LA LITTÉRATURE PAR LE THÉÅTRE Notes pour le cours

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LA LITTÉRATURE PAR LE THÉÅTRE
Notes pour le cours
(septembre-décembre)
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LA LITTÉRATURE PAR LE THÉÅTRE
Il corso propone un viaggio attraverso la letteratura francese dal Seicento al Novecento di cui verrà
studiato in particolare il genere teatrale, seguendone l’evoluzione per movimenti, autori e opere.
Elenco dei testi:
Corneille L’illusion comique
Molière Tartuffe
Marivaux Le prince travesti
Diderot Le Fils naturel
Alfred de Musset Lorenzaccio
Romains Knock ou le triomphe de la médecine
Crommelinck Le cocu magnifique
Ionesco Rhinocéros
Beckett En attendant Godot
Una bibliografia critica di riferimento verrà fornita agli studenti tramite fotocopie durante il corso.
Corso incentrato sulla presentazione e per quanto possibile sulla lettura commentata dei testi, nella
convinzione che niente sia più importante della conoscenza diretta del testo in quanto tale nel quale
entrare, da smontare, sviscerare.
Per questo il corso s’intitola “La littérature par le théâtre”: perché noi non facciamo un corso di
teatro né di storia del teatro, o meglio solo tangenzialmente ci occuperemo di aspetti relativi al
teatro in quanto tale, bensì si tratta di un corso di letteratura. MA di letteratura PAR le théâtre,
ovvero attraverso il teatro. Studieremo i testi che gli autori hanno scritto. La storia delle messe in
scena, degli spettacoli cui i testi in questione hanno dato luogo sarebbe l’altro punto di vista, quello
che si affronterebbe in un corso di storia del teatro, laddove il testo sarebbe solo una delle
componenti. Come ben sapete, per poco che siate amanti e spettatori di pièces teatrali infatti,
quando andate a vedere uno spettacolo siete consapevoli che il testo è solo una delle componenti:
poi ci sono, altrettanto importanti, le scelte registiche, le interpretazioni degli attori, le luci, le scene,
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gli spazi, i tempi, i costumi ecc ecc ecc Tutto quello che rientra sotto il termine onnicomprensivo di
Drammaturgia.
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PIERRE CORNEILLE
Lettura e commento de L’Illusion comique
I Atto: (prologo)
Esposizione
Luogo
Situazione
Dal punto di vista della struttura: enunciazione del secondo livello di rappresentazione (teatro nel
teatro).
Personaggio del mago: immagine dello scrittore, che opera concretamente attraverso le parole.
Sulla questione delle regole.
La problematica è in quegli anni centrale. Jean Chapelain membro eminente dell’Académie
française per volere di Richelieu, cui egli affidò il piano del Dictionnaire de l’Académie, così come
di redigere le critiche al Cid, a sua volta poeta – rispettosissimo delle regole – autore di un poema
epico dedicato alla Pucelle d’Orléans in 24 canti, Jean Chapelain dunque era in stretto contatto con
i teorici italiani dell’epoca, che elaboravano la dottrina classica scrivendo dei commenti alla Poetica
di Aristotele, e introduceva in Francia le loro teorie.
Corneille era ben al corrente del dibattito in atto, e aveva scritto una commedia intitolata La
Suivante nel 1632-1633 rispettosa delle regole. Ma lo aveva fatto soprattutto per dimostrare che se
voleva sapeva benissimo scrivere nelle regole. Non per questo il suo gusto andava in quella
direzione.
Quando nel 1637 cura la prima edizione della Suivante (anno dunque in cui scrive il Cid),
nell’épître scrive:
“J’aime à suivre les règles, mais loin de me rendre leur esclave, je les élargis et resserre selon le
besoin qu’en a mon sujet et je romps même sans scrupule celle qui regarde la durée de l’action,
quand sa sévérité me semble absolument incompatible avec les beautés des événements que je
décris. Savoir les règles et entendre le secret de les apprivoiser adroitement avec notre théâtre, ce
sont deux sciences bien différentes; et peut-être que pour faire maintenant réussir une pièce, ce n’est
pas assez d’avoir étudié dans les livres d’Aristote et d’Horace”.
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Nell’ Illusion comique, Corneille dà prova di tutta la sua libertà, sarà poi la querelle scatenata dal
Cid a indurlo a essere più prudente.
Grande disinvoltura rispetto all’unità d’azione.
Unità di luogo per niente rispettata: si passa dalla campagna della Touraine alla grotta di Alcandre,
spostamento che comunque determina un cambiamento di scena, e poi a una piazza di Bordeaux,
poi a una prigione e poi a un palazzo.
Unità di tempo interamente sacrificata: l’azione di cui è protagonsita Clindor è un flash back
rispetto al presente in cui agiscono e dialogano Pridamant e Alcandre, e anche all’interno
dell’azione di Clindor passano vari giorni tra un episodio e l’altro (il duello tra lui e Adraste,
spasimante di Isabelle, ad esempio e l’evasione di Adraste dalla prigione, e passano addirittura vari
mesi tra questa evasione e lo spettacolo di cui Clindor e Isabelle sono gli interpreti).
L’Illusion accumula come una sorta di sfida le irregolarità: ma è evidente che per praticare una
trasgressione così metodica e provocatoria, Corneille doveva conoscere benissimo le regole in
questione.
La sua idea è che la dottrina va conosciuta, ma che a partire da quella bisogna evolvere.
Gli argomenti corrispondono a quelli trattati, nel corso del secolo, dalla Querelle des Anciens et
des Modernes.
Condizioni della prima rappresentazione.
Pare certo che L’Illusion comique andò in scena al Théâtre du Marais, uno dei due principali di
Parigi, l’altro essendo l’Hotel de Bourgogne. Anche le sue pièces precedenti le ha fatte
rappresentare lì, e i successi facevano ombra all’altro teatro che era stato creato, e aveva avuto i
privilèges del Re, prima. Quindi il capo comico dell’Hotel de Bourgogne che si chiamava Bellerose
aveva chiesto una ridistribuzione degli attori e aveva ottenuto che fosse il re in persona, Louis XIII,
a operare in tal senso. Questo per farvi capire che politica d’intervento diretto del sovrano vigesse
rispetto alla vita del teatro. La volontà era quella di dominare direttamente. E siccome in base alla
ridistribuzione degli attori al Théâtre du Marais era toccato un attore molto bravo di nome
Bellemore che recitava da virtuoso la parte del capitano vanaglorioso, il Matamoro per l’appunto,
ecco che Corneille scrive l’Illusion comique pensando a lui.
Quanto alle scene – il décor – della prima rappresentazione, gli studiosi Lancaster americano e
Robert Garapon francese sono riusciti a ricostruirlo.
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Ricapitolando il primo atto dal punto di vista dell’azione:
Apprendiamo che da dieci anni Pridamant, borghese di Rennes, non ha nessuna notizia del figlio
Clindor, che se n’è andato dalla casa paterna perché non poteva più sopportare la troppo severa
autorità che il padre faceva pesare su di lui. Malgrado tutti gli sforzi e i molteplici viaggi di ricerca,
e dopo aver consultato stregoni e veggenti, Pridamant, disperato, si è rivolto all’amico Dorante che
gli vanta le qualità del mago Alcandre. Eccoli entrambi, ad apertura di sipario, Dorante e Pridamant
dunque, nella campagna di Touraine, davanti alla grotta del mago (scena I). Il vecchio mago appare
poi e prima ancora che Pridamant si sia spiegato, Alcandre lo informa che sa tutto delle sue
disgrazie e lo rassicura sulla sorte del figlio. Con un colpo di bacchetta magica fa apparire sotto gli
occhi di Pridamant un guardaroba superbo; abiti principeschi che Clindor pare indossare
attualmente. Il padre stupefatto nota che ci sono anche abiti femminili e chiede se il figlio si è
sposato. Il mago gli risponde che non si limiterà a raccontargli gli exploits e gli amori di Clndor, ma
che lo evocherà sotto i suoi occhi tramite “spettri simili a corpi animati”. Dorante, invitato da
Alcandre, si allontata e restano il mago e Pridamant soli (scena II). Il mago dunque fa il racconto
delle prime avventure di Clindor che hanno fatto seguito alla partenza dalla casa paterna. La piccola
somma che aveva rubato al padre era durata ben poco e aveva quindi dovuto ingegnarsi con attività
pittoresche e picaresche e spesso poco onorabili per tirare avanti. Pridamant ringrazia il mago di
aver avuto la delicatezza di allontanare Dorante prima di raccontare tutto ciò. Poi, continua il mago,
Clindor arrivato a Bordeaux aveva trovato lavoro presso un capitano guascone, Matamore, e aveva
fatto innamorare una giovane donna di eccellente famiglia che il suo padrone corteggiava in vano.
Alcandre interrompe a questo punto il racconto per entrare nella grotta a preparare l’incantesimo
necessario a far apparire come promesso le avventure di Clindor in carne e ossa.
Atto II: scena una piazza, tematica amorosa
Atto III: scena il palazzo di Géronte (padre di Isabelle)
Atto IV: prigione (in parte)
Atto V: giardino di un palazzo, poi ritorno alla grotta di Alcandre
Les sources de L’Illusion comique
Le principe du texte est le mélange de tous les genres existants, une sorte de parade du théâtre
contemporain, de habit d’Arlequin dramatique.
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Corneille a été capable de faire tenir ensemble tous ces éléments disparates avec une bonne dose de
virtuosité technique.
La présence d’un magicien comporte la référence à l’univers de la pastorale, genre très à la mode
dans ces années là.
Le magicien est un personnage obligé de la pastorale, et cela depuis les origines italiennes du genre.
Dans l’Astrée, pastorale romanesque d’Honoré d’Urfé (1607-1627, roman-fleuve en 6 parties, 40
histoires, 60 livres, 5 399 pages) employée souvent comme modèle pour les pastorales dramatiques,
il y a le devin Ademas qui joue un rôle centrale au coeur du labyrinthe sylvestre où bergers et
bergères se perdent ou se retrouvent pour se reperdre encore. Comme Alcandre, il joue le rôle du
deus ex machina qui intervient pour reconduire vers le bonheur les personnages égarés. Comme
Alcandre, il apparaît dans un paysage champêtre. Comme lui, il est vieux mais tout de même très
puissant.
En un mot, le personnage d’Alcandre est capable à lui seul d’évoquer le genre de la pastorale.
Genre, je vous rappelle, inventé par les Italiens à la Renaissance, et les français le considèrent un
genre tout-à-fait moderne. Le plus grand théoricien en avait été Gian Battista Guarini, l’auteur du
Pastor Fido (drame pastoral en endécasyllabes et heptasyllabes composé entre le 1583 et le 1587),
qui y voyait une victoire sur la vulgarité de la comédie et sur la tristesse dangereuse de la tragédie.
Pour lui, le spectatuer moderne et chrétien avait besoin d’une forme d’art qui l’aide à surmonter ses
mélancolies, et la pastorale où toutes les mésaventures se terminent heureusement satisfaisait selon
lui ce besoin.
Le magicien qui peut créer des situations tragiques mais aussi les résoudre est donc l’emblème du
théâtre moderne et de cette nouvelle sensibilité ni tout-à-fait comique ni tout-à-fait tragique.
Matamore, lui, vient par contre de l’Antiquité comme origine, c’est le Miles gloriosus de Plaute, à
ses côtés il avait un parasite, un serviteur et un rival en amour. Corneille résume ces trois rôles dans
le seul Clindor. Mais surtout Corneille fait du Matamore un personnage moderne parce qu’il le
reprend de la version qu’en a donnée la commedia dell’arte, très en faveur auprès de la cour de
France. La commedia dell’arte, à qui l’on doit en effet la fortune du capitaine fanfaron dans la
littérature européenne baroque. La compagnie des Gelosi avait comme fanfaron Francesco Andreini
et c’est en raison de son talent dans cette interprétation que la compagnie a eu tellement de succès.
Un autre Matamore très celebre fut Silvio Fiorillo napolitain qui ne vint pas peut-être en France
mais qui y fut largement connu grâce aussi à un livre qu’il écrivit intitulé Le monde conquis par
Silvio Fiorillo dit le Capitaine Matamore, comédien (Milan et Bologne, 1627).
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Si donc Alcandre est l’emblème de la pastorale, Matamore est l’emblème de la comédie.
Quant à la structure du théâtre dans le théâtre, elle était fort à la mode à l’époque. Très grand succès
avait eu La comédie des comédiens de Georges de Scudéry en 1632-33. Le critique français
Georges Forestier a écrit un livre intitulé Le théâtre dans le théâtre sur la scène française au XVII
siècle publié en 1996 chez Droz, Genève. Il y explique que, invention jaillie au cœur de ce qu'on
appelle aujourd'hui "l'âge baroque", le procédé du théâtre dans le théâtre a contribué à donner leur
relief aux chefs-d'œuvre de Shakespeare (Hamlet, La Tempête), de Calderon (Le Grand théâtre du
monde), de Corneille (L'illusion comique) et de Molière (L'impromptu de Versailles, Le Malade
imaginaire). Si la définition en est simple – enchâsser une pièce ou des fragments de pièce dans une
autre –, la technique mise en œuvre est autrement plus complexe que celle de l'ancien jeu
romanesque du récit dans le récit. Le théâtre dans le théâtre est tout à la fois un exercice de
virtuosité littéraire jouant sur les effets de miroir, une entreprise subtile de démontage des rouages
de l'art dramatique, et une mise à distance réflexive de la condition humaine. La matière de
l'examen est fournie à Forestier par une quarantaine de pièces de Rotrou, Corneille, Molière,
Scudéry et quelques contemporains.
Finissons par la tragédie. Pour cet aspect Corneille s’est inspiré d’Alexandre Hardy, le dramaturge
qui avait eu la faveur de la génération précédante. Mais il fait sienne la tragédie en la transformant
en tragi-comédie, là où donc la mort n’est qu’illusion (encore une fois d’accord en cela avec
Guarini et son esprit moderne).
Ce sera l’esprit qui animera tout de suite après la création d’un autre de ses chefs d’oeuvre, le Cid.
Acte II
Duo amoureux Clindor/Isabelle: modernité de Corneille. Isabelle est la femme qui veut s’opposer à
la volonté du père; la femme qui considère que l’honneur est une question de coeur et non de
naissance; la femme pour qui honneur et amour ne sont pas en conflit mais coincident (dans le Cid
toute la question sera là: les célèbres stances du Cid sont les strophes dans lesquelles le Cid se
demande comment faire: s’il doit privilégier l’amour pour Chimène en sacrifiant l’honneur, oubien
s’il doit faire plutôt le contraire, parce que le père de Chimène a offensé son père à lui. S’il devait
venger l’honneur outragé il lui faudrait se mettre contre Chimène, mais s’il renonçait à la vangeance
pour amour, il perdrait l’honneur; il en arrivera à la conclusion qu’il doit à tout prix venger
l’offense, parce que seulement s’il agira ainsi il sera digne de l’amour de Chimène. Voilà ce qu’on
appelle le conflit cornélien, et sa solution qui englobe les deux cornes de la question.
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La faccenda poi si complica: i veri rivali sono quindi Adraste e Clindor, Matamore è rivale solo per
ridere, ma s’inserisce Lyse, la servante d’Isabelle che è innamorata a sua volta di Clindor e ne
determinerà la perdita dato che non è ricambiata.
Fine atto: Pridamant è preoccupato delle minacce di Lyse, ma Alcandre lo tranquillizza.
Acte III
è l’atto in cui gli intrecci di sentimenti portano allo scontro tra Clindor e Adraste. È Adraste a
soccombere, mentre Clindor è ferito a morte. Anche qui Pridamant si terrorizza, ma Alcandre lo
tranquillizza.
Acte IV
Inizia con lungo monologo di Isabelle.
Se l’atto è in sé avventuroso/picaresco, questa tirade iniziale è però sui toni tragici.
Segue il riscatto di Lyse che si è pentita di aver causato la prigione per Clindor e ha sedotto il
géolier il guardiano del carcere perlo far evadere.
Grande monologo di Clindor in prigione.
Le due donne insieme, il géolier e Clindor mettono dunque in atto l’evasione.
Alla fine dell’atto Pridamant si dice rassicurato, ma qui il mago gli dice che altre avventure devono
ancora seguire.
Acte V
Comincia con Pridamant stupefatto perché ciò cui assiste è molto diverso da quanto ha visto fino a
quel momento: gli spettri appaiono in abiti principeschi.
