1 PONTIFICIA UNIVERSITÀ URBANIANA [PROF. GAETANO SABETTA] CORSO MB1019: DIALOGO INTERRELIGIOSO [AD USO ESCLUSIVO DEGLI STUDENTI] TEMA 1 DIALOGO INTERRELIGIOSO: PROSPETTIVA BIBLICO-STORICA Parte I LA BIBBIA E LE RELIGIONI: INTRODUZIONE PUNTO DI PARTENZA LA RELIGIONE DEI PATRIARCHI: ELIM, DIO PADRE, EL ALLEANZA UNIVERSALE LA TRADIZIONE PROFETICA: DAL DIO D’ISRAELE AL DIO DELLE NAZIONI LA TRADIZIONE SAPIENZIALE GESÙ E LE RELIGIONI LA CHIESA APOSTOLICA E LE RELIGIONI CONCLUSIONE Parte II IL CAMMINO STORICO FINO AL CONCILIO VATICANO II Corso MB1019 – Dialogo interreligioso A.A. 2014-2015 – Prof. Gaetano Sabetta 2 DIALOGO INTERRELIGIOSO: PROSPETTIVA BIBLICO-STORICA LA BIBBIA E LE RELIGIONI: INTRODUZIONE Il ritmo che la Bibbia scandisce nel rapporto con l’altro è segnato costantemente da una struttura binaria dove coesistono il lato universale (la volontà salvifica di Dio) e quello particolare (Dio sceglie un popolo, nel Primo Testamento; Dio salva attraverso Gesù-Cristo, nel Secondo Testamento). Tale ritmo è sintetizzato nel famoso testo della prima lettera che Paolo scrive a Timoteo. Nel contesto della preghiera che Paolo rivolge a Dio, ricordando i re pagani si legge: «Questa è cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità. Uno solo, infatti, è Dio e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti» (1 Tim 2,4-6). Secondo il biblista francese Legrand l’elezione d’Israele, nell’ottica di Dio, non è particolarismo e ancor meno esclusivismo, ma visione universale delle cose e del piano di Dio poichè, se il Dio dell’elezione storica è anche il Dio delle benedizioni cosmiche l’elezione non taglia Israele dalle nazioni, ma la situa in rapporto a esse1. Allo stesso modo Senior e Stuhlmueller ritengono non definitive le risposte bibliche al problema delle religioni, poichè alle posizioni d’ostilità si accompagna il riconoscimento della bontà dell’esperienza religiosa dei singoli ‘pagani’ presenti in diversi scrittori biblici2. Rossano prende le distanze sia dall’aut-aut Bibbia-religione inaugurato dall’Unglaube (incredulità) barthiano e confermato dal Wesenlos (superstizione) di Bonhoeffer, che tanta influenza ha avuto anche in ambito cattolico, sia dalla tendenza liberale della Religionsgeschichtliche Schule, che con le sue intemperanze ha alimentato i timori di un livellamento tra il dato biblico e quello della storia religiosa del Vicino Oriente mesopotamico. In tale prospettiva mediana, l’esperienza religiosa umana autentica può – conclude Rossano – considerarsi «preparazione provvidenziale» a Cristo nel quale gli uomini trovano la pienezza (cfr. NA n. 2)3. 1 L. LEGRAND, Il Dio che viene. La missione nella Bibbia, Borla, Roma 1989, 29. Cfr., D. SENIOR – C. STUHLMUELLER, I fondamenti biblici della missione, EMI, Bologna 1985, 479-481. 3 P. ROSSANO, Dialogo e annuncio cristiano, 42-43. 2 Corso MB1019 – Dialogo interreligioso A.A. 2014-2015 – Prof. Gaetano Sabetta 3 PUNTO DI PARTENZA Le maggiori critiche rivolte al dialogo sembrano essere basate sul dato biblico. Ma è davvero così? La Bibbia è davvero contraria al dialogo? Davvero alimenta un giudizio negativo delle religioni? Cosa dire poi di Gesù. Davvero Gesù era contrario al dialogo? Ci pare importante dar conto di due difficoltà iniziali. Primo, la Bibbia non s’interessa direttamente alle religioni, ovvero il rapporto Bibbia-religioni è solo incidentale al tessuto biblico: la maggiore preoccupazione biblica è quella di alimentare la fede d’Israele. La seconda difficoltà riguarda l’interpretazione. In questo caso più che confrontare i singoli passi biblici che sembrano condannare il dialogo con quelli che invece sembrano sostenerlo, battaglia che sembra destinata a non avere mai fine, appare decisivo, come ricordano Odasso4 e Ariarajah5 domandarsi qual è nel complesso l’attitudine della Bibbia di fronte al fenomeno delle religioni. In altre parole, occorre cogliere il carattere globale dell’approccio nel solco di una “comprensione biblica della Scrittura”, evitando che prospettive esterne, sia esse sistematiche o dogmatiche, distorcano il processo ermeneutico. LA RELIGIONE DEI PATRIARCHI: ELIM, DIO PADRE, EL 6 Hugo Gressmann nel suo studio sulla religione dei patriarchi del 1910 dal titolo Mose und seine Zeit afferma che una delle caratteristiche della religione patriarcale è il culto reso a più divinità. Anche se i diversi nomi di Dio devono intendersi più come attributi dell’unico JHWH, rimane il fatto che la pluralità dei nomi tradisce uno stadio arcaico della tradizione in cui esisteva un certo grado di monolatria [si tratta di una posizione vicina all’enoteismo: si riconoscono una pluralità di dei, ma uno è preminente e a Lui viene rivolto il culto]. Nell’incontro tra Abramo e Melkisedek raccontato da Gn14 si afferma che questi è il «Dio dell’Altissimo» (El Eljôn), creatore del cielo e della terra. Nell’episodio raccontato da Gn 17, dove Dio appare ad Abramo e Sara presso Mamre, si parla invece di «Dio Onnipotente» (El Shaddaj), mentre in Gn 21,22-34 appare il nome «Dio Eterno» (El Olâm). Lo studioso tedesco seguendo lo stesso ragionamento incontra 4 G. ODASSO, Bibbia e religioni. Prospettive bibliche per la teologia delle religioni, UUP, Roma 1998, 23. 5 S.W. ARIARAJAH, The Bible and the People of Other Faiths, WCC, Geneve 1985, xiii. 6 G. ODASSO, Bibbia e religioni,115-129. Corso MB1019 – Dialogo interreligioso A.A. 2014-2015 – Prof. Gaetano Sabetta 4 anche il dio Bet El (Gn 28,17), il dio «Visione» (El Roj), in Gn 16,13 e il dio «Alleanza» (El Berit) di Gdc 9,46. La sua conclusione è quella di affermare la natura politeistica della religione dei patriarchi segnata da diverse divinità naturalistiche indicate dal nome Elim, ognuna delle quali svolge una funzione specifica ed appare legata anche ad una particolare località. Nel 1929, Alt, con la sua ricerca Der Gott der Vatër completa ed approfondisce i risultati di Gressmann. Egli dimostra che il culto degli Elim era di origine Cananea e che i patriarchi avevano iniziato ad adorare gli Elim a partire dalla loro presenza nella terra dei Cananei. Di conseguenza, l’autore si mette alla ricerca di un culto anteriore a quello degli Elim che trova a partire da Es 3,6 dove si parla «del Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe». La conclusione a cui Alt arriva è che la forma originaria della religione patriarcale è il culto del «dio padre». Tale culto presuppone una cultura nomade nella quale ogni clan ha un proprio padre o antenato. Tale forma di politeismo nomade si arricchisce grazie all’apporto della religione stanziale dei Cananei, centrata intorno al culto degli Elim, una volta che i patriarchi si stabilizzano in Palestina. La scoperta della città Cananea di Ugarit del 1929 e la decifrazione delle tavolette rinvenute hanno chiarito la natura della religione siro-cananea della seconda metà del II millennio a.C. In particolare è risultato evidente che nonostante la molteplicità dei culti locali ci fosse un’unità di fondo espressa dalla disposizione a piramide delle diverse divinità. All’apice del pantheon cananeo si trova il dio El, creatore del cielo e della terra. Di conseguenza, conclude Cross nel suo studio Yahweh and the God of the Patriarchs non si tratta di molti dei (Elim), ma di diversi attributi riferibili all’unico dio supremo El. L’insieme di tutti questi dati raccolti porta Odasso ad affermare «che i patriarchi e i loro clan veneravano El, la divinità suprema all’interno del pantheon siro-cananeo»7. Quali conclusioni ai fini del dialogo possiamo trarre da questo studio preliminare sulla religione dei patriarchi? 1. Senza dubbio il confronto biblico con la storia della religione patriarcale mostra che non è biblicamente fondato affermare una totale separazione tra essa e le religioni, quasi che essere fossero l’espressione dell’errore o della superstizione. 