, le 16 juin 1940, le gouvernement anglais fit proposer au gouvernement française l’union entre deux pays alliés. Aux termes de ce projet, «la France et l’Angleterre n’auraient plus constitué de nations, mais une union franco-britannique. Cette union aurait été pourvue d’organismes communs pour la défense nationale, pour les rapports avec l’étranger, pour la politique financière et économique. Tout citoyen français aurait immédiatement joui de la citoyenneté britannique; tout citoyen britannique serait devenu citoyen français». Le 16 juin 1940 représente pour nous une date d’une immense portée; ce jour-la, en effet, l’idée des Etats-Unis d’Europe a passé de l’ordre des abstractions théoriques dans celui de la politique pratique. Malgré une foule de difficultés – constitution républicaine de la France, liens de l’Angleterre avec le Commonwealth, existence des deux empires coloniaux distincts – des hommes de gouvernement avaient cependant reconnu la possibilité concrète de constituer une assemblée législative francobritannique, directement responsable vis-à-vis des électeurs français et anglais. Si cette proposition avait été acceptée, nous aurions eu le premier noyau de la Fédération européenne. Du fait d’une petite majorité (13 voix contre 10), l’offre fut repoussée, mais bien des hommes de la Résistance française la considèrent encore comme valable et attendent qu’elle soit renouvelée dés que la France, libérée des Allemands et du gouvernement de Vichy, sera en mesure de manifester sa volonté. Le discours de Smuts Ce discours est le dernier grand fait révélateur de l’état d’esprit actuel de l’opinion publique anglaise. Perlant, à Birmingham, sur la reconstruction d’après-guerre, le vieux maréchal a dit qu’il mettait au premier plan le problème de l’Europe et seulement au second celui de l’organisation mondiale pour la sécurité collective. En ce qui concerne ce deuxième problème, il indiquait que ce serait «presque inévitablement une édition revue et corrigée de la vieille S.d.N.». Pour le problème européen il a, lui aussi, préconisé des solutions plus radicales et qu’il estime nécessaires. «La question de savoir si oui ou non l’Europe se relèvera ou si elle est condamnée à la décadence est pour moi la question principale de la situation actuelle du monde. L’Europe est le cœur de la terre. L’Amérique ne pourrait la remplacer et l’Asie encore moins, l’Europe est le foyer spirituel de l’Occident; elle ne doit pas être divisée et réduite en atomes; elle ne doit pas redevenir un misérable chaos de morceaux et de fragments. Au contraire, elle devra obtenir une nouvelle et solide structure sous la forme d’ «Etats-Unis» ou de «Commonwealth d’Europe», une structure qui lui permettra d’être à nouveau la sauvegarde du droit et de la liberté, qui d’ailleurs sont nés en Europe. Dans l’accomplissement de cette tâche, la GrandeBretagne, grâce à sa situation insulaire particulière, doit assumer un rôle de direction». Pour faire comprendre toute la signification de ces paroles, il faut les comparer à celles qui furent prononcées peu de mois avant par le même orateur alors qu’il présentait le futur ordre mondial exclusivement comme un problème d’équilibre entre les trois grandes puissances: Empire britannique, Union soviétique et République américaine, et qu’il invitait les petites démocraties occidentales à s’unir au Commonwealth britannique pour en augmenter la puissance. Ce discours, qui n’était évidemment qu’un ballon d’assai en vue de tâter la température de l’opinion publique, avait suscité tant de protestations et de critiques de la part des diverses tendances progressistes en Angleterre et dans tous le autres pays que Smuts a compris la nécessité de rectifier sa position. Pour la première fois, un homme de gouvernement d’une des principales puissances alliées, et précisément celui qui est considéré par tout le monde comme l’alter ego du premier ministre, a prononcé les paroles décisives: «Etats-Unis d’Europe», indiquant ainsi un but de guerre réalisable. Il faut savoir ce que nous voulons Clemenceau disait que la guerre est une chose trop sérieuse pour être laissée aux généraux; nous devons dire quant à nous, que la paix est une chose trop sérieuse pour être laissée aux diplomates. Entre la cessation des hostilités et la conclusion de la paix définitive, on peut prévoir une période intercalaire d’organisation provisoire beaucoup plus longue qu’après l’autre guerre mondiale. Cette période sera notre heure, le moment où nous pourrons, si nous avons des idées claires et de l’énergie, susciter partout de vastes courants d’opinion publique en faveur de notre idéal. Le souvenir des horreurs et des souffrances subies étant encore tout proche et douloureusement vivace, notre voix sera la voix de l’espérance, de la foi en un monde libre, pacifique prospère. Contre l’égoïsme des hommes de gouvernement et des classes privilégiées, contre la xénophobie provinciale de ceux qui limitent leur horizon aux frontières nationales, nous devons parler un langage européen. Il faut enseigner à tous que les problèmes nationaux particuliers ne constituent que des aspects partiels du problème générale européen; il faut mobiliser les forces progressistes des différents pays derrière notre drapeau pour persuader des gouvernements des puissances extérieures que toutes les mesures transitoires, après la cessation des hostilités, devront être prises en vue de la construction des Etats-Unis d’Europe. S’il comporte cette création, le traité de paix sera la page la plus grandiose de notre civilisation occidentale. Il marquera le début d’une ère nouvelle plus véritablement humaine. Si, au contraire nous ne savions pas profiter de la période transitoire qu’ouvrira l’armistice, si nous donnions aux hommes le temps d’oublier ce qu’a été la guerre, si nous permettions à une matière actuellement fluide et fumante d’être coulée à nouveau dans les vieux moules nationaux, alors nous retomberions très vite dans le chaos, d’où sortirait rapidement une autre conflagration mondiale. Dés lors, l’unification de l’Europe ne serait sans doute plus l’œuvre de la collaboration libres, mais elle serait imposée par quelque nouveau conquérant. THELOS Mai 1944.