La situazione comporta l’uccisione di Clindor e il tentativo di rapimento di Isabelle: Pridamant è
disperato ma Alcandre gli mostra Clindor e Isabelle e il resto della troupe che si dividono il ricavato
della recita e gli spiega che Clindor e Isabelle sono diventati attori e le scene cui ha assistito
nell’ultimo atto sono quelle di una tragedia da loro interpretata.
Siamo qui al terzo livello di rappresentazione: all’interno dello spettacolo cui assiste Pridamant,
(secondo livello), se ne inserisce uno ulteriore, la recita degli attori.
Corneille ne approfitta in conclusione per fare l’elogio del teatro.
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MOLIÈRE
(ricordate il film di Ariane Mnouchkine, Molière, del 1978)
Il 15 gennaio 1622 venne battezzato nella chiesa di sant'Eustachio a Parigi. Ben presto chiamato
Jean-Baptiste per distinguerlo dal fratello minore Jean, solo in seguito, a ventidue anni, prese lo
pseudonimo di Molière. Suo padre Jean era un tappezziere, un artigiano agiato; la madre, Marie
Cressé, morì quando il figlio aveva solamente dieci anni; i due si erano sposati l'anno prima. In
seguito, nel 1633, il padre si sposò con Catherine Fleurette, la quale morì nel 1636. L'infanzia del
piccolo fu segnata da lutti ed inquietudini, che però spiegano solo in parte il fondo di tristezza del
suo umore e la rarità dei ruoli materni nel suo teatro. Nella fanciullezza furono, invece,
fondamentali la vivacità popolare, l'animazione, il rumore, l'accanito lavoro oltre agli spettacoli con
i quali da piccolo fu ogni giorno a contatto grazie alla passione che gli fu data dal nonno materno
Louis Cressé, che spesso lo portava all'Hotel de Bourgogne e al Pont Neuf, dove si poteva assistere
alle rappresentazioni dei comici italiani e alle tragedie dei comédiens.
Nel quartiere delle Halles, dove visse, il vivace spirito di Poquelin poté impregnarsi del senso di
una vita formicolante, dello scherzo pittoresco e della varietà della realtà umana. Il padre gli
permise scuole molto più prestigiose di quelle destinate ai figli degli altri commercianti, infatti
compì i suoi studi dal 1635 al 1639 al Collège de Clermont, collegio di gesuiti, considerato il
migliore della capitale e frequentato da nobili e ricchi borghesi. Qui egli imparò la filosofia
scolastica, in lingua latina che gli fece acquisire una perfetta padronanza della retorica.
Nel 1637 prestò giuramento come futuro erede della carica di tappezziere del re, carica ricoperta dal
padre.
Nel 1641 porta a termine gli studi di diritto, ottenendo la licenza ad Orléans. Comincia a
frequentare gli ambienti teatrali, conosce il famoso Scaramuccia Tiberio Fiorilli e intrattiene una
relazione con la ventiduenne Madeleine Béjart, giovane attrice rossa di capelli, già madre di un
bambino avuto dalla precedente relazione con il Barone di Modène Esprit de Raymond de
Mormoiron. Con l'aiuto di tale donna colta e capace di condurre con intelligenza i propri affari,
leale e devota, organizzò una loro compagnia che servì a Molière per capire la propria vocazione di
attore. Il 6 gennaio del 1643 Molière rinuncia alla carica di tappezziere reale. Il mese successivo
Madeleine dà alla luce Armande Béjart, futura sposa del drammaturgo (figlia non di Molière,
verosimilmente, ma a lungo si è dibattuto sull’argomento e spesso, per evitare equivoci, veniva
detto che Armande era non già la figlia di Madeleine bensì sua sorella minore). Il 30 giugno 1643,
Molière firmò il contratto che costituì una troupe teatrale di dieci membri, l'Illustre Théâtre, di cui
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facevano parte Madeleine Béjart (in qualità di prima attrice), il fratello Joseph e la sorella
Geneviève.
La piccola compagnia prese in affitto il Jeu de Paume des Métayers ("sala dei mezzadri") di Parigi,
e nell'attesa della conclusione del lavori per adattare la sala alle rappresentazioni teatrali si stabilì a
Rouen, inscenando spettacoli di ogni tipo, dalle tragedie alle farse. Il 1º gennaio del 1644 l'Illustre
Théatre debuttò nella capitale. Il pubblico tuttavia non rispose a dovere; iniziarono ad accumularsi
debiti sino all'arresto di Molière per insolvenza, quindi la compagnia nel 1645 si sciolse. Una volta
liberato per l'interessamento del padre e di Madeleine, lui ed alcuni membri della compagnia
abbandonarono la capitale francese.
Dal 1645 al 1658 con i suoi compagni lavorò come attore ambulante con la compagnia di Charles
Dufresne, rinomata e finanziata dal duca di Epernon, governatore della Guienna. Nel 1650 Molière
ottenne la direzione della troupe che iniziò a fare le sue rappresentazioni nel sud della Francia.
A partire dal 1652 la compagnia, ormai ben affermata, iniziò ad avere un pubblico regolare a Lione.
Durante questo girovagare conobbe bene l'ambiente della provincia, ma soprattutto imparò a fare
l'attore ed a capire i gusti del pubblico e le sue reazioni. In questo periodo iniziò a scrivere alcune
farse e due commedie, ossia L'Etourdi, commedia di intrigo, rappresentata a Lione nel 1655 e Le
dépit amoureux, opera non eccezionale, rappresentata a Narbona nel 1656.
Nel 1658 tornò a Parigi dopo un soggiorno a Rouen con la sua compagnia, la Troupe de Monsieur,
nome accordatole da Filippo d'Orléans.
Il 24 ottobre di quell'anno recitarono davanti al re Luigi XIV, il quale si entusiasmò solo con la
farsa Le Docteur amoureux, scritta da Molière (il testo fu ritrovato e pubblicato nel 1960). La
compagnia venne autorizzata ad occupare, alternandosi con la troupe degli Italiens, il teatro del
Petit-Bourbon, e quando nel 1659 gli Italiens se ne andarono, lo stesso teatro fu a sua completa
disposizione. Iniziò così a mettere in scena delle tragedie ma con scarso successo.
Scrisse anche un'opera che non fera né una tragedia né una commedia, il Don Garcia de Navarre,
incentrata sul tema della gelosia, ma fu un fiasco. Molière allora capì che la commedia era la sua
aspirazione ed in questo genere eccelse già con la prima opera Les précieuses ridicules, nel 1659. In
questa farsa mise in luce gli effetti comici di una precisa realtà contemporanea, le bizzarrie tipiche
della vita mondana e ne ridicolizzò le espressioni ed il linguaggio. Tutto ciò provocò l'interruzione
delle rappresentazioni per qualche giorno, ma gli inviti a corte e nelle case dei grandi signori si
susseguirono ugualmente.
Nel 1660 vi fu il gran successo di Sganarelle le cocu imaginaire, e fu il comico d'intrigo
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l'argomento principale, con il qui pro quo che regnava in un ambiente dove ognuno si preoccupava
solo ed esclusivamente della propria situazione. Nel frattempo venne demolito il salone del PetitBourbon, ma il re fece prontamente assegnare alla compagnia la sala del Palais-Royal, ed in giugno
vi fu la presentazione de L’École des maris. In questa commedia, attraverso le buffonerie, vennero
ancora presentati problemi gravi e scottanti come l'educazione dei figli e la libertà da concedere alle
mogli.
In onore ad una festa offerta a Luigi XIV, in quindici giorni Molière scrisse e mise in scena la
commedia Les Fâcheux. Il 20 febbraio 1662, sposò Armande Béjart apparentemente sorella, ma
quasi sicuramente figlia, di Madeleine, ed anch'essa entrò a far parte della compagnia (dall'unione
nacquero tre figli, due maschi e una femmina, l'unica che sopravvisse al padre). In dicembre, venne
rappresentata L’École des femmes che superò in successo ed in valore tutte le commedie precedenti.
L'opera portò tuttavia allo scontro con i rigoristi cristiani e, nel 1663, egli fu interamente occupato
dalla querelle de L’École des femmes, parallelamente al suo successo. Il 12 maggio del 1664 ci fu la
prima rappresentazione del Tartuffe ou l’Imposteur.
Il 1665 è l’anno del Don Juan.
Il 1666 quello de Le Misanthrope.
Tra il 1667 e 1668, ispirandosi alla commedia in prosa di Tito Maccio Plauto, Aulularia, e
prendendo spunti anche da altre commedie (I suppositi dell'Ariosto; L'Avare dupé di Chappuzeau,
del 1663; La Belle plaideuse di Boisrobert, del 1654; La Mère coquette di Donneau de Vizé, del
1666) scrive L'Avare che viene rappresentato per la prima volta a Parigi, al Palais-Royal, il 9
settembre 1668 dalla "Troupe de Monsieur, frère unique du Roi" che è la compagnia di Molière
stesso, il quale in quell'occasione recita la parte di Harpagon. Nel 1673, anno della morte del
drammaturgo, la sua compagnia l'Illustre Theatre assorbe i resti di quella del Teatro di Marais e nel
1680, a sette anni dalla morte di Molière, il re, con un ordine speciale, sancisce la fusione con
l'Hotel de Bougogne, dando vita all'inizio della Comédie Française, con casa all'Hotel Guénégaud.
Molière morì il 17 febbraio 1673 di tubercolosi mentre recitava Le malade imaginaire. Prima di
morire aveva recitato a fatica, coprì la tosse – si dice – con una risata forzata, e morì durante la
notte tra le braccia di due suore che lo avevano accompagnato a casa. Da qui nasce la superstizione
di non indossare, in Francia, il verde in scena, in quanto egli indossava un abito di quel colore. In
Italia la superstizione si basa, invece, sul colore viola, poiché durante i quaranta giorni quaresimali,
nel Medioevo venivano vietati tutti i tipi di rappresentazioni teatrali e di spettacoli pubblici che si
tenevano per le vie o le piazze delle città. Questo comportava per gli attori e per tutti coloro che
vivevano di solo teatro notevoli disagi economici. Non potendo lavorare, infatti, le compagnie
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teatrali non avevano guadagni e di conseguenza anche procurarsi il pane quotidiano era un’ardua
impresa.
Il divieto di inumazione cattolica per gli attori e i commedianti che vigeva all'epoca fu aggirato, su
intercessione del Re presso l'Arcivescovo, con la sepoltura di Molière nel cimitero di SaintEustache, ma ad una profondità di più di quattro piedi, misura che fissava l'estensione in profondità
della terra consacrata. Oggi la tomba di Molière si trova nel famoso cimitero parigino del PèreLachaise, proprio accanto a quella di Jean de La Fontaine.
L'Accademia di Francia non accettò mai mentre era in vita, Molière tra gli immortels, perché il
commediante, ancora definito guitto, era considerato culturalmente inferiore. Riparò in seguito
dedicandogli nel 1774 una statua con l'iscrizione Rien ne manque à sa gloire, il manquait à la
nôtre.
Le tre versioni del Tartuffe
Nel 1664, al diffondersi della notizia che Molière si sarebbe fatto beffe dei “dévots” nella sua
nuova pièce, la Compagnie du Saint Sacrément (società cattolica fondata nel 1630, anche detta il
partito dei devoti, nata dallo spirito riformatario del Concilio di Trento) si diedero da fare per
cercare di farla censurare.
Il 12 maggio davanti al re a Versailles nell’ultimo giorno dei grandi festeggiamenti intitolati Les
plaisirs de l’île enchantée, Molière rappresentò il suo Tartuffe che non era ancora finito. Dopo
quella rappresentazione la pièce fu vietata e non andò in scena né venne pubblicata. Di quella
versione quindi non si conosce praticamente niente. L’unica testimonianza è nei diari di La Grange,
attore della compagnia, che dice che si trattava dei primi tre atti della commedia. Il 4 agosto
Molière la lesse a Fontainebleau davanti all’ambasciatore del papa, Chigi, che l’approvò. Ma gli
attacchi della Compagnie du Saint Sacrément furono così forti che, benché il Re stesso fosse
favorevole alla pièce, Molière dovette rivederla per poterla mandare in scena.
Lo fece nel 1667, il cinque agosto, al Palais-Royal. La nuova versione si intitolava Panulfe ou
l’imposteur. Il re aveva dato l’autorizzazione prima di partire per le Fiandre. Molière aveva un po’
addomesticato la pièce che ottenne un gran successo, ottimi incassi, ma all’indomani il primo
presidente del Parlamento, Lamoignon, responsabile della polizia (ordine pubblico) in assenza del
re, proibì che le rappresentazioni continuassero, sia pure con toni moderati, portando come
motivazione il fatto che a suo parere non stava agli uomini di teatro tenere lezioni sulla morale
cristiana e sulla religione. Non è a teatro, scrisse, che si predica il Vangelo. E pochi giorni dopo
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anche l’arcivescovo di Parigi la proibì, chiunque l’avesse fatta rappresentare in pubblico o anche
solo in privato sarebbe stato punito con la scomunica.
Anche di questa seconda versione non abbiamo tracce, sappiamo che Molière molto abbattuto tenne
chiuso il teatro da inizio agosto a fine settembre. Ma nonostante il divieto dell’arcivescovo, almeno
due rappresentazioni private davanti a membri della corte vennero fatte.
Il 5 febbraio 1669 poi Molière ottenne finalmente dal re l’autorizzazione a rappresentare la pièce,
che aveva recuperato il titolo originario. Il re aveva chiesto a un teologo della Sorbona il suo parere
rispetto all’ordinanza dell’arcivescovo, e il teologo aveva dato una risposta che gli lasciava margine
d’azione. Il successo fu trionfale. 55 rappresentazioni quell’anno di cui 28 consecutive. Una prima
edizione con préface venne fatta nel marzo del 1669, nel giugno ne venne fatta una seconda. Di
tutte le pièce le teatro classico, Tartuffe è quella che è stata più rappresentata.
Préface du Tartuffe
Voici une comédie dont on a fait beaucoup de bruit, qui a été longtemps persécutée, et les gens
qu'elle joue ont bien fait voir qu'ils étaient plus puissants en France que tous ceux que j'ai joués
jusques ici. Les marquis, les précieuses, les cocus et les médecins, ont souffert doucement qu'on les
ait représentés, et ils ont fait semblant de se divertir, avec tout le monde, des peintures que l'on a
faites d'eux ; mais les hypocrites n'ont point entendu raillerie ; ils se sont effarouchés d'abord, et ont
trouvé étrange que j'eusse la hardiesse de jouer leurs grimaces et de vouloir décrier un métier dont
tant d'honnêtes gens se mêlent. C'est un crime qu'ils ne sauraient me pardonner ; et ils se sont tous
armés contre ma comédie avec une fureur épouvantable. Ils n'ont eu garde de l'attaquer par le côté
qui les a blessés : ils sont trop politiques pour cela, et savent trop bien vivre pour découvrir le fond
de leur âme. Suivant leur louable coutume, ils ont couvert leurs intérêts de la cause de Dieu ; et le
Tartuffe, dans leur bouche, est une pièce qui offense la piété. Elle est, d'un bout à l'autre, pleine
d'abominations, et l'on n'y trouve rien qui ne mérite le feu. Toutes les syllabes en sont impies ; les
gestes mêmes y sont criminels ; et le moindre coup d'oeil, le moindre branlement de tête, le moindre
pas à droite ou à gauche, y cachent des mystères qu'ils trouvent moyen d'expliquer à mon
désavantage.