2. La sostanziale continuità tra l’esperienza religiosa Cananea e la rivelazione biblica non ci permette più di qualificare la prima come religione naturale rispetto alla seconda 7 Ibidem, 126. Corso MB1019 – Dialogo interreligioso A.A. 2014-2015 – Prof. Gaetano Sabetta 5 considerata quale rivelazione (cristiana). In altri termini, anche le religioni sono il luogo in cui l’uomo incontra il divino e questo incontro esprime una relazione autentica col vero Dio8. ALLEANZA UNIVERSALE Il ciclo che segna l’inizio della Bibbia, ovvero l’andamento ondivago di creazionedistruzione-nuova creazione (Gn 1-11), a lungo trascurato dalla ricerca biblica perché considerato non storico, è di fondamentale importanza per inquadrare nella giusta prospettiva il rapporto che la Bibbia intrattiene con i popoli di fede diversa. Il racconto della creazione non riguarda la nascita di una chiesa, nè tanto meno di una religione, ma si riferisce al cosmo intero. È significativo che nei racconti della creazione si faccia riferimento oltre al cosmo anche ad ‘adam, ovvero all’umano [essere umano] in sè e non ad ‘ish, cioè all’uomo come diverso dalla donna, proprio a sottolineare che nulla rimane fuori dall’amore misericordioso del Dio creatore. Secondo Dupuis, l’alleanza (berith) crea l’identità di Israele come popolo di Dio, ovvero carattereizza la fondazione dell’esperienza religiosa di Israele, esprimendo l’inizio del dialogo salvifico proprio nel momento in cui Dio dichiara: «sarò vostro Dio e voi sarete il mio popolo» (Lev 26,12); ma, proprio a partire dall’esperienza di liberazione del Dio dell’Esodo (Es 3,3-15), che interviene potentemente nella storia, Israele, in maniera retrospettiva, scopre la trascendenza del Dio creatore e del suo disegno d’amore che si estende a tutto il cosmo e all’intera umanità, considerata come una sola famiglia9. Un unico Dio, creatore di tutto e di tutti, che circonda l’intera creazione del suo inesauribile amore: questa è l’immagine potente che ci consegnano i primi 11 capitoli del libro del Genesi. L’umanità intera rimane tale, sia nel caso della partecipazione alla vita di Dio (l’immagine e somiglianza di Gn 1,26), sia nell’alienazione, conseguenza della caduta. Essa è nuovamente tutta unita nell’alleanza noaica (Gn 9) che interessa tutta l’umanità e l’intera creazione. Il fatto che i primi 11 capitoli della Bibbia siano un invito a riconoscere l’universalità della volontà salvifica di Dio esprime il tentativo di immettere la storia 8 9 Cfr, ibidem,128-129. J. DUPUIS, Towards a Christian Theology of Religious Pluralism, 31. Corso MB1019 – Dialogo interreligioso A.A. 2014-2015 – Prof. Gaetano Sabetta 6 specifica d’Israele, che parte dal capitolo 12, nel contesto più largo dell’alleanza universale del Dio creatore. Lo stesso libro del Sir 17,10, a proposito della creazione, parla dell’«alleanza eterna» che Dio stipulò con gli antenati, mentre Ger 33, 20-26 e il Salmo 89 fanno espresso riferimento all’«alleanza cosmica» quando parlano della creazione. Sia l’alleanza universale della creazione sia quella noaica non vengono abrogate per effetto dell’alleanza specifica che Dio stipula con Abramo. Soprattutto, come ci ricorda Dupuis, rifacendosi agli studi di Danièlou sui santi pagani dell’antico testamento, non si tratta di religione naturale opposta all’ordine sovrannaturale di Cristo: l’alleanza cosmica è già sopranaturale. Non appartiene ad un ordine differente rispetto all’alleanza mosaica o a quella cristica. Lo stesso Ireneo nel suo Adversus Haereses III, 11, 8 parla di quattro alleanze: quella di Adamo, quella di Noè, quella di Abramo-Mosè e quella di Gesù-Cristo.10 Ecco come G. Odasso sintetizza l’orizzonte teologico dello scritto sacerdotale (P) che ha visto la luce durante l’esilio babilonese (586-538 a.C.). Il tema fondamentale è il concetto teologico del berith che diventa strumento per illuminare la storia dalla creazione fino alla morte di Mosè: «Questa prospettiva suppone implicitamente che […] l’umanità nel suo cammino storico è in rapporto speciale con Dio, e questo non come frutto di un impegno esistenziale o di una scelta, che parte dall’uomo, ma come conseguenza dell’impegno con cui Dio, nella gratuità del suo amore, che si relaziona salvificamente con l’uomo» 11[evidentemente non è sbagliato parlare di rivelazione N.d.R.]. LA TRADIZIONE PROFETICA: DAL DIO D’ISRAELE AL DIO DELLE NAZIONI12 Abbiamo già detto che la prospettiva biblica è quella di vedere la storia religiosa delle nazioni soprattutto a partire da quella d’Israele. In tale contesto, ha senso dunque parlare del Dio d’Israele; tale concretezza, viene completata nel racconto biblico dai continui rimandi all’universalità del Dio delle nazioni. Questo ci dovrebbe convincere che l’auto-comprensione d’Israele non esprime in toto la relazione che Dio intrattiene con le nazioni. La dimensione particolare, concreta, comporta tre momenti: 10 Ibidem, 33. G. ODASSO, Bibbia e religioni, 185. [corsivo nostro]. 12 S.W. ARIARAJAH, The Bible and the People of Other Faiths, 3-12. 11 Corso MB1019 – Dialogo interreligioso A.A. 2014-2015 – Prof. Gaetano Sabetta 7 1. Dio sceglie Israele come suo popolo (berith). Dio che dice a Mosè: «Vi prenderò come mio popolo e diventerò il vostro Dio» (Es, 6,7); 2. Dio conferma l’alleanza prima con Abramo, poi con Mosè; 3. Israele sarà «luce tra le nazioni» (Gn 12,3), ovvero Dio benedirà le nazioni attraverso Israele; Questi tre passaggi che caratterizzano in maniera progressivamente stringente l’autocomprensione religiosa del popolo ebraico segnano indelebilmente la stessa autocomprensione cristiana. (cfr., 1 Pet 2,9 dove i cristiani sono considerati stirpe eletta, nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le sue meraviglie). La tradizione profetica, senza dubbio, apre il sentiero universale che porta dal Dio d’Israele al Dio delle nazioni. Il capitolo iniziale del libro di Amos sottopone tutte le nazioni, compreso Israele al giudizio di Dio, mentre nel capitolo finale (Am 9,7) sorprendentemente dichiara: «Non siete forse per me come i Kushiti, o figli di Israele? – detto di JHWH – non ho forse fatto salire Israele dall’Egitto, Filistei da Caftor e gli Arami da Kir?» La formula «ho fatto salire» (anche in Gdc 6,8) coincide con la formula dell’esodo «ho fatto uscire Israele dall’Egitto» (es. Es 20,2), dunque ha valenza salvifica. Amos connette l’elezione d’Israele a tutte le nazioni, evitando che venga vissuta come superiorità o esclusione, perfino a quelle che sono i nemiche storiche d’Israele, specificando che JHWH si rivolge a tutti in maniera salvifica. In definitiva, il Signore, che opera per la redenzione di Israele, agisce in maniera salvifica anche nella storia di tutti i popoli. Inoltre, se l’autocomprensione di Israele è segnata dallo sviluppo di una teologia dell’esodo salvifico che diventa poi storia della salvezza, tutto ciò risulta assente nella tradizione Filistea o Aramea, nonostante l’iniziativa divina non sia da essi assente. Di conseguenza, la rivelazione di JHWH, come ci ricorda Odasso, anche se rimane legata alla storia non può identificarsi totalmente con essa dando perciò valore alla rivelazione cosmica e a quella che fa appello alla coscienza.13 [A. Dulles, parla a proposito di modelli di rivelazione]. 13 Cfr., G. ODASSO, Bibbia e religioni, 159-160. Corso MB1019 – Dialogo interreligioso A.A. 2014-2015 – Prof. Gaetano Sabetta 8 Il tema dell’universalità salvifica di Dio su tutte le nazioni viene ripreso in maniera meravigliosa da Isaia (19, 19-23). Dio promette di fare con l’Egitto quello che ha già fatto con Israele, compresa la salvezza dall’oppressione: «In quel giorno ci sarà un altare dedicato al Signore in mezzo al paese d’Egitto e una stele in onere del Signore […] Quando, di fronte agli avversari, invocheranno il Signore, allora egli manderà un salvatore che li difenderà e li libererà. Il Signore si rivelerà agli Egiziani e gli Egiziani riconosceranno in quel giorno il Signore, lo serviranno con sacrifici e offerte […] In quel giorno ci sarà una strada dall’Egitto verso l’Assiria […] in quel giorno Israele sarà il terzo con l’Egitto e l’Assiria, una benedizione in mezzo alla terra. Li benedirà il Signore degli eserciti: “Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità». Tutto questo accade per iniziativa di Dio, senza passare attraverso l’intermediazione d’Israele, ovvero il Signore entra direttamente in relazione con le nazioni, rivelandosi loro non diversamente da come ha fatto con Israele. LA TRADIZIONE SAPIENZIALE14 Sempre più studiosi veterotestamentari sono interessati alla tradizione sapienziale d’Israele soprattutto in considerazione del profondo dialogo che nasce tra essa e le tradizioni sapienziali del Vicino Oriente Antico, in particolare quelle dell’Egitto e della Mesopotamia. Possiamo suddividere il cammino compiuto dalla sapienza d’Israele in tre tappe: 1. una fase arcaica detta «sapienza mondana», che ha come obiettivo l’osservazione della realtà così come si presenta fenomenologicamente cercando di coglierla in maniera sempre più profonda e penetrante. Le forme bibliche più significative rimangono i proverbi (1 Re 5, 12-13); 2. una fase mediana chiamata «sapienza jahwistica» nella quale si cerca di armonizzare il dato proprio della sapienza a quello più direttamente legato alla prospettiva della fede in JHWH, prima in riferimento alla fede dei profeti - diversi esempi si ritrovano nella sezione più antica del libro dei Proverbi dove si parla dell’ingiustizia e dell’oppressione dei poveri nonché del loro riscatto (Pr 14,31; 17,5; 19,17; 21, 13) e di JHWH quale 14 Ibidem, 194-226. Corso MB1019 – Dialogo interreligioso A.A. 2014-2015 – Prof. Gaetano Sabetta 9 difensore della giustizia (Pr 17,15) - e poi in relazione alla prospettiva deuteronomistica, che connette la Sapienza alla parola di JHWH e alla stessa Torah. 