J'ai eu beau la soumettre aux lumières de mes amis, et à la censure de tout le
monde, les corrections que j'y ai pu faire, le jugement du roi et de la reine, qui l'ont vue,
l'approbation des grands princes et de messieurs les ministres, qui l'ont honorée publiquement de
leur présence, le témoignage des gens de bien, qui l'ont trouvée profitable, tout cela n'a de rien
servi. Ils n'en veulent point démordre ; et, tous les jours encore, ils font crier en public des zélés
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indiscrets, qui me disent des injures pieusement, et me damnent par charité. Je me soucierais fort
peu de tout ce qu'ils peuvent dire, n'était l'artifice qu'ils ont de me faire des ennemis que je respecte,
et de jeter dans leur parti de véritables gens de bien, dont ils préviennent la bonne foi, et qui, par la
chaleur qu'ils ont pour les intérêts du ciel, sont faciles à recevoir les impressions qu'on veut leur
donner. Voilà ce qui m'oblige à me défendre. C'est aux vrais dévots que je veux partout me
justifier sur la conduite de ma comédie ; et je les conjure, de tout mon coeur, de ne point
condamner les choses avant que de les voir, de se défaire de toute prévention, et de ne point servir
la passion de ceux dont les grimaces les déshonorent. Si l'on prend la peine d'examiner de bonne foi
ma comédie, on verra sans doute que mes intentions y sont partout innocentes, et qu'elle ne tend
nullement à jouer les choses que l'on doit révérer ; que je l'ai traitée avec toutes les précautions que
demandait la délicatesse de la matière et que j'ai mis tout l'art et tous les soins qu'il m'a été possible
pour bien distinguer le personnage de l'hypocrite d'avec celui du vrai dévot. J'ai employé pour cela
deux actes entiers à préparer la venue de mon scélérat. Il ne tient pas un seul moment l'auditeur en
balance ; on le connaît d'abord aux marques que je lui donne ; et, d'un bout à l'autre, il ne dit pas un
mot, il ne fait pas une action, qui ne peigne aux spectateurs le caractère d'un méchant homme, et ne
fasse éclater celui du véritable homme de bien que je lui oppose.
Je sais bien que, pour réponse,
ces messieurs tâchent d'insinuer que ce n'est point au théâtre à parler de ces matières ; mais je leur
demande, avec leur permission, sur quoi ils fondent cette belle maxime. C'est une proposition qu'ils
ne font que supposer, et qu'ils ne prouvent en aucune façon ; et, sans doute, il ne serait pas difficile
de leur faire voir que la comédie, chez les anciens, a pris son origine de la religion, et faisait partie
de leurs mystères ; que les Espagnols, nos voisins, ne célèbrent guère de fêtes où la comédie ne soit
mêlée, et que même, parmi nous, elle doit sa naissance aux soins d'une confrérie à qui appartient
encore aujourd'hui l'hôtel de Bourgogne ; que c'est un lieu qui fut donné pour y représenter les plus
importants mystères de notre foi ; qu'on en voit encore des comédies imprimées en lettres
gothiques, sous le nom d'un docteur de Sorbonne et, sans aller chercher si loin que l'on a joué, de
notre temps, des pièces saintes de M. de Corneille, qui ont été l'admiration de toute la France (ex
Polyeucte 1644 o L’Imitation de Jesus-Christ, 1656). Si l'emploi de la comédie est de corriger les
vices des hommes, je ne vois pas par quelle raison il y en aura de privilégiés. Celui-ci est, dans
l'Etat, d'une conséquence bien plus dangereuse que tous les autres ; et nous avons vu que le théâtre a
une grande vertu pour la correction. Les plus beaux traits d'une sérieuse morale sont moins
puissants, le plus souvent, que ceux de la satire ; et rien ne reprend mieux la plupart des hommes
que la peinture de leurs défauts. C'est une grande atteinte aux vices, que de les exposer à la risée de
tout le monde. On souffre aisément des répréhensions ; mais on ne souffre point la raillerie. On veut
bien être méchant ; mais on ne veut point être ridicule.
On me reproche d'avoir mis des termes
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de piété dans la bouche de mon imposteur. Eh ! pouvais-je m'en empêcher, pour bien représenter le
caractère d'un hypocrite ? Il suffit, ce me semble, que je fasse connaître les motifs criminels qui lui
font dire les choses, et que j'en aie retranché les termes consacrés, dont on aurait eu peine à lui
entendre faire un mauvais usage. - Mais il débite au quatrième acte une morale pernicieuse. - Mais
cette morale est-elle quelque chose dont tout le monde n'eût les oreilles rebattues ? Dit-elle rien
de
nouveau dans ma comédie ? Et peut-on craindre que des choses si généralement détestées
fassent quelque impression dans les esprits ; que je les rende dangereuses en les faisant monter sur
le théâtre ; qu'elles reçoivent quelque autorité de la bouche d'un scélérat ? Il n'y a nulle apparence à
cela ; et l'on doit approuver la comédie du Tartuffe, ou condamner généralement toutes les
comédies. C'est à quoi l'on s'attache furieusement depuis un temps ; et jamais on ne s'était si fort
déchaîné contre le théâtre. Je ne puis pas nier qu'il n'y ait eu des Pères de l'Eglise qui ont condamné
la comédie ; mais on ne peut pas me nier aussi qu'il n'y en ait eu quelques-uns qui l'ont traitée un
peu plus doucement. Ainsi l'autorité dont on prétend appuyer la censure est détruite par ce partage :
et toute la conséquence qu'on peut tirer de cette diversité d'opinions en des esprits éclairés des
mêmes lumières, c'est qu'ils ont pris la comédie différemment, et que les uns l'ont considérée dans
sa pureté, lorsque les autres l'ont regardée dans sa corruption, et confondue avec tous ces vilains
spectacles qu'on a eu raison de nommer des spectacles de
turpitude.
Et, en effet, puisqu'on doit
discourir des choses et non pas des mots, et que la plupart des contrariétés viennent de ne pas
entendre et d'envelopper dans un même mot des choses opposées, il ne faut qu'ôter le voile de
l'équivoque, et regarder ce qu'est la comédie en soi, pour voir si elle est condamnable. On
connaîtra, sans doute, que, n'étant autre chose qu'un poème ingénieux, qui, par des leçons agréables,
reprend les défauts des hommes, on ne saurait la censurer sans injustice ; et, si nous voulons ouïr làdessus le témoignage de l'antiquité, elle nous dira que ses plus célèbres philosophes ont donné des
louanges à la comédie, eux qui faisaient profession d'une sagesse si austère, et qui criaient sans
cesse après les vices de leur siècle. Elle nous fera voir qu'Aristote a consacré des veilles au théâtre,
et s'est donné le soin de réduire en préceptes l'art de faire des comédies. Elle nous apprendra que ses
plus grands hommes, et des premiers en dignité, on fait gloire d'en composer eux-mêmes, qu'il y en
a eu d'autres qui n'ont pas dédaigné de réciter en public celles qu'il avaient composées ; que la
Grèce a fait pour cet art éclater son estime par les prix glorieux et par les superbes théâtres dont elle
a voulu l'honorer ; et que, dans Rome enfin, ce même art a reçu aussi des honneurs extraordinaires :
je ne dis pas dans Rome débauchée, et sous la licence des empereurs, mais dans Rome disciplinée,
sous la sagesse des consuls, et dans le temps de la vigueur de la vertu romaine. J'avoue qu'il y a eu
des temps où la comédie s'est corrompue. Et qu'est-ce que dans le monde on ne corrompt point tous
les jours ? Il n'y a chose si innocente où les hommes ne puissent porter du crime ; point d'art si
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salutaire dont ils ne soient capables de renverser les intentions ; rien de si bon en soi qu'ils ne
puissent tourner à de mauvais usages. La médecine est un art profitable, et chacun la révère comme
une des plus excellentes choses que nous ayons ; et cependant il y a eu des temps où elle s'est
rendue odieuse, et souvent on en a fait un art d'empoisonner les hommes. La philosophie est un
présent du ciel ; elle nous a été donnée pour porter nos esprits à la connaissance d'un Dieu par la
contemplation des merveilles de la nature ; et pourtant on n'ignore pas que souvent on l'a détournée
de son emploi, et qu'on l'a occupée publiquement à soutenir l'impiété. Les choses mêmes les plus
saintes ne sont point à couvert de la corruption des hommes ; et nous voyons des scélérats qui, tous
les jours, abusent de la piété et la font servir méchamment aux crimes les plus grands. Mais on ne
laisse pas pour cela de faire les distinctions qu'il est besoin de faire. On n'enveloppe point dans une
fausse conséquence la bonté des choses que l'on corrompt, avec la malice des corrupteurs. On
sépare toujours le mauvais usage d'avec l'intention de l'art ; et comme on ne s'avise point de
défendre la médecine pour avoir été bannie de Rome, ni la philosophie pour avoir été condamnée
publiquement dans Athènes, on ne doit point aussi vouloir interdire la comédie pour avoir été
censurée en de certains temps. Cette censure a eu ses raisons, qui ne subsistent point ici. Elle s'est
renfermée dans ce qu'elle a pu voir ; et nous ne devons point la tirer des bornes qu'elle s'est
données, l'étendre plus loin qu'il ne faut, et lui faire embrasser l'innocent avec le coupable. La
comédie qu'elle a eu dessein d'attaquer n'est point du tout la comédie que nous voulons
défendre. Il se faut bien garder de confondre celle-là avec celle-ci. Ce sont deux personnes de qui
les moeurs sont tout à fait opposées. Elles n'ont aucun rapport l'une avec l'autre que la ressemblance
du nom ; et ce serait une injustice épouvantable que de vouloir condamner Olympe, qui est femme
de bien, parce qu'il y a une Olympe qui a été une débauchée. De semblables arrêts, sans doute,
feraient un grand désordre dans le monde. Il n'y aurait rien par là qui ne fût condamné ; et, puisque
l'on ne garde point cette rigueur à tant de choses dont on abuse tous les jours, on doit bien faire la
même grâce à la comédie, et approuver les pièces de théâtre où l'on verra régner l'instruction et
l'honnêteté.
Je sais qu'il y a des esprits dont la délicatesse ne peut souffrir aucune comédie ; qui
disent que les plus honnêtes sont les plus dangereuses ; que les passions que l'on y dépeint sont
d'autant plus touchantes qu'elles sont pleines de vertu, et que les âmes sont attendries par ces sortes
de représentations. Je ne vois pas quel grand crime c'est que de s'attendrir à la vue d'une passion
honnête ; et c'est un haut étage de vertu que cette pleine insensibilité où ils veulent faire monter
notre âme. Je doute qu'une si grande perfection soit dans les forces de la nature humaine ; et je ne
sais s'il n'est pas mieux de travailler à rectifier et adoucir les passions des hommes que de vouloir
les retrancher entièrement. J'avoue qu'il y a des lieux qu'il vaut mieux fréquenter que le théâtre ; et,
si l'on veut blâmer toutes les choses qui ne regardent pas directement Dieu et notre salut, il est
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certain que la comédie en doit être, et je ne trouve point mauvais qu'elle soit condamnée avec le
reste ; mais, supposé, comme il est vrai, que les exercices de la piété souffrent des intervalles et
que les hommes aient besoin de divertissement, je soutiens qu'on ne leur en peut trouver un
qui soit plus innocent que la comédie. Je me suis étendu trop loin. Finissons par un mot d'un
grand prince sur la comédie du Tartuffe.
Huit jours après qu'elle eut été défendue, on représenta
devant la cour une pièce intitulée Scaramouche ermite ; et le roi, en sortant, dit au grand prince que
je veux dire. "Je voudrais bien savoir pourquoi les gens qui se scandalisent si fort de la comédie de
Molière ne disent mot de celle de Scaramouche" ; à quoi le prince répondit : "La raison de cela,
c'est que la comédie de Scaramouche joue le ciel et la religion, dont ces messieurs-là ne se soucient
point ; mais celle de Molière les joue eux-mêmes ; c'est ce qu'ils ne peuvent souffrir".
Lettura e commento atti I e II
atto I
presentazione dei personaggi, tutti in scena tranne Orgon, il padre padron di casa, Valère
l’innamorato della figlia di Orgon, e Tartuffe
divisi in due gruppi in base a come percepiscono Tartuffe:
- tutti quelli che vedono la realtà (presentati come i personaggi simpatici)
- i pochi che sono accecati dalle apparenze (qui la madre di Orgon Madame Pernelle, poi si vedrà
anche e più di lei lo stesso Orgon, presentati lei come odiosa, lui come accecato momentaneamente
dalle apparenze che perlatro ingannano solo lui e sua madre )
tipi della commedia dell’arte:
– l’anziana madre cocciuta e corta di ragionamento (Mme Pernelle)
– la servetta intelligente, dotata di senso pratico e molto impertinente (Dorine)
– la figlia timida innamorata ma priva di carattere e che non sa opporsi al volere del padre
(Mariane)
– il suo fidanzato impacciato come ogni giovane innamorato (Valère)
– il figlio pieno di foga e di buoni principi ma da solo incapace di ottenere alcunché (Damis)
– la giovane sposa del protagonista bella, capace, una su cui si può fare affidamento (Elmire)
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– il fratello di lei, il cognato del capofamiglia, l’intellettuale del gruppo, filosofo, quello che sa
ragionare (Cléante)
– l’antagonista, qui Tartuffe, ipocrita
atto II
viene messa in piedi tutta la faccenda classica del matrimonio imposto, l’opposizione padre/figlia,
in mezzo a loro Dorine, che modera lui e provoca lei, e poi il débat amoureux tra fidanzata e
fidanzato che nella situazione non sono capaci di fare altro che litigare, e dove di nuovo deve
inserirsi Dorine a mediare e a proporre delle soluzioni per evitare il peggio.
Lettura e commento atto III Tartuffe
Quelques mots, avant de commencer, au sujet du libertinage érudit dont le personnage de Cléante
est un représentant. Disons que, à l’intérieur de cette pièce, il incarne l’opposition intellectuelle à
l’esprit conservateur et fermé de la Compagnie du Sainr-Sacrément. Mais plus en général on parle
de libertinage érudit pour indiquer ce courant de pensée qui se refait à la philosophie sceptique de
l’Antiquité et qui constitue le trait d’union entre l’esprit humaniste du XVIe siècle et l’Illuminisme
du XVIIe.
Le terme libertin peut avoir plusieurs significations:
– quelqu’un qui se conduit de façon dépravée;
– quelqu’un d’athée;
– quelqu’un qui n’est pas contre la religion et qui peut croire en Dieu mais qui exerce le doute
méthodique et qui en décide par le raisonnement.
Le premier sens est celui qui est resté dans le langage courant; le deuxième au XVIIe siècle est
représenté par des libres penseurs comme Cyrano de Bergerac, athée, matérialiste, atomiste; le
troisième est le courant philosophique sérieux, qui a son représentant principal au XVIIe siècle dans
la personne de Pierre Gassendi, et ici dans le Tartuffe prend la parole à travers le personnage de
Cléante.
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Il faut se poser la question de savoir si Molière a adhéré au libertinage érudit. La réponse doit être
nuancée: même si Molière n’a pas pris position directe et officielle (il ne pouvait pas s’il voulait
continuer à travailler et avoir la protection du roi), les idées libertines sont présentes diffusément
dans son oeuvre, principalement dans le Tartuffe et encore plus dans le Don Juan, qui est un
prototype de libertin, mais aussi dans l’Ecole des femmes et ailleurs. Ce n’est pas donc arbitraire de
dire qu’à travers certains personnages Molière donne voix à ce courant de pensée dont il partage les
principes.
Lettura e commento quarto e quinto atto Tartuffe
Spiegazione casuistica: una branca della teologia morale che esamina i casi di coscienza, in quelle
circostanze in cui si è in dubbio tra ciò che ci dice la nostra coscienza e ciò che vorrebbe la morale
religiosa
I gesuiti furono spesso accusati dai loro oppositori di avere una morale molto modulabile (assai
poco ferma) in base appunto alle circostanze e venivano quindi accusati, in senso spregiativo, di
essere dei casuisti.
Termine quindi usato in particolare dai giansenisti, massimo rappresentante filosofico dei quali è
Pascal, per criticare il lassismo dei gesuiti, capaci di far quadrare la morale con le esigenze
specifiche, i giochi di potere e simili.
È nelle Provinciales in particolare che Pascal tratta l’argomento.
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MARIVAUX
Quelques éléments biographiques
Pierre Carlet de Marivaux nasce a Parigi il 4 febbraio 1688. Padre funzionario del re, nella
Marina. Studi di diritto presto lasciati. Comincia a scrivere nel 1712, ventiquattrenne. La prima
pièce viene pubblicata a Parigi quell’anno, Le père prudent et équitable. Ma lo stesso anno scrive
anche due romanzi, Les effets surprenants de la sympathie e Pharsamon ou les nouvelles folies
romanesques.
Nel 1713-14 comincia la stesura del Télémaque travesti roman parodique che verrà pubblicato solo
nel 1736. Nel 1716, pubblicazione de l’Homère travesti ou l’Iliade en vers burlesques. Questa è
l’altra vena di Marivaux, la terza che va aggiunta a quella teatrale e a quella romanzesca. Scrittore
completo e versatile.
Nel 1717 si sposa con Colombe Bologne, donna ricca più grande di lui (cinque anni di più). Le
Nouveau Mercure de France pubblica le sue Lettres sur les habitants de Paris.