3. la fase finale, caratterizzata dalla «sapienza personificata», giunge a comprendere la Sapienza come il disegno stesso di Dio che è alla base della creazione, della storia umana, di quella d’Israele e della loro redenzione. (Gb 28,1-28; Pr 8,22-31; Sir 24, 1-32; Sap 9, 118). Proprio in quest’ultima fase il dialogo già iniziato con la sapienza degli altri popoli giunge ad una maturazione decisiva dando valenza teologica al dialogo interreligioso e alla comprensione teologica delle religioni alla luce della Scrittura. Approfondiamo alcuni di questi testi. In Pr 8 la Sapienza si presenta come una persona che chiama gli uomini ad ascoltare ed imparare (vv.1-4 e 32-36 formano un’inclusione che segna l’importanza del tema dell’ascolto). Essa si presenta come fonte di giustizia e di equità (vv. 12-21), ma soprattutto è in “principio” (vv.22-31), è cioè presente nella totalità della creazione. Essa era «accanto a Lui [Dio] come sicurezza (‘mwn)», (v.30) [la bibbia di Gerusalemme traduce «architetto»]. La sicurezza nel linguaggio biblico si presenta o come quella del figlio nelle braccia dei genitori o come quella della sposa e dello sposo nella reciproca comunione di vita. Di conseguenza, la Sapienza, l’eterno Disegno di Dio per la creazione, è assieme a Lui al momento della creazione così da assicurare quella sicurezza sponsale tra Dio e la creazione. In altri termini, l’essere umano ascoltando ed accogliendo la Sapienza entra nel mistero e nella sicurezza del legame sponsale che lega Dio alla creazione. Se questo è il dato biblico, allora la Sapienza non simbolizza più l’ordine naturale che vede l’uomo proteso con le braccia aperte verso l’alto alla ricerca di Dio, ma esprime il disegno stesso di Dio che si estende a tutto il «globo terrestre» (v.31b) e, conclude Odasso, le stesse religioni in quest’ottica «rappresentano l’espressione storicoculturale dell’esperienza che vive l’uomo quando si apre al dono della divina Sapienza»15. In Sir 24,1-32 la Sapienza è «uscita dalla bocca di Dio» (v.3), è il Verbo di Dio; è anche il «libro dell’alleanza del Dio altissimo» (v.22), ovvero è la Torah, intesa come totalità della rivelazione divina. La Sapienza divina, dunque, pervade sia la creazione (vv.4-6) sia la storia salvifica d’Israele (vv.12-ss) attribuendo alla storia dei popoli e a quella d’Israele una valenza simbolica, in quanto rinvia alla presenza attiva di Dio, che è 15 Ibidem, 209. Corso MB1019 – Dialogo interreligioso A.A. 2014-2015 – Prof. Gaetano Sabetta 10 appunto la rivelazione. Ancora una volta l’universalità del disegno salvifico di Dio reso presente per mezzo della Sapienza esclude quel dualismo, troppo semplicistico, tra naturale e sopranaturale. In Sap 9, infine, c’è la preghiera solenne all’Altissimo per ottenere la Sapienza che siede sul trono accanto a Dio (v.4), che conosce, la volontà, il disegno (boulè) di Dio perché era presente alla creazione (v.9), che rivela, ovvero media la conoscenza del disegno di Dio poiché dove sta la Sapienza sta lo Spirito. «Chi conosce il tuo disegno (boulè), se tu non doni la Sapienza e non mandi dall’alto il tuo Spirito Santo?» (v.17). Proprio la stretta connessione tra lo Spirito e la Sapienza ne svela la funzione soteriologica universale poiché «essi furono salvati per mezzo della Sapienza» (v.18). In altri termini, l’Autore attribuisce alla Sapienza l’opera della «nuova alleanza» (cf. Ez 36,24-28) tradizionalmente riservata allo Spirito, ovvero si trasferisce alla Sapienza divina ciò che nella tradizione precedente era attribuito allo Spirito. Dall’analisi dei tre testi sapienziali proposti non possiamo che convenire con Odasso quando afferma: «In realtà […] le religioni non possono essere comprese come l’espressione sociale e culturale della conoscenza “naturale” di Dio, o come la concretizzazione comunitaria della ricerca di Dio da parte dell’uomo. Le religioni, piuttosto, si presentano come il frutto dell’attività della Sapienza nella vita degli uomini»16 Quali sono, dunque, le conseguenze che possiamo trarre dall’analisi dei testi sapienziali? 1. l’identificazione della Sapienza con la Torah e la sua profonda connessione con lo Spirito non possono essere comprese nella giusta profondità se si considera la Sapienza come sola auto-manifestazione della creazione. Essa è la voce del Signore, è l’autorivelazione di Dio. Quando l’uomo nella sua ricerca percepisce una voce che lo trascende quella è la voce della Sapienza divina che gli comunica un messaggio salvifico. 2. in questa prospettiva le religioni, pur con tutti i limiti, si configurano come il luogo, forse quello privilegiato, dove l’uomo si lascia ammaestrare e guidare dalla Sapienza verso la comunione con Dio. GESÙ E LE RELIGIONI 16 Ibidem, 215. Corso MB1019 – Dialogo interreligioso A.A. 2014-2015 – Prof. Gaetano Sabetta 11 Pochi studiosi saranno contrari all’affermazione che il cuore della Bibbia, dalla creazione fino all’Apocalisse, è il dialogo amorevole che Dio intrattiene con tutti gli uomini a prescindere dalla loro cultura o dalla loro religione. I Vangeli raccontano, a modo loro ed in diversa maniera l’uno dall’altro, la storia di quello stesso Amore di Dio nella sua incarnazione. Il Vangelo, quale Buona Novella, rivela, dunque, la natura dell’amore di Dio, indicandone in maniera decisiva il significato (cf. Gv 1,18). Questo ha due conseguenze che possono intendersi come l’orizzonte di ogni successivo discorso: 1. Chiarire qual è la priorità quando si parla di «Dio in Cristo»; 2. Riconoscere il sì preventivo di Dio all’uomo, ovvero porsi nell’ottica della grazia preventiva e decisiva mostrataci da Dio in Cristo. 1. l’affermazione «Dio in Cristo» non significa tanto chiedersi come Dio è presente in Cristo, magari attraverso una natura divina, né confusa e nemmeno separata da quella umana, quanto piuttosto cosa significa, qual è il senso della presenza di Dio in GesùCristo, a partire dalla specificità di Gesù: lo svuotamento (kenosi) proprio dell’amore vulnerabile (croce). È come se Gesù diventasse una finestra, un prisma, che ci permette di guardare Dio in profondità (cf. Gv 1,18). Se poniamo in questi termini la questione, il dialogo diventa il cuore del Vangelo. Nel non-essere della croce, ovvero nella kenosi finale, in quel vuoto svuotante ultimo, si manifesta l’essere per, l’alterità, il riconoscimento dell’altro da me, il dialogo. A tale proposito, l’allora Cardinal Ratzinger, saggiamente scriveva, nel lontano 1998: «God’s kenosis is itself the place where the religions can come into contact without arrogant claims to domination»17 2. il messaggio biblico, ed evangelico in particolare, è intrinsecamente dialogico proprio perché ha il suo fondamento nella grazia preventiva di Dio mostrata in Gesù-Cristo in maniera esemplare. È il riconoscimento che la persona che ho di fronte è già figlio di Dio, così come lo sono io, a dover guidare il mio atteggiamento nei suoi confronti più che la considerazione se sia cristiano o se sia battezzato. Se continuiamo ad affermare che coloro che non riconoscono apertamente di credere in Gesù e non appartengono alla chiesa sono fuori dalla grazia di Dio, stiamo dicendo qualcosa che stride profondamente con la Buona Novella del Dio di Gesù. 17 J. RATZINGER, «Interreligious Dialogue and Jewish-Christian Relations», in Communio 25 (1998). Corso MB1019 – Dialogo interreligioso A.A. 2014-2015 – Prof. Gaetano Sabetta 12 Il Regno di Dio: centro dell’evento Gesù-Cristo La specificità kenotica del Dio di Gesù-Cristo e la grazia preventiva ed irrevocabile mostrata da Dio in Cristo sono due facce della stessa realtà: quella del Regno di Dio che rimane il centro e l’essenza dell’intero evento Gesù-Cristo. Tutte le parabole e tutte le azioni miracolose compiute da Gesù sono simboli del Regno, inaugurato con la sua venuta (cf. Mc 1,15) e concretizzatosi per tutti attraverso il mistero della vita-morteresurrezione-seconda venuta di Gesù-Cristo. La manifestazione della regalità di Dio tra gli uomini significa novità di rapporti, non più basati sul dominio, il sopruso e la violenza, ma sulla libertà, la fratellanza, la pace, la