Nel 1720 il Théâtre Italien (Hotel de Bourgogne) mette in scena L’Amour et la Vérité, commedia in
tre atti che riporta un buon successo. Così come l’Arlequin poli par l’amour, commedia in un atto.
Nel frattempo però c’è la celebre bancarotta di John Law che annienta la dote della moglie. Era un
economista e finanziere scozzese stabilitosi in Francia che durante la Reggenza di Filippo II
d’Orléans (nella fase della minore età di Luigi XV, nipote di Luigi XIV) mise in atto un sistema
finanziario tra il 1716 e il 1720 appunto basato sull’uso delle banconote e delle azioni a scapito
della montea metallica, finito in un clamoroso fallimento.
Nel 1721, Marivaux crea Le Spectateur français, primo dei giornali da lui creati, poi ci sarà
L’Indigent philosophe e Le cabinet du Philosophe, di cui si serve per esprimere le sue idee.
Nel 1723 La double Inconstance, commedia in tre atti, pièce che lo rende famoso.
Quell’anno muore la moglie.
1724 Le Prince travesti, prima pièce scritta dopo la morte della moglie.
1725 L’Ile des Esclaves, successo clamoroso.
1726 inizia a scrivere il romanzo intitolato La Vie de Mariane
1730 altra pièce celeberrima, Le Jeu de l’Amour et du Hasard, commedia in tre atti
1732 Le Triomphe de l’Amour. Grande successo di pubblico. Voltaire però lo attacca, le sue
concezioni drammaturgiche sono molto diverse.
1734 seconda parte della Vie de Mariane e della prima del Paysan parvenu.
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L’anno successivo, 1735, ultima parte del Paysan e terza parte della Vie de Mariane, la quarta, la
quinta e la sesta usciranno nel 1736, la settima e l’ottava nel 1737.
Nel 1737 anche Les Fausses Confidences.
Nel 1739 muore Thomassin, l’Arlecchino di tutte le sue pièces, grosso colpo per Marivaux.
Nel 1742 viene eletto membro dell’Académie française (prima di Voltaire) di cui sarà molto
assiduo e dove presenterà discorsi di ordine filosofico e morale. Nonostante la tematica
apparentemente molto incentrata sull’amore, Marivaux va infatti considerato uno dei moralisti della
letteratura francese (come La Bruyère o La Rochefoucauld).
La figlia, Colombe-Prospère, entra in convento dove morirà quarant’anni dopo.
Scriverà ancora testi per il teatro tra cui un dialogo politico pubblicato dal Mercure nel 1754,
L’Education d’un Prince. E morirà nel 1763, ormai malato da parecchi anni. Ne aveva comunque
75, per l’epoca una rispettabilissima età.
Le Marivaudage
Le nom de Marivaux a donné naissance au verbe « marivauder » qui signifie échanger des propos
galants et d’une grande finesse, afin de séduire un homme ou une femme. Par extension a été créé le
mot « marivaudage », et ce du vivant même de Marivaux. Ces deux mots se trouvent en 1760 dans
la correspondance entre Denis Diderot et Sophie Volland. Marivauder y a le sens de « disserter sans
fin sur de menus problèmes » et marivaudage désigne une forme raffinée d’analyse morale.
Dès le XVIIIe siècle donc, le mot marivaudage a un double sens : il ne désigne pas seulement le
style de l’écrivain, mais aussi cette forme d’analyse morale et psychologique raffinée à l’excès que
Marivaux met en pratique dans ses romans, dans ses comédies et dans ses essais.
Le mot est de nos jours le plus couramment employé pour désigner une atmosphère enjouée et
spirituelle, des rapports amoureux fondés sur le jeu et la séduction, tels qu’on les trouve dans les
films d’Éric Rohmer, par exemple.
Maschere e apparenza
Altro elemento molto importante, basilare, di questo teatro è l’uso della maschera in un modo molto
diverso da quello dei barocchi. Là si trattava di mettere in evidenza come tutto sia illusorio, non ci
siano certezze, la sola certezza essendo la mancanza di certezze. Qui invece la maschera è usata al
fine di giungere alla verità. Ovvero Marivaux crede fermamente nella necessità che la verità trionfi,
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ma ritiene che per giungere a questo scopo finale e morale, sia necessario passare attraverso la
finzione.
La trama del Prince travesti in questo è esemplare: un principe si traveste da borghese per poter
conoscere il mondo e gli uomini senza che sappiano che lui è principe perché se lo spaessero si
comporterebbero fintamente con lui. Poi la questione si complica perché si innesta su questo tema
quello amoroso, laddove ugualmente solo attraverso la finzione si può giungere alla sincerità del
sentimento.
Le prince travesti
À une époque incertaine, en Espagne, le prince de Léon, qui a pour valet Arlequin, après une
déception amoureuse, est parti parcourir le monde sous le nom de Lélio afin, avant de régner,
d’apprendre à mieux connaître la nature humaine pour pouvoir gouverner, et, éventuellement, de
trouver sa future épouse. S’étant engagé dans l’armée du royaume de Barcelone, il remporte une
victoire décisive contre le roi de Castille. Il devient alors le favori de la princesse régnante qui le
met à la tête du gouvernement, et lui offre son cœur. Il aurait bien aimé lui donner le sien ; mais il
en avait déjà disposé en chemin en faveur d’une jeune dame mariée, Hortense, qu’il avait sauvée
des brigands, près de laquelle il avait passé quelques jours. Quand l’ambassadeur du roi de Castille
vient demander en mariage la princesse, ce qui assurerait la paix, voulant sonder le cœur de Lélio,
elle remet à Arlequin une lettre qu’il devra donner, comme venant de son maître, à Hortense, qui se
trouve être la jeune parente de la princesse et sa confidente. Elle, qui est devenue veuve, reconnaît
en Lélio l’homme qui avait su un an auparavant provoquer en elle (et réciproquement) une
fulgurance amoureuse. Aussi n’en fait-elle pas l’aveu à la princesse, au nom de son amitié pour elle,
mais écrit à Lélio une lettre qu’elle charge Arlequin de lui remettre. Le valet prétend l’avoir égarée
en chemin parce que, s’il est fort dévoué à son maître, lui et sa maîtresse, Lisette, aiment l’argent, et
il s’est laissé corrompre par le vieux ministre Frédéric qui, furieux d’avoir été supplanté, cherche à
perdre Lélio en faisant savoir à la princesse qu’il est amoureux d’Hortense. La lettre revient à la
princesse. D’abord furieuse, car elle est passablement violente et, de plus, souveraine absolue, elle
s’apaise cependant, et fait si bien que, magnanime, elle unit Hortense et Lélio, qui de prince de
Léon est devenu roi d’Aragon. Elle-même se console de ce mariage en épousant le roi de Castille,
qui, lui aussi déguisé, s’était présenté à elle sous le nom de son ambassadeur afin d’étudier son
caractère plus à l’aise.
Le prince travesti, première pièce que Marivaux écrivit après la mort de sa femme, et dans l’état de
besoin où l’avait mis la banqueroute du système financier de John Law, dont les personnages lui
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furent inspirés par son premier contact avec la Cour est à la fois une comédie d’amour, une
comédie d’intrigues politiques, dans une ambiance féerique. C’est une œuvre dense et
angoissée, étonnante d’intelligence, riche de combats dialectiques, de luttes verbales, de joutes
d’esprit où l’échange est plus important que la victoire.
La situation est complexe : la princesse aime Lélio qui aime Hortense et qui en est aimé en retour ;
Lélio porte un double masque et possède un double secret : il ne peut dévoiler son amour pour
Hortense et cache sa véritable identité ; Hortense est à la fois l’amie confidente des amours
contrariés de la princesse et la femme amoureuse de Lélio ; le roi de Castille se fait passer pour son
ambassadeur, et son identité n’est révélée qu’à la fin de la pièce. On a droit à des scènes de
reconnaissance (Lélio / Hortense), des scènes de cape et d’épée (Lélio, «l’illustre aventurier», est
venu au secours des deux femmes), des scènes de roman picaresque (Arlequin et Lisette cherchant
tous les moyens pour extirper le maximum d’argent…), une scène surtout (II, 13), où le rôle
d'Hortense atteint à des accents d'une grande pureté : toute coquetterie, tout amour-propre ont
disparu à un moment où elle tremble pour la vie de l'homme qu'elle aime, scène qui montre ce que
Marivaux aurait pu faire dans le genre tragique. Et il y mêla, avec Arlequin, un peu de bouffonnerie,
sa naïveté venant ici et là apaiser deux situations amoureuses au bord du tragique, un affrontement
implacable entre deux femmes, et une négociation entre maisons royales qui pourrait mener à des
combats de frontières.
Comme la plupart des pièces de Marivaux, celle-ci se soucie peu de réalisme et d'Histoire. Le
spectateur doit accepter de croire à la convention : Espagne imaginaire, «forêt enchantée»,
personnages qui recourent aux déguisements avec une facilité déconcertante, monde d'aristocrates
qui se reconnaissent et se marient entre eux, valet supposément espagnol qui parle et raisonne
comme un paysan français. Alors que son théâtre se déroule habituellement dans des lieux
abstraits qui ne font qu'évoquer de loin une réalité qu'ils n'imitent jamais, il donna ici pour
cadre à I'action Barcelone, mais c’est un royaume sans consistance, un simple support
poétique.
Si Marivaux choisit l’Espagne, ce fut peut-être parce que la France et I'Espagne étaient alors deux
royaumes étroitement liés, leurs souverains étant proches parents : Philippe V, roi d'Espagne, était
le petit-fils de Louis XIV, dont le roi de France (Louis XV) était I'arrière-petit-fils. Louis XIV, fils
d'une infante espagnole, avait d'ailleurs lui-même épousé Marie-Thérèse, fille du roi d'Espagne,
Philippe IV... Ces liens consanguins, prétextes à des guerres de succession entre les deux nations,
eurent des répercussions également sur le plan de I'imaginaire. Après avoir terrorisé I'Europe
pendant le Siècle d'Or, I'Espagne était alors décadente et inoffensive. Mais I'engouement pour ses
lettres et sa culture subsistait, et il existait toujours en France le goût pour un exotisme espagnol
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puisé dans les cycles héroïques, les romans de chevalerie et les récits de découvreurs. Et Marivaux
put avoir voulu imiter la dramaturgie espagnole qui fourmille de tragi-comédies romanesques qui
célèbrent l'amour, abondent en péripéties, et rendent loquace le valet sensuel importé d'Italie.
Cette comédie pourrait être qualifiée de tragi-comédie, car des épisodes tragiques y ont un
dénouement heureux, voire désinvolte. On peut y voir l'une des pièces les plus shakespeariennes
de Marivaux, et la rapprocher de ‘’La nuit des rois’’ : atmosphère de songe flottant au milieu de
nulle part, brillant du dialogue, coups de baguette de I'auteur faisant brusquement verser le rire dans
la gravité. Par son romanesque exacerbé (hautes naissances, princes qui voyagent incognito,
brigands), la pièce s'apparente également au drame romantique qui allait dominer le siècle
suivant (avec, en particulier, Victor Hugo).
On peut aussi voir dans cette seule pièce de Marivaux où, aux intrigues sentimentale, aux
affrontements entre maîtres et valets, se mêlent les enjeux du politique, une tragédie. En effet,
l’espace est tragique : c’est un palais labyrinthique dans lequel Arlequin ne cesse du reste de se
perdre. L’atmosphère en est une d’enfermement, de clôture et de surveillance. Tous les personnages
se sentent observés, épiés, ne cessent de déclarer : «Quelqu’un peut venir», «Nous avions des
témoins», «Peut-être actuellement sommes nous observés l’un et l’autre». Tout y fait peur, tout y
fait signe : les mots, les yeux, le silence.
Cette tragédie est à la fois racinienne et cornélienne.
Elle est racinienne en ce sens que le dilemme que connaissent les personnages principaux est le
même que celui qu’on trouve dans Bajazet de Racine, où la sultane Roxane aime Bajazet qui aime
Atalide et en est aimé en retour, où Bajazet fait donc face à un dilemme : soit il épouse Roxane et
reste en vie, soit il confesse son amour pour Atalide et meurt. La situation est la même dans Le
prince travesti puisque le prince risque sa vie s’il avoue son amour pour Hortense, et refuse
d’épouser la princesse. Hortense joue comme Atalide un rôle de confidente et d’intermédiaire
(l’amitié sincère qu’elle éprouve pour la princesse rend du reste sa situation encore plus
douloureuse : elle doit faire le choix de l’amitié ou de l’amour. On trouve le même univers carcéral,
le même pouvoir tyrannique de la princesse : «Non, ma chère, je vais faire arrêter tous vos
équipages, vous ne vous servirez que des miens, et pour plus de sûreté, à toutes les portes de la ville
vous trouverez des gardes qui ne vous laisseront passer qu’avec moi.» (II, 4).
D’autre part, la pièce est cornélienne parce qu’elle est travaillée par des valeurs héroïques : Lélio a
remporté une bataille et sauvé l’État. Il est courageusement venu au secours d’Hortense attaquée par
des voleurs. Il se fait une haute idée du pouvoir contrairement à l’ambitieux et machiavélique
Frédéric (dont la figure est construite en contrepoint à la figure héroïque) : «Qui est-ce qui
n’aimerait pas à gouverner?» demande-t-il à Lélio qui répond : «Celui qui en serait digne ». Lui et
25
le roi de Castille en cachant leur identité renoncent aux facilités que leur donnerait leur statut royal :
ils doivent ainsi actualiser authentiquement leurs mérites personnels et ressentent du reste l’un pour
l’autre estime et respect : le roi de Castille déclare : «Je dis que je l’estime… Je veux le combattre
généreusement comme il le mérite» (II, 8), La princesse, dans la dernière scène, fait preuve d’une
grandeur cornélienne qui ne parvient pas à faire oublier la bassesse de ses partenaires, notamment
celle de I'intrigant Frédéric, ministre tentant toutefois de se justifier en une longue tirade («J'ai cru
bien servir l'État et Ia princesse en tâchant d'arrêter votre fortune ; […] Vous m'avez cru jaloux de
vous quand je n'étais inquiet que pour le bien public.») que ponctuait la courte réplique désabusée
d'Arlequin : «Il n'y aura donc que moi qui resterai un fripon, faute de savoir faire une harangue.»
(II, 13). Elle pardonne généreusement à Hortense et à Lélio, et accepte d’épouser le roi de Castille
(pour assurer la paix entre leurs deux États ou / et par estime pour lui : «J’ai grande idée d’un
prince qui sait choisir des ministres aussi estimables que vous l’êtes».
Il reste que la pièce est une comédie, son aspect héroïque ou politique étant en partie
neutralisé :
- Par le couple valet-soubrette qui répond symétriquement au couple des maîtres.
- Par l’intrigue sentimentale : Lélio si héroïque dans l’action physique, si généreux dans sa morale
politique, se laisse mener par Hortense dans le domaine amoureux. Il se crispe dans une attitude de
dépit amoureux qui frôle l’aveuglement (I, 5) et mesure mal le dilemme dans lequel elle doit se
débattre. Marivaux peignit le triomphe de l'amour véritable sur les obstacles extérieurs.
- Par le personnage d’Arlequin en qui on peut voir le double burlesque de la princesse, sa
fonction étant, comme pour elle, de décoder les mots, les regards : surveillés par en haut (la
princesse) les personnages le sont aussi par en bas (Arlequin). Étant donné le personnage type qu’il
est, qui appartient à la «commedia dell’arte» (jeu très théâtralisé et très physique, lazzis), ce
décodage se fait de façon burlesque, dans une langue truculente (il aime autant «conter» que
«compter»), mais il n’en demeure pas moins que, naïf par certains aspects, il fait montre de
discernement : en I, 3, «Ce benêt-là se serait-il aperçu de ce que je suis» se demande Lélio, et en II,
10, Arlequin dit à la princesse : «Et voilà que je vous découvre le pot aux roses, peut-être que je ne
vous dis pas les mots mais je vous dis la signification du discours, et le tout gratis…»). Jouet d'un
ministre ambitieux et d'une coquette de profession, il est le seul personnage de cette pièce qui ne
soit pas double (la duplicité des autres, cela dit, peut être sincère et sans malice) ; proche de la
nature, il juge la civilisation avec moins de naïveté que le type traditionnel du valet italien, mais il
n'est pas encore Figaro : il faudra attendre la fin du siècle pour que le valet français soit
définitivement fixé dans son talent pour I'intrigue. Il finit par jouer un rôle dans l’action dramatique
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en cherchant à assouvir sa soif pulsionnelle (d’argent, de nourriture et de femmes.) À II, 10 dans sa
tirade devant la princesse et Frédéric, il rejoue avec jubilation, en sautillant autour d’eux, la scène
qu’il vient de vivre avec Frédéric (numéro de théâtre dans le théâtre dans lequel il endosse
alternativement son rôle et celui de Frédéric) : «Tenez, Madame, voilà comme cela est venu...»