giustizia e l’amore. Il Regno di Dio, ovvero la centralità di Dio nella missione di Gesù, è l’orizzonte, la prospettiva a partire dalla quale egli si rivolge, insieme, ai membri del popolo dell’alleanza e agli stranieri, poiché «Dio non usa parzialità» (cf. Dt 10,17), «non fa preferenze di persone» (cf. Rm 2,12). L’episodio del centurione romano di Cafarnao (Mt 8,5-13), che va incontro a Gesù per chiedere la guarigione del suo servo paralizzato, e del quale Gesù dice che «presso nessuno in Israele ha trovato una fede più grande», si conclude con la solenne affermazione che molti verranno, provenienti da oriente e da occidente, e saranno ammessi al Regno dei cieli (cf. Mt 8,11-12). La partecipazione di tutti al Regno non è soltanto una visione escatologica, ma anche una realtà storica, come attestato dalla parabola del banchetto (Mt 22,1-14; Lc 14,15-24) nella quale Gesù chiede di uscire per le strade a cercare gli invitati, che certamente rappresentano uomini e donne di religioni diverse, così che la casa si riempia. La partecipazione di tutti al banchetto è il simbolo della partecipazione di tutti alla salvezza. Per Gesù, conclude Dupuis: «la fede e la conversione che conducono alla salvezza non coinvolgono un passaggio ad una religione diversa qualsiasi, ma sono conversione al Dio della vita, dell’amore e della libertà, cioè al Dio del Regno di Dio, di tutti gli uomini» 18 Tutti i miracoli operati da Gesù nei confronti degli stranieri (Mt 15, 21-28 si riferisce alla donna cananea) hanno lo stesso significato che nei Vangeli viene attribuito ai miracoli: sono simboli della presenza concreta del Regno di Dio. Essi consentono a Gesù di allargare la visione della salvezza di Dio, poiché mostrano come anche la gente fuori 18 J. DUPUIS, Il Cristianesimo e le religioni. Dallo scontro all’incontro, 57. Corso MB1019 – Dialogo interreligioso A.A. 2014-2015 – Prof. Gaetano Sabetta 13 del recinto ebraico era capace di una fede autentica, cioè di una fede che salva: «io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande!» (Lc 7,9). Gesù, dunque, attraversa la frontiera che separa i Giudei dai gentili, la frontiera che ritiene la verità salvifica racchiusa in una religione particolare, escludendone altre.19 Testimonianza eloquente dell’universalità del Regno che travalica i limiti religiosi è senza dubbio l’episodio in cui i discepoli volevano impedire ad uno che non apparteneva al circolo di Gesù di scacciare i demoni nel «nome di Gesù» (Mc 9,38-39). La risposta del loro Maestro è eloquente: «chi non è contro di noi è per noi». Gesù dunque oltrepassa le barriere di razza, cultura e religione nel corso della sua vita e nel suo stesso mistero, una volta risorto, acquisendo oltre ad una dimensione storica anche un aspetto tran-storico (cf. GS 22). Degni di nota sono anche gli episodi evangelici nei quali i protagonisti appartengono al popolo Samaritano. In Lc 10, 19-37 (la parabola del buon Samaritano) e in Lc 17, 11-19, (la guarigione dei 10 lebbrosi) le persone appartenenti al popolo samaritano vengono visti da Gesù come esempi e modelli di un atteggiamento di fede autentica che certamente apre la strada al Regno. Com’è noto, al tempo di Gesù una diatriba religiosa divideva i Samaritani dal popolo ebraico. Il monte Gazirim era per loro il luogo dove adorare il vero Dio mentre l’universo spirituale dei giudei ruotava attorno a Gerusalemme. Proprio tale questione è al centro del dialogo tra Gesù e la Samaritana (Gv 4) e Gesù dichiara senza mezzi termini che ogni culto, non solo straniero ma anche giudaico, deve cedere il passo alla vera adorazione spirituale, “in spirito e verità” (cf. Gv 4,23). Questa affermazione legata a quella, altrettanto famosa, di Mt 5,17, dove Gesù dichiara di essere venuto non per abolire ma per dare compimento, ci permette di affermare che Gesù più che sostituire il giudaismo con un’altra religione, intendeva rivitalizzare il vero spirito di ogni religione, mostrando una rinnovata azione/presenza di Dio nella storia di tutti gli uomini e le donne a qualsiasi religione essi appartenessero.20 Quest’ultima affermazione ci permette di passare dal piano individuale a quello delle tradizioni religiose, da quello dei singoli credenti a quello delle religioni in sè. In altri termini, se è apparso chiaro ce nel pensiero di Gesù gli uomini e le donne fuori dal 19 20 Cfr., ibidem, 59. Cfr., ibidem, 50-51. Corso MB1019 – Dialogo interreligioso A.A. 2014-2015 – Prof. Gaetano Sabetta 14 popolo dell’alleanza possono entrare nel Regno di Dio attraverso la fede e la conversione a Dio, qual è il suo atteggiamento nei confronti delle tradizioni religiose degli stranieri? È, cioè ipotizzabile dalla lettura dei Vangeli una netta discontinuità tra le singole persone di altre religioni e i sistemi religiosi a cui essi appartengono. Brutalmente potremmo dire: i primi sì e i secondi no? Naturalmente ammettere una tale dicotomia non terebbe conto di come ogni singolo credente sia, come ogni altro essere umano, anche un essere sociale e di come ciò che egli/ella è (ortodossia) e ciò che fa (ortoprassi) come credente è strettamente legato alla sua specifica appartenenza religiosa. Ma ritorniamo a Gesù. Senza dubbio egli rigettava l’ipocrisia, l’autorefenzialità e la vuota appartenenza religiosa senza alcuna profondità spirituale. Nell’ottica del Sermone della pianura, così come raccontato da Luca, cuore del messaggio di Gesù, la religione falsa è qualsiasi tradizione che scambia le cerimonie esteriori per la spiritualità interiore. Tutte le Beatitudini si configurano come una chiamata ad “interiorizzare” la legge così che potesse diventare una forza spirituale centrata sull’amore. Diversamente, non sembrano esserci evidenze bibliche che mostrano Gesù condannare direttamente le tradizioni religiose in quanto tali. Inoltre, la riscoperta dell’identità profondamente ebraica di Gesù ha mostrato come egli si recasse regolarmente nella sinagoga, come fosse profondo conoscitore della Torah e come rispettasse tutte le festività ebraiche. Tale posizione, profondamente dialogica del Gesù, storico non sembra molto coerente col rifiuto cristiano sic et simpliciter delle altre tradizioni religiose in se stesse, né tanto meno col rifiuto di dialogare con loro in maniera teologica, spesso fermandosi al solo impegno comune per il bene del prossimo, tutto sommato non rischioso, soprattutto se tale rifiuto è fatto a priori, senza cioè una reale conoscenza delle altre religioni.21 LA CHIESA APOSTOLICA E LE RELIGIONI Abbiamo appena visto come l’opera del Gesù storico fosse segnata dall’ orizzonte del Regno col corollario della sua apertura universale. Pur affermando la continuità tra la centralità del Regno - e dunque di Dio - che fu del Gesù storico, e la centralità cristocentrica della chiesa apostolica - poiché quel Regno divenne realmente presente mediante la Sua morte e resurrezione - non possiamo negare, seguendo gran parte degli 21 Cfr., S.W. ARIARAJAH, The Bible and the People of Other Faiths, 33-35. Corso MB1019 – Dialogo interreligioso A.A. 2014-2015 – Prof. Gaetano Sabetta 15 studiosi del Nuovo Testamento, che l’origine della chiesa apostolica sia da rintracciare nella confessione del Cristo risorto. Il kerygma apostolico sintetizzato nella formula: «Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso!» (At 2,36) lega indissolubilmente il Gesù storico al Cristo risorto. Come affermano Odasso22 e Dupuis23, l’evento della resurrezione, mediante il quale Cristo diventa trans-storico, è la prospettiva a partire dalla quale la nascente comunità cristiana configura la propria identità religiosa e, di conseguenza, quella dell’intera umanità. Da questa realtà scaturiscono due conseguenze per il dialogo: 1. La fede nella resurrezione consente al Gesù che ha trasceso la storia divenendo il Cristo della fede di essere il paradigma dell’esistenza del cristiano; 2. La partecipazione alla resurrezione di Cristo non rimane esclusivamente all’interno della Chiesa, ma raggiunge tutti gli uomini che si aprono a Dio nell’interiorità del loro cuore e nella concretezza esistenziale-storica delle loro religioni (cf. GS 22). Di conseguenza, la missione profetica della chiesa (punto 2) è quella di cogliere nel paradigma di Gesù-Cristo risorto i valori fondamentali che caratterizzano ogni autentica esperienza del divino. Tale discernimento significa dialogare profondamente con le tradizioni religiose dei popoli, rimanendo coscienti che la partecipazione di tutti all’evento trascendente del Signore risorto non si esaurisce certo nella storia, né s’identifica necessariamente nella crescita numerica della comunità cristiana. La Legge scritta nei cuori Nel capitolo 2 della lettera ai Romani Paolo dimostra l’universalità della potenza salvifica della resurrezione di Cristo che raggiunge anche i gentili in quella che è la vera e propria «nuova alleanza». Si tratta della «legge iscritta nei cuori» (Rm 2,14-16). Anche se non hanno ricevuto la rivelazione della Torah come i giudei, i pagani naturalmente agiscono secondo la legge poiché la legge è scritta nei loro cuori, come risulta dalla loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti. La legge iscritta nei loro cuori è l’amore, l’agape del Nuovo Testamento. Essa richiama, anche stilisticamente la «nuova alleanza» di Ger. 31,31-34 dove si dichiara che Dio scriverà la sua legge sul cuore degli uomini. Quali sono le conseguenze per il dialogo interreligioso? 