- Par le dénouement heureux, mais légèrement grinçant, rapide, apparemment incomplet (une
accalmie et non une résolution). Dans cette issue incertaine, dans cette faille béante, apparaît toute
la subversion d'un écrivain qui, montrant les aléas de I'existence humaine, ne conclut pas.
Si la pièce est censée se passer en Espagne (ce pourrait être au XIIe siècle au moment de la guerre
entre l’Aragon et la Castille), c’est surtout la France de la Régence qui nous est donnée à voir :
période d’entre-deux où les valeurs de l’ancien régime battaient de l’aile. La pièce fait ainsi
l’étalage de toute une corruption : Frédéric achète Arlequin pour qu’il l’aide à démasquer Lélio,
Lisette vend ses charmes, l’ambassadeur promet une récompense à Lélio s’il accepte de ne pas
épouser la princesse, Hortense, pour sauver Lélio, promet aussi une récompense à Frédéric. Le
comique naît, entre autres causes, de la friction entre l'ordre établi et la revendication d'une nouvelle
donne sociale, l’apparition d’une société nouvelle pas forcément meilleure, où l'argent règne en
maître, dans laquelle les pouvoirs sont contestés. ‘’Le prince travesti’’ est la pièce où la voix du
Marivaux journaliste et observateur de son temps se fit le plus entendre.
Marivaux, presque à son début, avait déjà des ennemis et, comme on craignait une cabale, Le prince
travesti ou L’illustre aventurier ne fut pas annoncé. La pièce fut créée le 5 février 1724 par les
Comédiens-Italiens à l’Hôtel de Bourgogne. Elle connut dix-huit représentations, ce qui était
alors un grand succès ; elle fut même l'un des deux plus grands succès que Marivaux obtint
de son vivant. Elle reçut un compte rendu favorable dans «Le Mercure» : «Il faut avouer que
cette manière d’écrire n’est pas tout à fait naturelle ; elle a quelque chose d’éblouissant qui va
jusqu’à la séduction.». Mais son caractère composite, disparate, son manque d’unité, déplurent aux
autres critiques, outrés surtout du fait que cette pièce ne leur ait pas été annoncée.
Elle fut reprise en 1729. Mais elle resta ensuite longtemps méconnue, tenue dans I'ombre.
Il fallut attendre la seconde moitié du XXe siècle pour que des metteurs en scène s’y
intéressent, et la renouvellent :
- En 1970, Jo Tréhard, au Théâtre-Maison de la culture de Caen, plaça l’action dans une salle des
pas perdus fermée sur la vie du dehors.
- En 1974, Daniel Mesguish, au Théâtre du Miroir, conçut un décor de velours noir, ménagea
des étreintes, des chuchotements, des cris, des râles de folie, des fleurs, du sang…
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- En 1983, Antoine Vitez la présenta à Chaillot. Il écrivit : «On lit Marivaux et on entend Mozart.
Tel doit être le style de la mise en scène, comme celui d’un opéra… Les airs seront détachés du
dialogue, on les donnera au centre de la scène, face au public. Il faudra maintenir la rigidité de la
forme, ne pas la laisser amollir par quelque factice vérité de jeu.» Il établit un dispositif scénique
très dépouillé, très froid, d’un blanc laqué (la couleur venant des seuls éclairages et du ciel, au
fond de la perspective, qui passe par toutes les nuances du bleu) ; ce dispositif tout en lignes de
fuite n’était brisé que par l’arbre aux fruits d’or (pommier stylisé, seul reste d’un jardin des
Hespérides) dans lequel Arlequin grimpait, virevoltait, se cachait, se lovait, tandis que la
princesse figée, seule, abandonnée y accolait son désespoir d’héroïne tragique. Cette mise en
scène tira donc la pièce davantage vers la tragédie que vers la comédie.
- En 1992, à Montréal, Claude Poissant, dans un spectacle sobre et fort, intelligent, limpide, et
d’une beauté profonde, unifia la pièce, évita les clins d’œil, le raccolage et la tentative de «faire
actuel».
Lettura e commento dai due primi atti
Lettura e commento del terzo atto di Le prince travesti
Considerazioni conclusive su Marivaux e il suo teatro
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DIDEROT
Si Marivaux formellement respecte les fameuses règles – il n’est donc pas de ce point de vue là un
novateur, tout en élaborant un style qui est très personnel et caractéristique de son époque (vous
vous rappelez de ce qu’on a dit au sujet du marivaudage) – il y a quelqu’un d’autre qui au XVIIIe
siècle opéra pour renover profondément (d’un point de vue avant tout théorique mais ensuite aussi
dans la pratique dramaturgique) le théâtre.
Ce quelqu’un est Denis Diderot, que vous connaissez surtout j’imagine comme un des philosophes
des Lumières ayant collaboré à l’Encyclopédie.
Il a été novateur dans tous les genres qu’il a pratiqué. Dans le roman par exemple, profondément:
Jacques le Fataliste et son maître est un grand exemple de métaroman inspiré de Lawrence Sterne
et de son Tristram Shandy.
Dans le domaine du theatre il a été l’inventeur du drame bourgeois.
Le drame bourgeois est un genre théâtral né au XVIIIe siècle sur un principe élaboré par Diderot et
Beaumarchais qui se donne comme un intermédiaire entre la comédie et la tragédie. Il met en scène
des personnages de la bourgeoisie, dont les contraintes sociales font leurs malheurs. Le drame
bourgeois recherche le naturel au détriment de la vraisemblance telle qu'elle a été érigée par le
classicisme.
C'est dans les Entretiens sur le Fils naturel que Diderot parle pour la première fois du drame
bourgeois, qu'il appelle « le genre sérieux ».
Tiré des Entretiens:
“Je ne demanderais, pour changer la face du genre dramatique, qu'un théâtre très étendu, où l'on
montrât, quand le sujet d'une pièce l'exigerait, une grande place avec les édifices adjacents, tels que
le péristyle d'un palais, l'entrée d'un temple, différents endroits distribués de manière que le
spectateur vît toute l'action, et qu'il y en eût une partie de cachée pour les acteurs. [...] On n'y peut
jamais montrer [sur nos théâtres] qu'une action, tandis que dans la nature il y en a presque toujours
de simultanées, dont les représentations concomitantes, se forçant réciproquement, produiraient sur
nous des effets terribles. C'est alors qu'on tremblerait d'aller au spectacle, et qu'on ne pourrait s'en
empêcher ; c'est alors qu'au lieu de ces petites émotions passagères, de ces froids applaudissements,
de ces larmes rares dont le poète se contente, il renverserait les esprits, il porterait dans les âmes le
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trouble et l'épouvante ; et que l'on verrait ces phénomènes de la tragédie ancienne, si possibles et si
peu crus, se renouveler parmi nous. Ils attendent, pour se montrer, un homme de génie qui sache
combiner la pantomime avec le discours, entremêler une scène parlée avec une scène muette, et tirer
parti de la réunion des deux scènes, et surtout de l'approche ou terrible ou comique de cette réunion
qui se ferait toujours”.
S'il tient à la fois de la comédie et de la tragédie, le drame bourgeois ne mélange pas pour autant les
genres, mais leur emprunte de multiples modalités de ton. Diderot fait remarquer combien il serait
incohérent de mêler, dans une même composition, des nuances du genre comique et du genre
tragique : « Connaissez bien la pente de vos sujets et de vos caractères, conseille-t-il aux auteurs, et
suivez-la... »
Le drame bourgeois se caractérise également par :
• le refus de l'unité de temps et de lieu ;
• le refus du caractère de vraisemblance imposé par le classicisme ;
• une plus grande proximité avec les préoccupations du temps ;
• l'importance de l'empathie afin de provoquer par l'émotion une fonction didactique ;
• le passage de la peinture des caractères aux conditions ;
• le goût du romanesque ;
• un penchant certain pour le pathos et l'exagération ;
• l'importance de la pantomime.
Le drame bourgeois n'est évidemment pas la première forme théâtrale à insister sur les relations
familiales, mais il leur donnera une dimension neuve, les rendant plus concrètes et exemplaires par
leur proximité avec le spectateur.
Ainsi, la liste des conditions énumérées dans les Entretiens... leur accorde une place particulière : à
l'homme de lettres, au philosophe, au commerçant, au juge, à l'avocat, au politique, au citoyen, au
magistrat, au financier, au grand seigneur et à l'intendant, il faut adjoindre, dit le personnage de
Dorval, le père de famille, l'époux, la soeur, les frères.
Du point de vue scénique, le drame bourgeois innove grâce à la suppression, en 1759, des bancs
destinés au public situés sur la scène. Ainsi, la démarcation entre scène et spectateurs se fait plus
grande. Cette démarcation est également soulignée par la présence de cadre et de rideau. De plus,
les décors sont réalisés avec un grand souci de réalisme (perspective) et le plancher est légèrement
incliné pour souligner la perspective.
30
L'importance est également mise sur les acteurs. Selon Diderot, il n'est pas naturel dans de grands
moments d'émotions de réciter un texte lyrique. Il croit en la pantomime, c'est-à-dire à l'action
plutôt qu'aux paroles dans ces moments intenses. Diderot esquisse également une des premières
théories sur l'acteur.
Sur plusieurs points, le drame bourgeois a largement influencé le genre populaire du mélodrame au
XIXe siècle.
Plutôt que dans la réception immédiate des pièces, ou que dans leur carrière post-mortem, c'est dans
sa descendance théorique et pratique qu'il faut chercher la véritable influence des théories de
Diderot.
On les verra actives chez Beaumarchais, qui se réclame explicitement du Père de famille, pas
seulement dans ses textes réflexifs (Essai sur le genre dramatique sérieux, préface à Eugénie,
1767), dans ses drames bourgeois (Eugénie, 1767 ; Les Deux Amis ou Le Négociant de Lyon, 1770)
ou dans son drame patriotico-familial, L'Autre Tartuffe ou La Mère coupable (1792), mais encore
dans Le Mariage de Figaro (1784), où les costumes, pour ne prendre que cet exemple, sont
longuement décrits, à la fois dans une visée réaliste et pour marquer la mainmise, au moins idéale,
de l'auteur sur son oeuvre.
C'est enfin dans le mélodrame du tournant des Lumières (Pixérécourt) et dans le drame romantique
(Vigny, Chatterton, 1835), genres pourtant antithétiques à bien d’égards, qu'on sentira sa présence.
Le Paradoxe sur le comédien est un essai sur le théâtre rédigé sous forme de dialogue entre deux
interlocuteurs par Denis Diderot entre 1773 et 1777 et publié à titre posthume en 1830.
La genesi dell'opera è da rintracciarsi nell'interesse di Diderot per un saggio su David Garrick,
celebre attore teatrale inglese. Il direttore della rivista per la quale Diderot componeva articoli,
Correspondances littéraires, gli aveva infatti inviato il saggio assieme ad altri per farglielo
recensire. Colpito dal lavoro e dall'analisi sullo stile recitativo, Diderot elaborò una personale teoria
sull'arte drammatica, espressa poi sulle pagine della rivista. Il Paradoxe sur le comédien è un
ampliamento dello stesso articolo di Diderot apparso nel 1770 su Correspondances littéraires.
Selon Diderot, qui s'oppose en cela à l'opinion générale de ses contemporains, l'acteur convaincant
31
est celui qui est capable d'exprimer une émotion qu'il ne ressent pas. C'est le paradoxe : moins on
sent, plus on fait sentir.
Diderot expose deux sortes de jeux d'acteurs :
•
Jouer d'âme qui consiste à ressentir les émotions que l'on joue
•
Jouer d'intelligence qui repose sur le paraître et consiste à jouer sans ressentir.
Un bon acteur est celui qui est capable d’exprimer des émotions qu’il ne ressent pas. C'est le
contraste entre l’expression du corps et l’absence d’émotion ressentie de la part de l’acteur, il joue
sans éprouver. Il rit sans être gai, pleure sans être triste. L'acteur se sert de son corps comme d’un
instrument. Le paradoxe du comédien met donc en évidence l’écart qui peut exister entre le corps et
le psychisme (ce qui n'est pas somatique et relève de l'esprit et de l'intelligence).
Ponendosi controcorrente rispetto al pensiero coevo, Diderot svela che l'attore non è un passivo
imitatore né un artista che basa la sua arte sulla sola sensibilità o sullo slancio romantico delle
passioni. C'è bisogno, infatti, che l'attore non solo studi i grandi modelli precedenti, ma si affidi,
nell'interpretazione, alla razionalità, che gli potrà permettere di ottenere risultati costanti.
In questo modo Diderot assegna all'attore lo statuto di creatore e non di imitatore, mettendolo
al pari dell'autore teatrale, considerato l'unico vero creatore della storia rappresentata. L'eccessivo
slancio causa nell'attore un eccesso di artificiosità nella recitazione: una studiata razionalità,
unita alla perspicacia, otterrebbero invece la naturalezza dell'interpretazione. Poiché il
compito dell'attore è, poi, riprodurre le medesime scene più volte nel corso della sua vita,
un'interpretazione basata sulla sola emotività rischierebbe di rendere incostante il risultato,
che potrebbe essere influenzato dalla stanchezza o dal turbamento, causando l'insuccesso
dell'interprete.
Il saggio di Diderot è alla base delle moderne teorie sul lavoro dell'attore, il quale necessita di una
severa disciplina e di una studiata tecnica per affrontare il suo lavoro.
Le Fils naturel, ou Les épreuves de la vertu est un drame bourgeois en cinq actes et en prose de
Diderot écrit en 1757 et représenté pour la première fois en 1757 chez le duc d’Ayen à SaintGermain-en-Laye.
Cette pièce suscita une controverse lorsque Fréron, puis Palissot accusèrent Diderot d'avoir plagié Il
vero amico de Goldoni. Goldoni lui-même a contesté ce plagiat.
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L’histoire
Clairville prie son ami Dorval, un jeune homme d’origine inconnue mais riche, beau, estimé et
vertueux, de plaider sa cause auprès de Rosalie qu’il adore. Lorsque celui-ci le fait, Rosalie dit à
Dorval que c’est lui qu’elle aime. Bien accueilli dans la famille de Clairville où vit également sa
sœur Constance, une veuve, Dorval est déchiré entre ses sentiments pour Rosalie et son respect pour
Clairville. Quand le père de Rosalie arrive pour bénir le mariage de Clairville et de Rosalie, il
reconnaît que Dorval est son fils illégitime. Rosalie et Dorval se rendent alors compte que la nature
de leur amour est d'ordre familial plutôt que romantique. Rosalie épouse alors Clairville, et Dorval
épouse Constance.
Diderot a écrit Le Fils naturel et le Père de famille pour soutenir la théorie qu’il avait élaborée du
drame bourgeois. En ce sens d'ailleurs, le texte de la pièce est suivie d'un traité intitulé Entretiens
sur Le fils naturel.
Le texte contient cette phrase qui envenima les relations de Diderot avec Jean-Jacques Rousseau : Il
n'y a que le méchant qui soit seul. Rousseau pris effectivement pour lui cette critique indirecte. Il
s'en ouvre dans ses Confessions.
« Mais il n'était pas question de cela dans mes prises avec Diderot; elles avaient des causes plus
graves. Après la publication du Fils naturel, il m'en avait envoyé un exemplaire, que j'avais lu avec
l'intérêt et l'attention qu'on donne aux ouvrages d'un ami. En lisant l'espèce de poétique en dialogue
qu'il y a jointe, je fus surpris, et même un peu contristé, d'y trouver, parmi plusieurs choses
désobligeantes, mais tolérables, contre les solitaires, cette âpre et dure sentence, sans aucun
adoucissement : Il n'y a que le méchant qui soit seul. »
Nelle pagine preliminari della pièce, Diderot scrive di aver incontrato Dorval (così si chiama il
protagonista) un giorno che era andato in campagna per riposarsi dopo che era uscito il sesto
volume dell’Enciclopedia. E che in pratica è Dorval ad aver scritto la pièce dietro sollecitazione
insistente del padre di lui, all’epoca dell’incontro con Diderot ormai morto, che aveva questo
desiderio allo scopo che i fatti avvenuti venissero raccontati e servissero non venendo dimenticati.