22 23 G. ODASSO, Bibbia e religioni, 289. J. DUPUIS, Il Cristianesimo e le religioni. Dallo scontro all’incontro, 71-73. Corso MB1019 – Dialogo interreligioso A.A. 2014-2015 – Prof. Gaetano Sabetta 16 La prima conseguenza del testo paolino è l’impossibilità di considerare l’espressione legge scritta nei loro cuori rivolta ai gentili nel senso della legge naturale24. Si tratta dunque, alla luce della Bibbia, di rivedere il concetto di «religione naturale», frutto dello sforzo umano verso Dio, rispetto a quella sopranaturale, segnato dall’iniziativa di Dio (rivelazione). Stoeckle nel suo studio sulle religioni del mondo osserva giustamente: «non è lecito interpretare la peculiarità delle religioni extrabibliche di fronte alla religione biblica dell’Antico e del Nuovo Testamento, basandosi sulla differenziazione teoretico-astratta tra conoscenza naturale e soprannaturale (in senso tradizionale) di Dio. Poiché è propria della creazione, sulla base del suo “essere progettata per Cristo”, un’originale finalizzazione soprannaturale; in ciò che le religioni pagane rinviate al cosmo offrono di valori umani significativi […] vi si esprime […] vera grazia di Cristo, genuina comunicazione soprannaturale di salvezza» 25 La seconda conseguenza, come ci ricorda Odasso, è la giustificazione teologica al dialogo interreligioso inteso nel senso della reciprocità: «Se lo Spirito di Cristo è presente nell’uomo che cerca il Signore, se le diverse religioni, con i loro modi di agire e di vivere, con i loro precetti e le loro dottrine, “non raramente riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini (Nostra Aetate, n. 2), appare chiaro che anche i cristiani possono trovare, nel modo in cui gli appartenenti ad altre religioni professano e vivono la propria dimensione religiosa, interpellanze ed esperienze che orientano ad una comprensione più illuminata e a una testimonianza maggiormente genuina della propria fede» 26 Al Dio ignoto Un altro brano significativo è il discorso di Paolo nell’Aeròpago di Atene (At 17, 22-31). Il testo permette di cogliere il valore positivo di ogni esperienza umana. Tale esperienza viene addirittura caratterizzata dall’apostolo dal verbo “cercare” (v.27). Il riferimento al filosofo greco Efimenide (IV sec. a.C.) quando dice: «in lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (v.28) equivale al riconoscimento che nella tradizione greca (stoica e platonica) c’è una genuina «ricerca di Dio». L’esplicito riferimento al verbo “cercare 24 G. ODASSO, Bibbia e religioni, 323. B. STOECKLE, «L’umanità “extrabiblica” e le Religioni del mondo», in Mysterium Salutis, 4, 877. 26 G. ODASSO, Bibbia e religioni 333-334. [corsivo nostro]. Si veda anche J. DUPUIS, Il Cristianesimo e le religioni. Dallo scontro all’incontro, 78. 25 Corso MB1019 – Dialogo interreligioso A.A. 2014-2015 – Prof. Gaetano Sabetta 17 Dio” si comprende nella sua profondità se si considera che esso nella tradizione biblica è il culmine del cammino di fede compiuto da Israele. Si tratta della ricerca della rivelazione stessa poiché, in definitiva, Dio si rivela per essere cercato. Non siamo dunque nel campo della mera ricerca naturale di Dio, quanto piuttosto in quello della vera e propria ricerca di fede, ovvero della ricerca salvifica. Essa, alla luce di At 17, si estende all’esperienza religiosa umana non solo considerata individualmente ma anche nella dimensione sociale, poiché l’esperienza religiosa singola è vissuta all’interno di una religione, di una socialità. A riprova dell’intrinseca relazione tra le due dimensioni religiose, individuale e sociale, Paolo al v. 23b va riferimento all’annuncio del Dio ignoto da fare ai singoli uditori mentre al v. 26 si riferisce alle «nazioni degli uomini». La seconda parte del discorso (vv.30-34) evidenzia invece una discontinuità tra le religioni e la fede cristiana. Si tratta della prospettiva apocalittica di chi ha fede nella resurrezione. Proprio l’evento della resurrezione fonda l’annuncio cristiano, così come condensato nei vv. 30-31. Si tratta, comunque, di una missione profetica nel senso che il riconoscimento della dimensione trascendente della resurrezione non consente alla Chiesa d’identificarsi col Regno di Dio. Anche se i cristiani partecipano della resurrezione di Cristo, tale partecipazione è solo iniziale, poiché sono ancora in questo mondo. Chiamata a testimoniare il Vangelo della resurrezione, la Chiesa è contestualmente chiamata a discernere i valori presenti nel cammino religioso dell’umanità. In questo spazio il dialogo interreligioso si configura quale luogo privilegiato di ricerca e di discernimento. Dio non fa preferenze di persone Un altro episodio significativo è quello di Pietro che si reca dal centurione romano Cornelio (At 10, 1-48). Cornelio è un uomo timorato di Dio con tutta la sua famiglia, anche se si tratta di un romano. Le sue preghiere sono state ascoltare dal Signore che in una visione gli comunica che Pietro verrà a fargli visita nella sua casa di Cesarea. Cornelio dunque manda degli uomini nella città di Giaffa, dove si trova Pietro, per portarlo a Cesarea. Nel frattempo Pietro ha una visione che cambia completamente il suo modo di vedere l’opera di Dio e la partecipazione dei pagani nel piano di Dio per la salvezza. Si tratta di una vera e propria conversione, tanto che il brano più che la conversione di Cornelio, dovrebbe essere chiamato la conversione di Pietro! Al centro della visione c’è la voce del Signore che ricorda a Pietro che tutto quello che è stato da Corso MB1019 – Dialogo interreligioso A.A. 2014-2015 – Prof. Gaetano Sabetta 18 Lui purificato non può essere considerato immondo (v.15). Quest’esperienza si rivela fondamentale quando Pietro entra nella casa di Cornelio - gli ebrei non potevano entrare nelle case dei non-ebrei - e gli fa dire, in una versa e propria confessione di fede: «Dio mi ha mostrato che non si deve dire profano e immondo nessun uomo» (v. 28). Più in là in maniera decisiva afferma: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone (e qui il richiamo è al famoso principio di Dt 10,17, confermato da Rm 2,11), ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto» (vv. 3435). Quali sono le conseguenze per il dialogo interreligioso? Sopra parlavamo della conversione di Pietro. Pietro capisce che le religioni non possono ingabbiare Dio che rimane sempre libero di agire come meglio crede. Lasciare che Dio sia Dio, questa è la conversione di Pietro. I problemi nascono quando le religioni si considerano assolute. La seconda lezione che Pietro impara riguarda l’accesso diretto che Dio ha con le persone. Non è detto che abbia bisogno della nostra mediazione. La terza lezione è la santità di Cornelio, le cui preghiere sono ascoltate da Dio, e come attraverso la santità di questo romano Pietro approfondisce la propria fede. Il confronto con la santità e la fede di un musulmano o di induista può essere fonte di arricchimento per il nostro cammino di fede, come cristiani? L’ultimo aspetto attiene nuovamente all’impossibilità teologica di considerare queste esperienze religiose quali mere espressioni dello sforzo umano verso Dio, ovvero religioni naturali. Si tratta di cristalizzazioni di esperienze religiose con al loro interno elementi soprannaturali. Cornelio anche prima di diventare discepolo di Cristo attraverso il battesimo godeva di una relazione speciale con Dio ed è stato Pietro a dover imparare quella lezione! affermazioni non esclusioni! Tutto quello che abbiamo detto non esclude certo la specificità costitutiva di GesùCristo quale salvatore universale dell’umanità, solamente ci immunizza da una lettura esclusivista delle altre religioni e dalla tendenza a considerare il dialogo come pericoloso per la fede. In tale