Dorval aveva allora esaudito il desiderio paterno e quando decise di far rappresentare la pièce invitò
Diderot ad assistere alla rappresentazione.
Lettura e comment del quinto atto del Fils naturel.
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Spiegazione sistema narrativo de La religieuse.
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Film su Molière
Molière est un film français de Laurent Tirard réalisé en 2007.
Cette comédie, avec Romain Duris
dans le rôle-titre, exploite une période de la vie de Molière dont on ne sait rien, avant les grands
succès à venir : idéal pour broder une histoire haute en couleurs où bon nombre de pièces
aujourd'hui classiques sont présentes « en situation » dans la vie du futur auteur reconnu.
En 1645, Molière qui dirige la troupe de « L’Illustre théâtre », se retrouve en prison, à cause de
dettes impayées. Il est tiré de prison par Monsieur Jourdain, un riche bourgeois qui veut s’attacher
ses services, pour séduire Célimène, une marquise en vue à la cour. Monsieur Jourdain, qui se rêve
gentilhomme, projette de jouer une pièce de sa composition à Célimène. Dans son entreprise de
rapprochement de la cour et de la noblesse, Monsieur Jourdain pense être aidé par Dorante, « son
ami », un noble, en fait ruiné, et qui s’avère être un trompeur, uniquement intéressé par la fortune
de Monsieur Jourdain et par les créances qu’il peut en obtenir.
Pour ne pas éveiller les soupçons de Madame Jourdain sur les intrigues de son mari, Molière, qui se
fait passer pour un prêtre du nom de Tartuffe, est donc engagé en tant que précepteur de la jeune
fille des Jourdain, Louison. Mais Madame Jourdain, Elmire, découvre bientôt la supercherie de
cette identité (mais sans découvrir la véritable mission de Molière), après avoir lu, et aimé, un texte
de théâtre écrit par Molière pour son mari. Une liaison naît entre Molière et Elmire.
Monsieur Jourdain, aveuglé par ses rêves de noblesse et obnubilé par sa flamme pour Célimène, ne
se rend compte de rien. Alors que sa fille aînée, Henriette, aime un autre jeune homme, Valère, il a
même accepté de la marier au fils de Dorante, Thomas, espérant ainsi en faire une comtesse et
promettre sa descendance à la noblesse. Ni Molière, ni Madame Jourdain ne parviennent à déjouer
ce projet de mariage forcé. Monsieur Jourdain finit par jouer sa pièce dans le salon que tient
Célimène. Dorante arrive à lui faire croire que c’est un succès complet mais Molière lui prouve
bientôt qu’il lui a menti, que Célimène n’a pas été touchée par sa pièce et qu’elle se moque même
de lui, en public. Cet homme abusé, moqué, ridiculisé découvre, alors, que sa femme a un amant
mais reste aveuglé sur le monde qui l’entoure. Au prix de ses sentiments et de sa liaison avec
Elmire, Molière lui fait, alors, comprendre qu’il est cet amant et le conduit à reprendre pied dans la
réalité. Le jour du mariage entre Henriette et Thomas, on apprend, en pleine cérémonie, que tous les
entrepôts de Monsieur Jourdain ont brûlé et qu’il est un homme ruiné. À cette nouvelle, Dorante
décide de se retirer avec son fils et de ne pas procéder au mariage, nouvelle preuve de sa cupidité et
de son absence de sentiment pour « son ami ». Juste après, on apprend que c’est Monsieur Jourdain
qui a orchestré cette nouvelle, afin de confondre Dorante. Il fait, alors, entrer Valère et l’heureux
mariage d’amour est consacré. Molière part. La famille Jourdain peut retrouver une forme
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d’équilibre.
Le comédien finit par retourner à Paris, pour retrouver ses amis et une troupe. Ils partent en tournée
dans toute la France, pendant de nombreuses années. Ils n’en reviennent, définitivement, qu’en
1658, date à laquelle la troupe de Molière se voit offrir la protection et le soutien de Monsieur, le
frère du roi. Sa troupe s’appelle, désormais, la « troupe de Monsieur ». C’est à partir de là, que la
grande carrière de Molière, dramaturge, comédien, metteur en scène, va naître. C’est là, aussi, à
Paris, qu’il revoit Elmire, gravement malade, à l’article de la mort. Elle lui a pardonné son départ et
le sacrifice de leur liaison.
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ALFRED DE MUSSET
(1810 – 1857)
Impostazione di Lorenzaccio di Alfred De Musset,
Il dramma storico
Alfred de Musset ha diciassette anni – qualcosa di più o qualcosa di meno (siamo insomma intorno
al 1827) – quando al College Henri IV a Parigi, dove ha già meritato un premio in «dissertazione»
sia latina che francese e dove s’appresta a concludere a pieni voti il suo baccalauréat (la nostra
maturità classica), conosce, attraverso un condiscepolo, Paul Foucher, Victor Hugo, che sta per
sposarne la sorella. Ecco come da questi viene descritto: «Un ragazzo gentile, di figura snella, i
capelli di un biondo liscio, lo sguardo fermo e limpido, le narici dilatate, le labbra vermiglie e
semichiuse. Il viso, di bel colorito, ovale e vagamente equino, aveva un che di singolare
nell’esibire, al posto delle sopracciglia, una specie di arco sanguigno…». L’anno dopo, quel
«ragazzo» fa già parte del Cénacle, il clan dei giovani ribelli, i romantici, che si radunano, per
l’appunto, in casa di Hugo, in rue Notre-Dame-des-Champs, o alla Bibliotèque de l’Arsenal, di cui è
direttore l’altro leader del gruppo, Charles Nodier. E l’anno seguente ancora (siamo, per l’esattezza,
nel dicembre del 1829), appenna diciannovenne, il «ragazzo» pubblica la sua prima raccolta di
versi, Contes d’Espagne et d’Italie. Non passano tre mesi e siamo alla «battaglia-manifesto» dei
romantici, quella del 25 febbraio 1830, per la prima di Hernani di Hugo: Alfred è tra i gilets rouges,
i panciotti carminio, che contraddistinguono in platea gli amici dell’autore. E già il 1° dicembre
(compirà vent’anni dieci giorni dopo) si prova anche lui col teatro: al Théâtre de l’Odéon va in
scena La nuit vénitienne, la sua «opera prima»: un fiasco totalte, grazie anche ad un’attrice, che si
macchia l’abito di scena di vernice fresca, appoggiando il bel dorso ad una cancellata dipinta da
poche ore.
È l’avvio d’uno dei più clamorosi dissidi, nell’intera storia del teatro moderno occidentale, tra
drammaturgo e scena: Musset, che morirà di consunzione (alcolismo e sessualità sfrenata, insieme
ad una debolezza aortica) a soli quarantasei anni, il 2 maggio 1857 (l’anno di Madame Bovary e di
Le fleurs du mal) e che scriverà in ventun anni (1830-1851) diciassette copioni teatrali, non li vedra
neppure andare in scena tutti: non Fantasio, pubblicato nel 1834 e rappresentato per la prima volta
nel 1866; non On ne badine pas avec l’amour, edito lo stesso anno e allestito solo nel 1861: ma il
caso più scandaloso è quello di Lorenzaccio, giudicato unanimamente uno dei capolavori del teatro
romantico, dato alle stampe nel 1834 e proposto dall’audace Sarah Bernhardt (nel ruolo del titolo)
solo nel 1896.
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Per altro il dissidio più vero e profondo Musset se lo porta dentro sin dall’esordio da enfant prodige,
di cui s’è detto: ed è il dissidio tra vita e letteratura. Nel Cénacle i più avvertiti se ne sono accorti
subito. Certo Alfred partecipa alle letture collettive, certo non si sottrae agli appelli o alle
dimostrazioni ufficiali: ma – dice qualcuno dei più severi del gruppo - «è sempre come se fosse
altrove». Non si tratta – su questo è bene fare chiarezza – delle sue dissipatezze erotiche (giovani
prostitute, sartine, ricche borghesi, altezzose aristocratiche, cantanti d’opera e attrici di prosa): del
resto, ci riuscirà chi lo sconfiggerà su quel fronte (Guy de Maupassant, il «toro normanno»: sette
rapporti erotici con sette parner diverse in una giornata – forse non del tutto a casa morirà sifilitico e
pazzo, come, per le stesse ragioni, George Feydeau). Si tratta, semmai, del fatto che per lui la
letteratura non rappresenta un impegno così radicale, così severo e totale da colmargli l’esistenza:
come sarà, invece, per gli scrittori della sua generazione (qualcuno si ucciderà per lei, come Gérard
de Nerval, impiccatosi a soli quarantasette anni in una gelida notte del gennaio 1855 in un rue de la
Vieille-Lanterne a Parigi), per molti dei simbolisti decadenti, per alcuni (almeno) dei dadaisti e
surrealisti.
C’è una poesia di Alfred così bella da riuscire (lo scriviamo senza enfasi) straziante: s’intitola Une
soirée perdue ed è del 1840: ne conosciamo persino la data, giacchè prende spunto da una serata
alla Comédie Française, quella del 14 luglio (è la ricorrenza della Parigi sbastigliata). Alfred è
sprofondato in una poltrona di platea e segue, in preda, letteralmente, al rimorso più vivo e sincero,
un’ennesimaa replica del Misanthrope di Molière. Il cuore gli rimorde nel riconstatare «quale
amore per l’aspra verità», «quale maschia gaiezza, così triste e profonda» ha animato il genio di
Molière nell’ideare e animare Alceste, lo sprezzatore e schernitore d’ogni umana ipocrisia al punto
da rinunciare ad ogni rapporto col mondo e scegliere di esiliarsi nel deserto di un qualche sperduto
villaggio di campagna, lontano il più possibile dalla menzognera società di corte, con i suoi
gentiluomini dai nastri verdi e le loro fissazioni d’essere poeti (non lo sono, per inciso, alcuni dei
nostri sempreverdi parlamentari?). Mentre è immerso in codeste riflessioni, Alfred scorge in un
palco «un collo snello e incantevole», che si dondola gaiamente «sotto una treccia nera», così
perfettamente «incastonato nell’avorio» delle spalle e del seno d’una giovinetta da osare
dimenticare Molière: e il proposito, che per qualche istante lo ha pervaso, di «raccogliere la frusta
della satira» del grande drammaturgo scomparso, di riaccendere dalle sue ceneri «una scintilla» del
suo antico e stupendo sdegno. Il finale della poesia è così sconvolgente che ogni parafrasi ne esce
avvilita: la fanciulla si alza a spettacolo concluso: non si è neppure accorta che Musset l’ha rimirata:
«e quando io la scorsi sulla soglia di casa – sparire, m’accorsi che l’avevo seguita – Ahimè! Amico
caro, è questa tutta la mia vita! …».
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È da questo dissidio, acuto e lacerante, che sono pervasi i protagonisti dei «proverbi» teatrali:
Fantasio ed Elsbeth, lo studente-buffone e la figlia del re di Baviera, che si «predicano» l’un l’altra
la ribellione alle regole senza riuscire a trovare un approdo saldo ad una qualunque identità
personale vera; Perdican e Camille, il baroncino laureato a pieni voti in Sorbona e l’aristocratica
cugina diciottenne, da dieci anni novizia presso le sue monache di clausura, che non sanno decidersi
tra Amor Profano e Amor Sacro, tra passione effimera ed eterna fedeltà, e si lasciano inghiottire nel
vortice delle reciproche simulazioni; Marianne (non a caso al centro della più «nera» commedia
delle tre) al centro, ma si dovrebbe scrivere che è squartata, tra voluttà e sentimento, tra «l’anima e
il corpo, questi fratelli nemici!». Abbiamo, ancora una volta, citato il Musset poeta, stavolta da
Namouna, un poemetto-racconto (o novella in versi) d’ambientazione orientale, in tre canti di
complessive 147 sestine, che Musset pubblicò nel 1832 (a ventidue anni, dunque) nella silloge Un
spectacle dans un fauteuil, per renderla più folta. La citazione è tratta dalla quarantottesima sestina
del primo canto: nella successiva Musset precisa che tra corpo e anima la Natura ha posto un
vincolo di ferro e Dio l’ha permesso: cosicchè (siamo alla cinquantesima sestina) anima e corpo
«andranno a due a due» passo a passo, fianco a fianco, «finchè il mondo andrà»: «Poveri noi tutti! –
colui che s’abbandona – di ciò che avrà fatto presto dovrà gemere! – Lì è la colpa, ardente – e colui
che s’inebria deve ridere di pietà se non vuol fremere!». Come sarebbe bello – conclude Musset
amaramente – dormire e sognare…
Quando il 2 maggio 1857 una pleurite con flussione di petto aggredisce il corpo già stremato di
Alfred e lo conduce alla tomba, il fratello (e primo biografo) Paul testimonia che le sue ultime
parole furono: «Dormir… enfin je vais dormir…».
(da un programma di sala scritto da Guido Davico Bonino, all’epoca direttore del Teatro Stabile di
Torino, per una messa in scena dei proverbi teatrali di De Musset)
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Nelle prime pagine de La confession d’un enfant du siècle (1836) De Musset traccia un ritratto della
generazione romantica – nata dalla tempesta del vento napoleonico – e al tempo stesso dà una
definizione di quel mal du siècle che funziona come motore principale della sua opera e che, nei
testi teatrali, raggiunge la sua massima evidenza governando l’azione scenica e i personaggi.
I coetanei di De Musset, giovani pieni di forza e di audacia, figli dell’Impero e nipoti della
Rivoluzione, hanno «dietro di loro un passato distrutto per sempre […]; davanti a loro l’aurora di un
immenso orizzonte, i primi chiarori dell’avvenire; e tra questi due mondi […] qualcosa di simile
all’Oceano che separa il vecchio continente dalla giovane America, […] il secolo presente, in una
parola, che separa il passato dall’avvenire, che non è né l’uno né l’altro pur assomigliando a
entrambi».
L’Oceano, immagine di un insondabile presente, determina una scissione nella mente di chi lo
attraversa (o di chi soltanto lo pensa); De Musset anticipa di trent’anni l’intuizione di Lautréamont
che in quell’«immenso livido applicato sul corpo della terra» vedrà l’inconscio.
La confession non è l’autobiografia di De Musset («Per scrivere la storia della propria vita bisogna
prima aver vissuto; così non è la mia che scrivo»), ma una finzione romanzesca che mette in scena
il doppio io dell’autore conducendolo con sicurezza drammaturgica lungo il percorso di una
esemplare educazione sentimentale.
Nel 1836 il giovane De Musset aveva alle spalle una notevole produzione teatrale nella quale
convivono, e spesso si fronteggiano, i due volti della sua identità. Sulla sua pagina la tensione –
ingrediente indispensabile nel processo di creazione dell’opera romantica – si polarizza per lo più
su personaggi complementari. Come ad esempio nei Caprices de Marianne, dove Cœlio, che
motiva la sua esistenza – e la sua stessa ragion d’essere di personaggio – nell’amore impossibile per
colei che lo rifiuta, affida il suo destino a Octave, che da tempo ha sostituito la donna con la
bottiglia (l’alcol, compagno di vita di De Musset, produce su Octave un altro effetto: quello di
renderlo sufficiente a se stesso tramite un’ulteriore scissione: «Cerco di veder doppio, per riuscire a
far compagnia a me stesso»). Ma Marianne, come dimostra la sua sottile capacità di argomentare,
ha dimestichezza con la retorica ed è quindi sensibile al discorso sull’amore che Octave pronuncia
in favore dell’amico più che al sentimento assoluto e inespresso di Cœlio. Sulla tomba che sigilla la
pièce, a Octave non resta che piangere la morte dell’amico Cœlio, la “parte buona” di sé.
Il rapporto di necessità che intercorre fra i personaggi di Cœlio e di Octave ricorda da vicino quel
processo di proliferazione dell’io che caratterizza l’opera (musicale e letteraria) di uno dei più
appassionati “militanti” e teorici del Romanticismo europeo, Robert Schumann, che nel 1833 – lo
stesso anno dei Caprices – mette in scena sulle pagine della “Nuova rivista musicale” le proiezioni
di se stesso: Florestano (l’anima impulsiva, estroversa, travolgente), Eusebio (quella riflessiva e
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malinconica), e Maestro Raro (l’equilibrio che risolve i contrasti nell’armonia), tutte e tre necessarie
alla compiutezza del musicista.