contesto, sembra significativo confrontarsi con alcuni Corso MB1019 – Dialogo interreligioso A.A. 2014-2015 – Prof. Gaetano Sabetta 19 testi che spesso vengono citati per evidenziare la mancanza di fondamento biblico relativamente al dialogo. Cominciamo dal testo di At 4,12 «in nessun altro nome c’è salvezza». Il problema di questo testo è che spesso viene preso fuori dal contesto originario per poi essere proiettato come verità a-temporale fuori da ogni contesto storico. Il contesto originario non è quello del rapporto tra la nascente religione e le altre religioni extragiudaiche quando invece quello della polemica intra-giudaica tra le autorità religiose giudaiche del tempo che detenevano il potere e il nascente culto, che non si chiamava ancora cristiano, che invece si opponeva a quel potere. All’interno del conflitto politico e religioso intra-giudaico, Pietro e Giovanni sono chiamati in giudizio davanti al sinedrio (At 4,5-6); è la parte più potente che chiede ai due discepoli di giustificare il loro comportamento. Sembra davvero una forzatura far derivare da questo testo una teologia cristiana che escluda ogni altra religione a partire dalla formula «nessun altro nome». Il testo di (1 Tim 1-6), dove si parla dell’uomo Cristo-Gesù come «solo mediatore», rappresenta, secondo Dupuis, l’affermazione matura della chiesa apostolica del ruolo insostituibile del Cristo risorto per la salvezza dell’umanità.27 Il contesto è quello della preghiera che Paolo rivolge a tutti, compresi i pagani. La realtà fondamentale che l’apostolo propone è la volontà salvifica universale di Dio (grazia). Essa è la realtà assoluta costitutiva della salvezza, connessa al tema “dell’imparzialità di Dio” (Dt 10,17; At 10,34; Rm 2,11). In questo senso la funzione di mediatore (mesites) del Cristo risorto poggia su di essa, ne è l’espressione concreta, il sacramento efficace ed operativo, senza che quest’affermazione, che dice qualcosa di profondo e decisivo sul Dio di Gesù-Cristo, possa essere intesa come esclusiva di altre figure salvifiche. Affermare una cosa di Gesù-Cristo non significa escludere altre mediazioni, sia pur partecipate28. In questa direzione sembra andare anche il testo originale greco che non dice «uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini», ma, omettendo il fra, afferma: «uno solo il mediatore di Dio e degli uomini» (mesitês theou kai anthropon). In questa maniera Gesù-Cristo 27 J. DUPUIS, Il Cristianesimo e le religioni. Dallo scontro all’incontro, 90. LG, 62; RM, 5; DI 14. 28 Corso MB1019 – Dialogo interreligioso A.A. 2014-2015 – Prof. Gaetano Sabetta 20 diventa il solo mediatore non perché è in assoluto l’unico, ma perché e il solo che contestualmente è mediatore di Dio, perché è Dio, e mediatore dell’uomo, perché è veramente umano, proprio come la tradizione intende il mistero delle due nature nell’unica persona e senza che questo infici la possibilità di altri mediatori. In altri termini, quello che è specifico nella funzione mediatrice di Gesù-Cristo è la sua capacità di essere il solo Dio-uomo29. La stessa affermazione di Gesù in Gv 14,6: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» svela qualcosa di Gesù, ma questo non esclude altre figure salvifiche. In particolare, Gesù mostra la via filiale verso il Padre, ma ciò non esclude altre vie o altre figure salvifiche nel senso delle «mediazioni partecipate» di Redemptoris Missio n. 5 e Dominus Iesus n.14. CONCLUSIONE A conclusione della sua analisi biblica, Dupuis individua tre osservazioni basilari che confermano l’alternanza tra universalismo e particolarismo di cui parlavamo all’inizio. Esse sono decisive soprattutto nell’orientare la lettura biblica delle religioni, il pensiero di Gesù e quello della chiesa nascente. 1. Astenerci da una lettura direttamente ed esclusivamente ‘cristiana’ dei vangeli: il discorso della Montagna, così caro a Gandhi, non può leggersi solo come la Magna Carta dei cristiani quanto piuttosto come la Magna Carta del Regno di Dio, che come tale è aperta a tutti; 2. Considerare le asserzioni bibliche come affermazioni e non come esclusioni: nella chiesa delle origini proclamare Gesù come “il Figlio unigenito di Dio” aveva lo scopo di dire qualcosa su di lui non quello di dire qualcosa di negativo sul Buddha; 3. Evitare di considerare il valore delle altre tradizioni religiose solo in termini ‘naturali’ (Rm 1,20), ma superare il paradigma del compimento, rinvenendo in esse i “doni soprannaturali elargiti da Dio”30. 29 Cfr., J. KUTTIANIMATTATHIL, Jesus Christ Unique and Universal, KJC Publication, Bangalore 30 J. DUPUIS, Il Cristianesimo e le religioni. Dallo scontro all’incontro, 93-95. La conclusione di Dupuis tiene conto dello studio di Odasso secondo cui: «che le religioni siano altrettante espressioni del disegno di Dio è un dato ormai acquisito, proprio perché esse, Corso MB1019 – Dialogo interreligioso A.A. 2014-2015 – Prof. Gaetano Sabetta 21 4. Evitare di considerare i testi biblici come contrari al dialogo tra le religioni. Diversamente il principio dialogico è il cuore, l’orientamento fondamentale delle Scritture. Di più, la via maestra del dialogo passa attraverso una conoscenza delle potenzialità dialogiche del testo biblico e dal suo confronto con testi di altre religioni in un’ottica di mutua illuminazione nell’autenticità della propria identità31. IL CAMMINO STORICO FINO AL CONCILIO VATICANO II Nei primi tre secoli della storia cristiana i Padri della chiesa preservarono la dimensione della presenza salvifica universale di Dio attraverso la concretezza del simbolo del Lógos spermatikós. L’intuizione giovannea di coniugare nel Lógos l’aspetto personalistico giudeo a quello cosmico d’ispirazione ellenistica rappresenta la radice della teoria della progressiva manifestazione del Lógos divino, così come elaborata da Giustino, da Ireneo e da Clemente di Alessandria. Dupuis sintetizza in quattro punti la teoria di Giustino sul Lógos seminatore che si pone quale principio dinamico dell’intera creazione: a) esistono tre tipi di consapevolezza religiosa: quella delle nazioni, quella ebraica e quella cristiana; b) la fonte di tale consapevolezza è unica: il Lógos; c) l’influenza e l’intervento del Lógos si estende a tutto il cosmo e a tutti gli uomini, anche se in maniera differenziata: diviene più incisivo con Israele, si completa solo con l’incarnazione in Gesù, ma è presente ovunque; d) tutti coloro che vivono secondo coscienza in maniera retta partecipano del Lógos e fanno esperienza della Verità32. La visione di Ireneo, fondatore della teologia della storia, considera tutte le manifestazione, a partire dalla creazione di Dio, come Logo-fanie33. L’ordine della creazione non è che la prima fase della manifestazione di Dio attraverso il Lógos; ad essa segue l’economia (dispensationes = oikonomías) giudaica e poi quella cristiana, senza che questa progressione a spirale offuschi la novità dell’evento Cristo, poichè l’assunzione della carne umana esprime la decisività del Padre di essere presente nella storia, e senza che essa fagociti le precedenti come risulta dalle prospettive dell’Antico e del Nuovo Testamento, sono sulla terra un dono di Dio a tutte le genti e perciò, segno della presenza salvificamente operante della Sapienza», G. ODASSO, Bibbia e religioni. Prospettive bibliche per la teologia delle religioni, 372, come citato da ibidem, 95. 31 Cfr., G. ODASSO, Bibbia e religioni, 374-378. 32 J. DUPUIS, Il Cristianesimo e le religioni. Dallo scontro all’incontro,, 281-284. 33 IRENEO DI LIONE, Adversus haereses, IV, 20, 7, (PG 7, 1037). Corso MB1019 – Dialogo interreligioso A.A. 2014-2015 – Prof. Gaetano Sabetta 22 economie34. Clemente alessandrino segue Ireneo nel considerare ogni manifestazione del Padre come Logo-fanica e pur parlando di un’intuizione naturale di Dio presso tutti gli uomini e dell’azione del Lógos come capace d’introdurre nei segreti di Dio, considera quest’ultima più vasta della tradizione ebraico-cristiana. La filosofia greca e l’economia ebraica sono entrambe delle alleanze (diaqh/kh) pensate per condurre a Cristo35 e ciò è valido anche per le filosofie orientali, dove ci sono i gimnosofisti chiamati Sarmani e Brahmani36. Purtroppo a partire dal IV secolo e fino al XVI secolo la dimensione universale cadde progressivamente nell’oblio. Tracce di questo progressivo offuscamento possono già notarsi però a partire dalla fine del II secolo. Ignazio di Antiochia (35-107 d.C.), nel pieno della polemica gnostica, identifica i cristiani come figli della vera luce rispetto agli scismatici che non erediteranno il Regno di Dio37 e Origene (185-254 d.C.), pur 34 J. DUPUIS, Il Cristianesimo e le religioni. Dallo scontro all’incontro, 284-288. CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromati, VI, 8, (PG 9, 283-292). 