Le forze che si affrontano in On ne badine pas avec l’amour sono due diverse concezioni
dell’amore: per Camille, quello umano è imperfetto, l’unico che concepisce è l’amore che la unirà a
Cristo una volta che avrà preso i voti; Perdican, che non crede all’immortalità e non accetta alcun
assoluto, contrappone alla scelta del convento quella consapevole della vita pienamente vissuta:
«Giunti alla soglia della tomba, ci si volta per guardare indietro e si può dire: “Spesso ho sofferto,
qualche volta mi sono sbagliato, ma ho amato. Sono io che ho vissuto, e non un essere fittizio creato
dall’orgoglio e dalla noia».
Queste parole sono l’esatta trasposizione della chiusa di una lettera che George Sand aveva inviato
a De Musset dopo che la loro storia d’amore era naufragata a Venezia in seguito all’entrata in scena
del dottor Pagello, imprevisto terzo in un ménage che si era illuso di poter consumare, sulla laguna,
una romantica passione. Non è soltanto una sofferta citazione, ma il segno di un costante travaso tra
vita e scrittura nel quale le identità sono instabili, intercambiabili.
Il caso, cioè la morte di Saint-Jean, il buffone del Re di Baviera tanto caro alla principessa Elsbeth,
offre al giovane Fantasio, borghese e tuttavia toccato dal mal du siècle, l’opportunità di sostituirsi a
lui e di introdursi a corte come in una sorta di realtà virtuale – una pulsione analoga a quella di
molti suoi coetanei di oggi. Qui, il nodo drammatico è sciolto dall’eroe con un gesto imprevedibile
e giovanilmente sfrontato: la parrucca regale dell’improbabile pretendente alla mano di Elsbeth, il
principe di Mantova, viene fatta volare tra i rami di un albero. A gioco estremo, estreme
conseguenze: sarà guerra ma alla principessa di Baviera verrà risparmiato un odioso matrimonio di
pura convenienza. C’è in Fantasio un rifiuto della stabilità; quando Elsbeth gli propone di rimanere
a corte come buffone, egli declina l’offerta («Amo questo mestiere più di qualunque altro ma non
posso fare alcun mestiere»). Tornerà forse a travestirsi da buffone ma solo come momento di fuga e
di gioco.
Il gesto che viene a riscattare l’ennui sembra prefigurare in qualche modo una poetica più tarda,
quella della vita intesa come opera d’arte. In Fantasio il concetto è appena accennato, si preciserà in
un racconto del 1838, Le fils du Titien, nel quale De Musset affronta il tema della produzione, anzi
della produttività artistica, cui Tizianello, figlio del grande maestro e dotato di straordinario talento,
cerca di sottrarsi. Nella cornice di una Venezia pittoresca, si gioca un amoroso braccio di ferro fra
una bella nobildonna e il giovane pittore che lei vorrebbe affrancare da una vita di gioco, vino,
donne, cattive compagnie. L’amore (corroborato dall’ostinazione di Béatrice) alla fine la spunta, e
Tizianello produce il capolavoro: un meraviglioso nudo dell’amata. Le nobili ambizioni della donna
sono però destinate a infrangersi contro la scelta dell’artista che in un sonetto dichiara la superiorità
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della vita sull’arte con un appello al lettore: «Per quanto bello, questo ritratto non vale/Credimi
sulla parola,/un bacio del modello».
Ma la soluzione del giovane pittore è in realtà una rinuncia e Tizianello è un’ulteriore maschera che
viene ad aggiungersi alla galleria degli alter ego di Alfred. Molteplici e difformi, tutti dominati
dallo spettro dell’autodistruzione. Sempre molto presenti sulle scene francesi, le pièces di De
Musset tornano finalmente sulle nostre mettendoci di fronte a un’interpretazione radicale del
malessere che rimette in gioco la scrittura come teatro degli innumerevoli io individuali e collettivi.
(dallo stesso programma di sala, contributo di Gabriella Bosco)
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Lorenzaccio
Le mouvement romantique a vu le jour au XIXe siècle, avec des auteurs comme Nerval, Lamartine
ou encore Alfred de Musset. Dans un contexte politique trouble et agité, avec un pouvoir en proie
aux protestations de la jeunesse, Musset « l’enfant prodige » compose un théâtre rempli de
symboles, et libéré des contraintes formelles classiques. L’œuvre est, selon les termes de Musset, un
« spectacle dans un fauteuil ». Celle-ci, Lorenzaccio, possède cinq actes, mais tous ne sont pas de
consistance et de densité égales, car les quelques trente pages qui constituent les huit scènes de
l’Acte V font pâle figure face aux cinquante feuillets du précédent. De ce fait, le cinquième acte
peut donc paraître moins complet et plus insignifiant que les autres, bien qu’en réalité il porte les
marques d’un véritable dénouement. Il a d’ailleurs souvent été supprimé des versions
contemporaines de mise en scène, et atrophié voire dénaturé dans certaines rééditions modernes.
Mais si Alexandre de Médicis est tué à la fin de l’acte IV, Lorenzo, lui, meurt mis en pièces par le
peuple durant cet acte. Le couple Cibo se reforme pour faire bonne figure, le cardinal tire, dans
l’ombre, les ficelles secrètes qui lui permettront de s’assurer un contrôle du pouvoir, et la vague
républicaine qui aurait dû naître dans le sillage de l’épée de Lorenzo reste très timide. Pourquoi les
enjeux de cet ultime élément dramaturgique sont-ils éminemment nécessaires à l’œuvre ? Comment
l’acte V confère-t-il un éclairage nouveau, plus pessimiste, à l’action, et oriente le lecteur vers une
interprétation plus nuancée des conséquences de l’assassinat du tyran ? Pour répondre à cette
interrogation, il convient de montrer en quoi ce dernier acte remplit l’office de dénouement de
l’intrigue principale, où un Lorenzino protéiforme lutte contre la tyrannie, et également des deux
intrigues secondaires : la marquise de Cibo qui tente de séduire le duc dans un but républicain,
action détournée par le cardinal pour servir ses propres intérêts, ainsi que la famille Strozzi qui
construit, parallèlement, sa vengeance. Ensuite, nous verrons comment l’auteur cherche à donner un
sens différent, plus résonnant, à l’ensemble de son œuvre en dépeignant l’éternel retour de la
vicissitude et le pessimisme, voire la lâcheté des héros républicains face à la situation. Il faudra
également étudier la valeur autobiographique donnée par Alfred de Musset à cette partie de la pièce,
dans laquelle il laisse entrevoir toutes ses désillusions après la révolution ratée de juillet 1830.
Enfin, il sera judicieux d’étudier la perception que le lectorat a eu, et a actuellement de ce dernier
acte. Nous chercherons à comprendre les limites inhérentes à l’acte V qui, sans doute parce qu’il
veut crier un message trop fort pour cette époque, semble multiplier les difficultés qu’un metteur en
scène peut avoir à le représenter…
Dans un premier temps, on peut dire que l’acte V constitue véritablement le dénouement de toutes
les intrigues de Lorenzaccio : en effet, il permet au lecteur de mieux cerner les enjeux du texte et de
comprendre pourquoi le personnage de Lorenzo reste si énigmatique, si triste et ironique à la fois.
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La ville de Florence résonne des discours cyniques des commerçants et des seigneurs, désabusés et,
pour la plupart, sans espoirs. L’ultime partie de l’œuvre clôture ainsi toutes les questions laissées en
suspens, en accentuant l’effet d’accélération de l’action par une binarité des lieux (Florence-Venise)
et par un rétrécissement du temps (les scènes I à IV ont lieu dans la même journée du 6 janvier ; les
scènes V à VII le lendemain matin).
Tout d’abord, l’intrigue dramatique centrale se referme apparemment bel et bien sur la mort du duc
Alexandre de Médicis : la formule employée par Lorenzo à l’attention de Scoronconcolo
(« Attends ! Tire ces rideaux. », scène XI de l’acte IV) est une métaphore qu’opère l’auteur,
perpétrant une mise en abyme, un théâtre dans le théâtre. L’action semble donc terminée, la scène
rendue à son obscurité naturelle par les rideaux refermés. Pourtant, le mouvement reprend à
nouveau dans le dernier acte, qui s’ouvre magistralement sur le grand débat des seigneurs
conservateurs, désireux de nommer au plus vite un nouveau duc pour Florence, au moins par
régence, avant que la nouvelle ne s’ébruite et vienne compromettre le régime qu’ils eurent tant de
peine à établir. Pendant ce temps, Lorenzo est à Venise, à l’abri des murs du cabinet de Philippe
Strozzi. Malgré cette apparence de protection, le Conseil des Huit ne tarde pas à l’accabler du
meurtre de son cousin éloigné en mettant sa tête à prix (« À tout homme, noble ou roturier, qui tuera
Lorenzo de Médicis, traître à la patrie, et assassin de son maître, […] il est promis […] », scène II
de l’acte V). Dès lors, ceci permet au lecteur de comprendre que le destin du antihéros, poussé à la
limite de la schizophrénie par le contraste total entre son habit de vice, son masque de luxure et une
âme qui fut jadis pure et studieuse, est scellé. Ce passage nous fait entrevoir un personnage
radicalement orienté vers l’autodestruction : un Lorenzo qui ne veut pas redevenir un simple
homme et survivre d’une vie calme et sans remous. Mû par cette ivresse du geste accompli, il paraît
déjà plongé dans une mélancolie profonde. Dans la scène II, le monde qui l’entoure, son vieil ami
Philippe essayant de le congratuler (« Laisse-moi t’appeler Brutus », et « mon grand Lorenzo ! »)
n’ont que peu d’importance à ses yeux. Le processus dramatique est à son apogée dans le dernier
acte. Même la clé de sa chambre, devenue le tombeau d’Alexandre, n’a plus qu’une valeur
symbolique, il délègue la gloire de l’Histoire à d’autres que lui. Ce désintérêt croissant est illustré
par deux répliques : « Philippe, je t’apporte le plus beau joyau de ta couronne », « Je ne nie pas
l’histoire, mais je n’y étais pas. ». Nous pouvons donc affirmer que c’est un héros déjà fragilisé,
brisé par le rôle de lâche et de déluré qu’il a dû jouer durant tant d’années, qui parle ici de son
accomplissement personnel comme d’un fardeau presque oublié, laissé à l’appréciation d’autres
juges que lui. Serait-ce parce qu’il a eu la prémonition de ce qui allait arriver à l’objet de toutes ses
dévotions, la mère souillée qu’est Florence ?
L’avant-dernière scène élimine le dernier résidu d’espoir que Lorenzo avait en lui. Elle s’ouvre
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directement, sans transition, sur l’entrée de ce dernier qui tient une lettre lui apprenant le décès de
Marie Soderini, la mater dolorosa qui soutint son fils jusqu’aux confins de la tristesse et de la folie.
Cette nouvelle bouleverse un peu plus un héros déjà éreinté, qui se définit dans la scène VII comme
étant « plus vieux que le bisaïeul de Saturne ». Le lyrisme exacerbé du héros amène le lecteurspectateur à percevoir derrière ces paroles lasses et dégoûtées la crise identitaire et le malaise d’un
adolescent face au monde « adulte », qui lui répugne de par ses injustices et ses incohérences. C’est
grâce à cet acte que l’on admet enfin la possibilité que cet acte héroïque, ait été guidé aveuglément
par une soif de crier son mal-être au monde entier, finalement radicalement égoïste. Ce surplus de
négativité le fait définitivement basculer dans un vertige suicidaire. Finalement, le meurtre ne l’a
libéré que partiellement : il se sent vide (« je suis plus creux et plus vide qu’une statue de ferblanc »), délaissé par ceux pour qui il avait voulu agir (« […] que les républicains n’aient rien fait à
Florence, c’est là un grand travers de ma part »), et il sort dans la rue en direction du Rialto,
accomplissant ainsi son suicide indirect. L’effet de cette provocation du destin ne se fait pas
attendre, en sortant, il est abattu par derrière, sans panache, et n’a même pas droit à un enterrement :
il meurt comme il a vécu. Le corps de Lorenzo finit dans la lagune de Venise. L’auteur pousse une
ironie déjà retentissante jusqu’à son paroxysme en faisant assassiner celui qui aurait dû être le guide
de la nation par le peuple lui-même. (« Pippo : Monseigneur, Lorenzo est mort / […] le peuple s’est
jeté sur lui, […] on le pousse dans la lagune »). Le lectorat n’a apprécié que très variablement cette
fin presque attendue et qui ne laisse rien espérer, mais les drames romantiques comme Lorenzaccio
sont avares en fins heureuses…
L’intrigue secondaire de Cibo trouve un écho tout à fait révélateur et nouveau dans ce dernier acte.
Alors que les seigneurs de Florence sont en train de proposer des noms pour le trône vaquant de duc
de Florence, l’ambiance fiévreuse de la crainte et de l’inquiétude s’installe. Mais, non sans garder à
l’esprit les rouages machiavéliques qui leur assurent le contrôle de la ville, des dirigeants, euxmêmes manipulés, échangent fausses courtoisies et vraies attaques, comme le prouve Palla
Ruccellaï en votant blanc. Dans l’acte V, ces engrenages sont symbolisés par le personnage du
cardinal Malaspina Cibo, qui condense derrière sa robe d’ecclésiastique tous les vices prêtés à la
tyrannie du Pape et de Charles Quint. Il représente l’image même de l’arriviste qui désire à tout prix
accéder aux plus hautes instances politiques et religieuses. Dans cette optique, il va même, durant
toute la pièce, tenter de détourner la relation que la femme de son frère, la marquise de Cibo,
entretient avec le duc, à des fins politiques. La première scène de l’acte V est essentielle, car elle
laisse parler les voix des membres du Conseil des Huit, qui explicitent la nature véritable du visage
intérieur du cardinal. Le lecteur achève d’y découvrir un personnage des plus manipulateurs : il fait
croire aux visiteurs que le duc est encore en vie, alors qu’il vient de périr dans la scène précédente
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(« […] le duc a passé la nuit à une mascarade, et il repose en ce moment », bien que l’omission
volontaire du pronom « se » avant le verbe rappelle au lecteur de la pièce ce qu’il en est en réalité…
Prévoyant, il a envoyé un messager au Pape pour s’assurer d’être nommé ou que l’on fasse nommer
un jeune homme facilement manipulable. L’acte V joue donc un rôle-clé, en ce sens qu’il sert à
fixer le cadre d’un éternel recommencement, comme le mentionne la célèbre formule du cardinal,
que Musset fait parler en vers latins « Primo avulso non deficit alter | Aureus, et simili frondescit
virga metallo (Le premier rameau d’or arraché se remplace par un autre, et une nouvelle branche du
même métal pousse aussitôt) ». Finalement, Côme de Médicis, un jeune parent du duc assassiné qui
fut élevé avec Lorenzo, remplacera ce dernier. Loin d’être libératrice, son arrivée sur le trône au
milieu d’une foule rassemblée en grand nombre, comme l’indique la didascalie « Florence.-La
grande place ; des tribunes remplies de monde. Des gens du peuple courent de tous côtés. », a le
goût amer de la soumission à l’autorité du Pape et de Charles Quint. Côme, inexpérimenté, va
devenir malgré son innocence le bras agissant du Mal, représenté par le cardinal, et auquel seuls
quelques étudiants et une poignée de braves semblent s’opposer. La scène finale du couronnement
de Côme laisse présager l’avènement d’un avenir heureux pour l’ambition démesurée de l’Église –
et de son armée – qui veut soumettre l’Italie à son influence. La marquise est, quant à elle,
brièvement évoquée dans la scène III, dont le décor est planté dans une rue de Florence. Formant
une paire littéraire avec son contraire, le cardinal, l’opposition est absolue, l’idéalisme se heurte au
machiavélisme. Les deux gentilshommes qui constatent la réconciliation du couple Cibo constituent
la voix de l’opinion publique. Là encore, la lâcheté occupe le premier rôle, car les commérages
(« Qui ne sait pas, à Florence, que la marquise a été la maîtresse du feu duc ? ») cèdent leur place
aux railleries moqueuses (« […] avaler une couleuvre aussi longue que l’Arno, cela s’appelle avoir
l’estomac bon ») pour enfin se métamorphoser en crainte empreinte de bassesse à la mention des
talents de guerrier du marquis (« Si c’est un original, il n’y a rien à dire. ») La femme mûre qui
voulait, en utilisant ses charmes, servir l’idéal républicain, se retrouve au final soumise à l’influence
du regard populaire et doit se ranger derrière l’épaule de son mari qui, d’ailleurs, fait comme si de
rien n’était. Elle s’efface et se comporte de telle manière que l’on pourrait croire que tous les
problèmes de la ville et de la nation sont réglés, alors qu’il n’en est rien : ce n’est qu’un masque de
plus dans l’immense carnaval de l’œuvre de Musset. Cet ultime acte est donc la clé de voûte d’une
complexification autour du duc car, même mort, celui-ci autorise la modification des valeurs
individuelles. Le lecteur est en droit de se demander si cette réconciliation est réelle, témoignant
ainsi de la beauté de certains sentiments (l’amour, le respect, etc.), ou si elle ne fait qu’ajouter à
l’absurdité de la situation florentine. Tout converge vers un effet de peine prolongée et
d’épuisement poétique pour que le lecteur s’identifie au héros romantique tiraillé par ses passions
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internes face à un monde qui le dégoute. Le cas de l’intrigue Cibo dans le dernier acte met donc en
relief l’aspect psychologique et historique du drame de Musset, en cernant les habitudes néfastes du
XVIe siècle, à rapprocher du fameux « mal du siècle » au XIXe.