36 Ibidem, I,15, (PG 8, 767-784). Nel pensiero di Dupuis il significato di Lógos utilizzato da questi primi pensatori cristiani, seguendo il prologo giovanneo, tiene insieme l’intuizione stoica di principio d’intelligibilità (ragione) della creazione, del mondo e della storia e quello biblico della Parola di Dio (dâbâr) presente fin dall’inizio, trovando la sua definitività nella personificazione di quel Verbo eternamente presente presso Dio. Questo rappresenta per l’autore belga un invito dei Padri della chiesa ad affermare una presenza del Verbo di Dio anche al di fuori della tradizione ebraico-cristiana, ed anche successivamente alla venuta dell’evento storico di Gesù Cristo, poichè il ruolo provvidenziale di queste ‘filosofie’ non può ritenersi esaurito fin quanto le singole persone non fossero state “esistenzialmente” interpellate dal Vangelo. Proprio per tale motivo il simbolo del Lógos spermatikós non può ridursi ad una conoscenza naturale di Dio da parte dell’uomo, come gran parte della riflessione teologia successiva ha affermato, ma deve comprendere la stessa presenza e azione universale del Verbo di Dio che si auto-comunica a tutti gli uomini. Tutto questo, conclude il gesuita belga, permette di scoprire un valore positivo delle religioni nell’ordine della salvezza secondo il piano divino per l’umanità il cui centro rimane sempre l’evento Gesù-Cristo, J. DUPUIS, Il Cristianesimo e le religioni. Dallo scontro all’incontro, 291-295; Geffrè conferma l’interpretazione del gesuita belga circa il valore teologico dei semina Verbi, C. GEFFRÈ, «La parola di Dio delle altre tradizioni religiose», in Concilium 46, 2 (2010), 48; diversamente per D’Costa quella stessa dottrina dei semina Verbi è vista, nell’interpretazione del Concilio Vaticano II, come la conferma del principio tomista gratia non tollit naturam sed perficit con la conseguenza che non può parlarsi di valore salvifico delle altre religioni, stante la loro “naturalità”, G. D’COSTA, The Meeting of Religions and the Trinity, Orbis Book, Maryknoll New York 2000, 104; 37 Ecco il testo della lettera: “State lontani dalle erbe cattive che Gesù Cristo non coltiva, 35 perché non sono piantagione del Padre. Non ho trovato divisione in mezzo a voi, ma selezione. Corso MB1019 – Dialogo interreligioso A.A. 2014-2015 – Prof. Gaetano Sabetta 23 rifacendosi alla teologia del Logos universale di Giustino, non risparmia occasione per ricordare che la salvezza è solo nella chiesa38. Sarà con Cipriano (210-258 d.C.), vescovo di Cartagine, che l’assioma extra ecclesia nulla salus entrerà di prepotenza nella tribolata storia delle persecuzioni dei cristiani da parte dei romani; tutti i cristiani che si erano allontanati dalla Chiesa, sia essi scismatici o eretici non potevano arrivare alla salvezza. Sullivan39, nella sua ricerca sulla storia del famoso assioma, dichiara che non esistono scritti di Cipriano che estendono l’extra ecclesia ai pagani del suo tempo. Sarà Agostino, sull’onda emotiva delle invasioni barbariche, che cominciò a considerare la grazia di Dio presente solamente all’interno della chiesa40 ed il suo allievo Fulgenzio di Ruspe non esitò ad estendere l’adagio extra ecclesia nulla salus, anche agli ebrei e a tutti i pagani41. Tale rigida interpretazione dell’assioma che prevedeva l’adesione di fede Quanti sono di Dio e di Gesù Cristo, tanti sono con il vescovo. Quelli che pentiti rientrano nell’unità della Chiesa saranno di Dio perché vivono secondo Gesù Cristo. Non lasciatevi ingannare fratelli miei. Se qualcuno segue lo scismatico non erediterà il regno di Dio. Se qualcuno marcia nella dottrina eretica egli non partecipa della passione di Cristo.” [Lettera ai Filadelfiesi 3,3 (Ignazio di Antiochia)]. 38 Ecco cosa scrive nell’Omelia a Giosuè: extra hanc domun, id est extra ecclesiam, memo salvatur [PG 12, 841-842]. 39 F. A. SULLIVAN, Salvation outside the Church? Tracing the History of the Catholic Response, Paulist Press, New York 1992, 22-23. 40 P.F. KNITTER, Introduzione alle teologie delle religioni, 138; J. DUPUIS, Towards a Christian Theology of Religious Pluralism, 90-91. Eloquente quest’affermazione del De Spiritu et littera: «Dio poi vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità, ma senza togliere tuttavia ad essi il libero arbitrio, del cui uso buono o cattivo saranno giudicati con assoluta giustizia. Usando male del libero arbitrio, gli infedeli che non credono al Vangelo agiscono certo contro la volontà di Dio, ma non per questo vincono contro di essa: piuttosto privano se stessi di un grande e sommo bene e si condannano a mali punitivi, destinati come sono a sperimentare nei castighi la potenza di colui del quale hanno disprezzato la misericordia nei doni». [De Spiritu et littera (33,58)]. Secondo Theisen: «Augustine transmits to the Middle Ages a rather exclusivist understanding of the adage Extra ecclesiam nulla salus […] Union with the church is conceived rather rigidly; it is required for the reception of the Holy Spirit and eternal life», J.P. THEISEN, The Ultimate Church and the Promise of Salvation, St. John’s University Press, Collegeville Minnesota 1976, 16. 41 «Non dubitare in nessun modo che non solo tutti i pagani, ma anche tutti gli ebrei e tutti gli eretici e scismatici che terminano la vita fuori dalla chiesa cattolica andranno “nel fuoco eterno preparato per il diavolo e per i suoi angeli”», FULGENZIO DI RUSPE, Le condizioni della penitenza. La fede, Città Nuova, Roma 1986, 170-171, come citato da P.F. KNITTER, Introduzione alle teologie delle religioni, 139; sullo stesso punto si veda J. DUPUIS, Towards a Christian Theology of Religious Pluralism, 92; ID, Il Cristianesimo e le religioni. Dallo scontro all’incontro, 377. Corso MB1019 – Dialogo interreligioso A.A. 2014-2015 – Prof. Gaetano Sabetta 24 esplicita a Cristo attraverso la chiesa, divenne parte della dottrina ufficiale con il concilio Lateranense IV del 121542, la Bolla Unam sanctam di Bonifacio VIII del 130243 e il concilio di Firenze del 144244. La presunzione assoluta di colpevolezza dei pagani e degli ebrei nel non voler diventare cristiani, basata sul presupposto che oramai il vangelo fosse stato annunciato a tutto il mondo, si sciolse come neve al sole all’indomani della scoperta dell’America del 1942 ed inaugurò una nuova prospettiva teologica centrata sulla sufficienza della fede implicita. Si trattava della teoria della salvezza degli infedeli, ovvero dei singoli credenti che senza colpa non avevano sentito parlare di Cristo, considerati dunque nella sola dimensione individuale. Fu così che il concilio di Trento (1545-1563), sulla spinta della riflessione teologica di Bellarmino e Suárez, fece propria la dottrina del battesimo di desiderio: seguire nella propria coscienza i dettami di Dio e vivere moralmente erano segni di un desiderio implicito di unirsi alla chiesa45, per poi definitivamente abbandonare l’interpretazione esclusivista dell’antico assioma con la lettera del sant’Uffizio all’arcivescovo di Boston, sotto il pontificato di Pio XII, del 194946. Tale prospettiva individualista, centrata sulla possibilità di salvezza o meno dei membri delle altre religioni, come se ciò accadesse privatamente, rimase, salvo pochissime eccezioni47, invariata fino ai decenni che precedettero il Concilio Vaticano II (1962-1965). In altre parole, come ricorda Rossano, il clima del Concilio e gli anni che lo precedettero, fecero maturare prospettive nuove, ovvero una valutazione teologica delle religioni in sé si 42 DH 802. DH 870; 872; 875. 44 DH 1351. 45 DH 1524. 46 DH 3866-3872. 47 Il riferimento è a Nicola Cusano (1401-1464). Stupefacente quest’affermazione del De pace fidei: «C’è una sola religione, un unico culto, quello di tutti coloro che vivono secondo i 43 principi del Logos-ragione; questa religione unica è soggiacente alle differenti pratiche religiose […]. Ogni culto degli dèi testimonia in favore della divinità», come citato in J. DUPUIS, Gesù Cristo incontro alle religioni, 187. Per un approfondimento in chiave dialogica della figura del grande pensatore di Coblenza si veda: J. RIES, Opera Omnia vol. I/2. Incontro e Dialogo. Cristianesimo,religioni e cultura, Jaca Book Milano, 2009, 3-12. Altra figura importante è Raimondo Lullo (1233-1316). Per un approfondimento si veda: ID, Opera Omnia vol. I/I. I Cristiani e le religioni. Dagli Atti degli Apostoli al Vaticano II, Jaca Book, Milano 2006, 250 - 253. Corso MB1019 – Dialogo interreligioso A.A. 2014-2015 – Prof. Gaetano Sabetta 25 profilava come inevitabile: era la nascita delle teologie delle religioni48. In ambito cattolico, prima e durante il Concilio Vaticano II, proprio in relazione alla valutazione delle religioni in quanto tali, si profilarono due interpretazioni divergenti. La prima, nota come “teoria del compimento”, considerava le religioni dell’umanità come l’aspirazione innata dell’uomo ad unirsi col divino, di cui le religioni erano le diverse espressioni culturali. La seconda vedeva nelle religioni dell’umanità degli interventi specifici, anche se iniziali ed imperfetti, di Dio nella storia della salvezza. In altre parole, se nello schema della praeparatio evangelica (prima interpretazione) le religioni rimanevano espressioni diversificate dell’homo naturaliter religiosus e solo il cristianesimo, godendo dell’iniziativa di Dio, poteva dirsi religione soprannaturale, nella teoria “della presenza nascosta di Cristo” (seconda interpretazione) nessuna religione poteva dirsi naturale poiché animata dalla presenza divina ed orientata a Cristo49. In definitiva, il primo orientamento pur riconoscendo alcuni valori positivi alle altre tradizioni religiose, rimaneva fondato sulla relazione orizzontale tra le diverse religioni con al centro il cristianesimo con la conseguenza che nessun concorso alla salvezza poteva essere riconosciuto alle altre tradizioni religiose. Viceversa, il ri-centramento cristologico del secondo orientamento, ponendo le religioni in rapporto verticale col mistero di Cristo, era compatibile con una partecipazione di tutte all’unico mistero, anche se in maniera asimmetrica rispetto al cristianesimo. L’accenno alla soluzione che si raggiunse a conclusione del concilio rappresenta il ponte ideale per cogliere la terza prospettiva aperta 48 «In particolare di fronte all’emergere delle religioni del mondo i cristiani cominciavano a interrogarsi non più tanto sulla possibilità di salvezza di chi non è cristiano […] ma sul valore salvifico di quei complessi socio-culturali che sono le religioni dell’Asia e dell’Africa», P. ROSSANO, Dialogo e annuncio cristiano. L’incontro con le grandi religioni, 113. Sulla stessa linea Dupuis afferma come: «A partire dagli anni cinquanta […] andarono sviluppandosi diverse teorie che proponevano una problematica non più esclusivamente individualista [salvezza degli infedeli], ma socialmente orientata. Il problema non si limitava più alla salvezza individuale delle singole persone che non erano membri della chiesa, ma a quella del riconoscimento di valori positivi nelle tradizioni stesse che, […], potessero influenzare la salvezza personale dei loro membri», J. DUPUIS, Il Cristianesimo e le religioni. Dallo scontro all’incontro, 20. 49 J. DUPUIS, Gesù Cristo incontro alle religioni, 173-179; ID, Il Cristianesimo e le religioni. Dallo scontro all’incontro, 96-100. Corso MB1019 – Dialogo interreligioso A.A. 2014-2015 – Prof. Gaetano Sabetta 26 dagli studiosi successivamente al concilio stesso50. Essa si muove nella direzione di una teologia interreligiosa che allargando la prospettiva rispetto al cul-de-sac della salvezza o meno delle religioni, assume come orizzonte il pluralismo di principio51 e come metodo 50 Secondo Dupuis non è possibile affermare in maniera definitiva quale fu la scelta del Concilio Vaticano II in merito ai due orientamenti; l’andamento ondivago riflette senza dubbio l’importanza e la delicatezza dell’argomento, ma anche la difficoltà di prendere una posizione netta a favore dell’una o dell’altra soluzione. In tale empasse il Concilio scelse saggiamente di rimettere la problematica alla ricerca teologica. Detto ciò, continua il teologo gesuita, se la prospettiva cristocentrica trova spazio, senza alcuna esitazione, nel caso della salvezza delle singole persone (cfr. LG 16; GS 22) essa viene totalmente oscurata dalla relazione orizzontale tra il cristianesimo e le religioni una volta che si tocca il nodo del loro significato teologico: lo stesso titolo della dichiarazione Nostra Aetate “sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane” ne è la prova più eclatante, cfr., J. DUPUIS, Gesù Cristo incontro alle religioni, 130-131; Nel pensiero di Geffrè, invece, il risultato del Vaticano II sembra più facilmente leggibile: si tratta di un superamento dell’antica teologia della salvezza degli infedeli, centrata sulla dimensione individuale, per arrivare al piano della positività storica delle religioni, cfr., C.GEFFRÈ, Credere e interpretare. La svolta ermeneutica della teologia, 113-114; contrariamente al dominicano francese, il teologo anglo-indiano D’Costa afferma chiaramente che il concilio si rifiutò di considerare le religioni vie di salvezza e rimbrotta Knitter per la facilità con la quale afferma che la maggioranza dei teologi cattolici interpreta l’insegnamento conciliare in senso positivo, G. D’COSTA, The Meeting of Religions and the Trinity, Orbis Book, Maryknoll New York 2000, 101-105; lo stesso Rahner, principale artefice durante quegli anni dell’orientamento cristocentrico, ritiene che il Vaticano II abbia lasciato indeterminata la qualità propriamente teologica delle religioni non cristiane, K. RAHNER, Dio e rivelazione. Nuovi Saggi 7, Paoline, Roma 1981, 425426. Interessante, infine, ci sembra l’argomentazione di Colzani secondo cui la qualità teologica delle religioni nel concilio deve inquadrarsi a partire dalla dottrina dei semina Verbi e che l’esitazione dei Padri conciliari a trarre conclusioni definitive riflette proprio la diversa percezione sul valore teologico degli stessi. In altre parole, conclude Colzani «la questione teologica delle religioni non cristiane non è risolta dal concilio; pur chiarendo alcuni punti fermi, questo problema è consegnato alla teologia», G. COLZANI, Missiologia contemporanea. Il cammino evangelico delle Chiese: 1945-2007, 259-260. 51 Secondo Dupuis: «Non basta più chiedere se e che cosa le tradizioni religiose abbiamo a che fare con il mistero della salvezza in Gesù Cristo dei loro membri [teologie cristiane delle religioni]. Più in profondità, ci si chiede quale significato positivo abbiamo le tradizioni religiose stesse nell’unico piano globale di Dio per la salvezza [teologie cristiane del pluralismo religioso]», J. DUPUIS, Il Cristianesimo e le religioni. Dallo scontro all’incontro, 21. [parentesi nostre]; in maniera più diretta, il dominicano Geffrè, a commento della dichiarazione Dominus Iesus, prende le distanze, in continuità con la dichiarazione, dalle derive teologiche che mettono in discussione l’unicità e l’universalità del mistero di Cristo, ma ritiene increscioso che la dichiarazione condanni i teologi che distinguono un pluralismo di fatto e uno de jure, poichè, conclude l’autore, si tratta di un’ipotesi teologica feconda non legata necessariamente alle negazioni delle verità enumerate al n. 4 Corso MB1019 – Dialogo interreligioso A.A. 2014-2015 – Prof. Gaetano Sabetta 27 quello induttivo, frutto della svolta ermeneutica e contestuale52, ovvero interculturale e interreligiosa. Se ci si pone nell’orizzonte di scoprire quale può essere il contributo di ogni religione al piano di Dio, non si tratta più solo di elaborare uno schema teologico a tavolino che permetta poi di dialogare. Diversamente, la riflessione teologica nasce anche nell’incontro con l’altro: non più solo una teologia per il dialogo, ma anche una teologia in dialogo quali momenti insopprimibili ed inconfondibili di un unico processo di avvicinamento creativo e reciprocamente illuminate al religiosamente altro. *** della dichirazione stessa., C.GEFFRÈ, Credere e interpretare. La svolta ermeneutica della teologia, 9. Lo stesso autore, successivamente, specifica il suo pensiero in questo senso: «[…] teologi eminenti come Edward Schillebeecks e Jacques Dupuis non esitano a parlare, a partire dall’esperienza storica di un pluralismo religioso di fatto, di un pluralismo di principio. È preferibile evitare di parlare di un pluralismo di diritto o de jure come se Dio condonasse le gravi ambiguità di molte tradizioni religiose. Ma teologicamente è lecito comprendere il pluralismo di principio nel senso di un volere misterioso di Dio che cerca di salvare gli essere umani a partire dai valori positivi delle religioni del mondo.», ID., «La parola di Dio delle altre tradizioni religiose», in Concilium 46, 2 (2010), 47. 52 J. DUPUIS, Il Cristianesimo e le religioni. Dallo scontro all’incontro, 28-35. Corso MB1019 – Dialogo interreligioso A.A. 2014-2015 – Prof. Gaetano Sabetta