Enfin, il est également nécessaire de traiter de la dernière intrigue, lancée en même temps que les
autres dans l’acte premier, et qui concerne quant à elle la facette politico-sociale de la pièce, avec
pour actants les membres de la famille républicaine Strozzi. L’acte V est essentiel, en ce sens qu’il
donne au public l’occasion de mesurer le changement d’attitude de Pierre Strozzi : au départ, il
luttait contre l’oppresseur pour venger l’affront fait à sa sœur par Salviati. Mais lorsque Louise
Strozzi meurt empoisonnée et que celui-ci l’apprend au sortir de son séjour en prison, la culpabilité
commence à le ronger. L’acte V montre, même si Pierre n’y apparaît que dans la scène IV, que le
combat qu’il avait engagé pour la liberté s’est mué en multiples vengeances personnelles, puis que,
aigri de n’avoir pas été accepté pour son propre caractère par les troupes républicaines, qui ne jurent
que par le nom de son père Philippe, il reproche à Lorenzo de lui avoir « volé sa vengeance »
(« Maudit soit ce Lorenzaccio […] ma vengeance m’a glissé entre les doigts comme un oiseau
effarouché », scène IV). Il a rallié l’ennemi, l’armée française (« Pierre est en correspondance avec
le roi de France »), parce qu’il est prêt à tout pour détruire ceux qui ont symboliquement détruit sa
propre famille (avec la mort de Louise et l’exil de Philippe). Nous pouvons donc en déduire que
même les républicains, qui sont censés représenter la paix et la justice dans la hiérarchie quasimanichéenne de l’œuvre, sont eux-mêmes en proie aux vices et à la démesure. C’est une défaite
pour la Justice. Cet acte final met au monde une ville à bout de souffle, où la vérité sort de la
bouche des enfants de la famille Salviati et de la famille Strozzi, toujours en opposition, qui
s’insultent et se chamaillent. Pendant ce temps-là, le lecteur voit progresser un arrière-plan politique
et social réaliste, avec la scène des étudiants (scène VI) et les dialogues entre précepteurs et entre le
marchand et l’orfèvre par exemple. Quant au personnage de Philippe, vieux sage empreint d’idéaux
durant toute la pièce, cet acte le met en lumière en le présentant comme un ami intime de Lorenzo,
qui cherche à le protéger et qui tient, plus que Lorenzo lui-même, à sauvegarder la santé et la
jeunesse de ce dernier. Cette relation pure, où Philippe devient le père par procuration du jeune
homme (il est d’ailleurs décrit de façon très similaire au véritable père), est particulièrement visible
dans les scènes II et VII, avec des phrases comme : « Je suis plein de joie et d’espoir » (foi en
l’avenir), « Cache-toi dans cette chambre » (instinct paternel), ou également « Partons ensemble ;
redevenez un homme ; vous avez beaucoup fait, mais vous êtes jeune » (désir de raisonner). Le
cinquième acte lui prête une connotation positive : il garde foi dans le réveil des républicains
florentins et espère un renouveau gratifiant…
On peut donc dire que l’Acte V constitue un vrai dénouement, faisant suite à la parodie de solution
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qu’était la mort du duc. Le peuple, représenté par les gentilshommes, les précepteurs, le marchand
et l’orfèvre, n’a pas voulu donner suite à l’acte héroïque isolé d’un Lorenzo fataliste. Ces scènes,
qui concluent sur une lâcheté généralisée, sont marquées par la volonté de l’auteur de donner un
sens différent, plus résonnant, à l’œuvre tout entière, par le biais du pessimisme et d’une certaine
valeur autobiographique.
D’abord, le dernier acte érige en monument l’accomplissement d’un destin, c’est la triste victoire
d’un héros incompris face au monde « adulte », lâche et vain. « J’étais une machine à meurtre, mais
à un meurtre seulement », dira Lorenzo pour se qualifier. Ainsi, la fatalité tragique a guidé sa vie,
sans qu’il sache lui-même pour quoi il agissait, et l’a conduit au pied du mur, face à l’impasse du
néant ou de la mort. Sa destinée est vide de tout sens, il a fait ce qu’il devait faire au regard des
valeurs qu’il tenait pour justes. L’effet recherché est le dégoût, celui d’une lucidité aigüe, presque
violente, à un tel point que le Lorenzaccio « sauveur de Florence » se moque totalement de ce qui
adviendra de Lorenzino, de Renzo et de toutes les autres facettes de sa personnalité. Si, dans les
quatre premiers actes, l’illusion des dialogues pouvait rendre une impression d’unité, les
monologues laissant apparaître un personnage protéiforme et déchiré entre ses plusieurs « moi »,
l’ultime acte est l’épilogue de cet écartèlement psychologique, où le personnage s’aliène et devient
étranger à lui-même (« c’est assez, il est vrai, pour faire de moi un débauché », – où l’emploi de la
passivité prouve qu’il est déjà à demi parti du monde – et « je porte les mêmes habits, je marche
toujours sur mes jambes, […] [mais] je suis plus creux et plus vide qu’une statue de fer-blanc. »,
montrant son désintéressement vis-à-vis de sa propre existence). Musset relègue en coulisses la
mort de Lorenzo. L’Histoire évacue le héros sacrifié ; la fin du duc, si longuement fantasmée par le
héros, reste, malgré une brève illusion de rédemption, de l’ordre de la banalité. Le dramaturge
insiste sur le contraste entre rêve et réalité, sacrifice personnel et conséquences historiques. La mort
du duc n’a pas apporté ce qu’en avait espéré Lorenzo. Toute la pièce traduit ce désespoir politique
et moral : Lorenzo parle brièvement d’une pureté vite évanouie, mais Florence n’en tirera aucun
profit. Les haines farouches et les sentiments violents des enfants Strozzi et Salviati, ainsi que la
superstition du marchand lors de l’épisode des « six Six » (scène V) forment un contraste absolu
avec sa rêverie nostalgique et lasse. Lorenzo est donc un rêveur qui rêve sa propre vie, un dormeur
qui a essayé de transcender une action négative pour une cause juste afin de se réveiller. Mais dans
le fond, le lecteur comprend grâce à cet acte que son désir le plus intime est de mourir, peut-être
parce qu’il estime avoir écrit suffisamment de lignes dans le grand livre de l’Histoire.
Ensuite, c’est cet acte de clôture qui démontre précisément le romantisme inhérent à l’œuvre tout
entière. Un pessimisme global typiquement romantique établit le mythe de l’Eternel retour, dans
lequel Florence-la-catin, la prostituée forcée de laisser mourir ses enfants, est promise à un mariage
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malheureux avec Côme, un dirigeant inexpérimenté soumis à un pantin malfaisant. « Je suis très
persuadé qu’il y a très peu de très méchants, beaucoup de lâches et un grand nombre
d’indifférents. », mentionne Lorenzo, qui n’a pourtant qu’une vingtaine d’années. Les républicains
sont mous, ils hésitent, « ils ont haussé les épaules, […] ils sont retournés à leurs dîners, à leurs
cornets et à leurs femmes. » Il sait déjà à quoi il peut s’attendre au sein d’une société du XVIe siècle
qui traverse une période de crise totale. Perdus au cœur de ce monde peu réjouissant, certains se
tournent vers la superstition (le marchand), d’autres vers une érudition aveuglée (les précepteurs,
qui parlent de poésie alors que les enfants combattent), d’autres encore vers l’art (Tebaldeo, les
sculpteurs par exemple) et les derniers vers le vice (le cardinal). Mais de tous ces refuges émanent
les mêmes voix déséspérées, qui sont traduites de diverses manières dans le dernier acte de l’œuvre.
Une œuvre qui, à bien y regarder, nous donne les éléments d’une critique acerbe de la société
contemporaine dans laquelle évoluait l’auteur. « À des jours meilleurs », se disent ainsi les bannis
avant que leurs routes se séparent dans l’acte I. Ce mince espoir en un temps de prospérité et de
bonheur est aussi présent dans le dernier acte, qui confirme son rôle fondamental dans cette
intention positive, onirique : « Si je suis un rêveur, laissez-moi ce rêve-là. (Philippe) », ou encore
« sois tranquille, j’ai meilleure espérance ». En effet, on retrouve cette idée de fatalité, de luxure et
de décadence, loin de l’Âge d’Or qu’avaient apparemment connu certains habitants de Florence :
« Il y en a qui voulaient rétablir le conseil, et élire librement un gonfalonier, comme jadis », signale
le marchand en scène V. Cet acte éclaire donc l’état léthargique, mélancolique des citoyens, et
rappelle, dans une moindre mesure, le sommeil délicat, enfantin, de Lorenzo.
Enfin, il est possible de déceler de nombreux éléments autobiographiques que l’auteur a glissés
dans les interstices de ses lignes : disséminés au cœur de cet acte qui rappelle fortement son
adolescence, ils soulignent l’importance de ce dernier. Par exemple, lorsque Musset était scolarisé
au collège royal Henri IV, il obtint le premier prix de dissertation latine et le second prix de la
même discipline au Concours général. Il mentionna également, dans l’une de ses lettres à son ami
Paul Foucher, beau-frère de Victor Hugo, sa « passion pour les lettres latines ». Ce goût pour la
culture antique, nous le retrouvons dans le passage en latin, scène I de l’acte V (« Primo avulso […]
virga metallo. »), qui n’est autre qu’une citation de l’Enéide de Virgile (vers 143-47, chant VI). Le
personnage de Lorenzo se mêle au Musset adolescent, hésitant entre s’engager politiquement et
baisser les bras face à un monde impossible à sauver… Comme dans le poème La Nuit de
Décembre, où « cet étranger vêtu de noir » semble être le double de l’auteur, le personnage
éponyme de son Lorenzaccio se remémore son enfance qui le suit, semblable à une ombre, toute sa
vie durant. Lorenzo est tout particulièrement une incarnation de Musset, lequel se figurait
d’ordinaire en deux personnages fraternels et contradictoires. Le personnage est en grande partie la
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voix même de son créateur dans son apport au romantisme poétique, par sa capacité à maintenir le
lyrisme sentimental dans l’ironie qui devrait le désamorcer, et le renforce pour finir. Les thèmes de
la dépersonnalisation, de la mélancolie du double et surtout de la solitude transpirent à travers l’acte
V, en forme de signature, qui s’appose comme l’un des éclats du portrait d’Alfred de Musset sur le
drame. Pour finir, on peut noter l’importance du vote blanc de Palla Ruccellaï ; « il ne faut plus à la
république ni princes, ni ducs, ni seigneurs : voici mon vote », qui dissimule à la censure
omniprésente l’avis de Musset quant à la vraie couleur de l’idéal républicain. Cet acte final porte en
lui les ferments de La Confession d’un enfant du siècle, son célèbre et unique roman publié en
1836, analyse lucide d’une maladie morale, le « mal du siècle », ou le désarroi d’une jeunesse
française débauchée au lendemain de la Révolution et de l’Empire. « Il est doux de se croire
malheureux, quand on n’est que vide et ennuyé », écrira-t-il dans ce roman.
Musset communique avec son époque grâce à son incommensurable talent, mais va parfois jusqu’à
faire mentir la teneur « historique » de la pièce en commettant quelques erreurs. Mais peut-être futce volontaire ? Une adaptation lyrique vers un contexte plus moderne a pu rendre un allégement de
la complexité présente chez Varchi obligatoire…
L’acte V trouve plutôt ses limites dans le fait qu’un message trop fort peut nuire à cette tentative de
définition sociale. Cet acte fut d’ailleurs censuré sous la Monarchie de Juillet et le Second Empire,
puis régulièrement supprimé des représentations scéniques et des rééditions du drame.
D’abord, il faut signaler que cet acte fut souvent supprimé, partiellement ou totalement, pour
diverses raisons au rang desquelles figurent la faible durée de ses scènes et la grande diversité de
personnages sur scène, mais également la présence d’erreurs et de passages très controversés. En
tous les cas, cette partie de l’œuvre a généré de nombreuses discussions et déclenché les tornades
opaques de quelques débats houleux, plus que n’importe quel autre acte. Là se trouve donc l’un des
enjeux majeurs de la postérité du Lorenzaccio de De Musset, de cette pièce qui se nourrit des avis
de lecteurs, de spectateurs et de critiques. La scène VI de ce dernier acte représente une émeute des
étudiants contre les soldats allemands, la force d'occupation de Charles Quint, au nom du droit des
Florentins à disposer d'eux-mêmes et à participer à l'élection de leurs propres dirigeants :
« Citoyens, venez ici ; on méconnaît vos droits, on insulte le peuple » ; et « nous voulons mourir
pour nos droits ». Elle évoque la seule résistance qu'ont opposée quelques Florentins au tour de
passe-passe imposé par le cardinal Cibo et accepté par les Huit à la scène 1 de l'acte V, et suggère
qu'il n'y a rien de changé à Florence après le meurtre du duc : seuls quelques individus résistent,
tandis que la masse se réjouit, ou subit en se résignant. La symbolique d’arrêt de tout mouvement,
l’inertie, est donc un motif qui réapparaît très souvent dans la fin de la pièce. La dernière réplique
de la scène VI : « Venge-moi, Ruberto, et console ma mère », est une invitation à la vengeance qui
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suggère que le processus de la violence n'est pas terminé et qu'il y aura d'autres tentatives à l'avenir.
Cette scène repose pourtant sur un contresens de Musset lisant Varchi : « Avvenne, che 'l lunedì
sera a due [...] fuora, fuora i soldati forestieri ! […] palle, palle ! […] con loro andarono molti della
città. (dans la Storia Fiorentina d’origine, tome V) ». Lorsqu'il lit : « palle, palle ! », Musset croit à
tort qu'il s'agit de boules, c'est-à-dire d'instruments de vote comme en France. Or il s'agit du motif
héraldique des besants (ou tourteaux) sur les armoiries des Médicis : loin d'en appeler à un vote
démocratique chez Varchi, les Florentins lancent au contraire un cri de ralliement, un plébiscite, à la
même famille régnante. Mais ce contresens de Musset s'explique dans la mesure où, depuis 1830, la
révolution est confisquée par la bourgeoisie française. La France a en effet connu des épisodes
insurrectionnels, en particulier celui des canuts à Lyon en 1831 et celui de Saint-Merri à Paris en
juin 1832 : dans les deux cas, l'insurrection a été écrasée.
LA PREFACE de Cromwell
(nous la parcourons rapidement, pour voir les éléments qu’en reprend De Musset)
Ecrite en réalité après coup, donc en effet postface du drame historique Cromwell, l’intention de
Victor Hugo était celle de faire de ces réflexions un manifeste et étendre ses méditations
personnelles jusqu’à une théorie complète du drame.
Les sources sont diverses et hétéroclites:
– le point de départ, c’est-à-dire l’idée que la littérature est l’expression de la société et reflète
un certain état de l’évolution sociale arrive à Hugo par l’intermédiaire de Madame de Stael
– ainsi que la théorie des trois âges de la littérature, qui lui arrive de l’Allemagne via Madame
de Stael (antiquité = enfance du monde= ode; âge de l’or= début de la vie sociale, et des
guerres aussi= épopée; modernité=religion chrétienne= drame);
– l’ìdée du rôle de la religion chrétienne dans la création d’une sensibilité, d’une mélancolie
moderne sort directement du Génie du christianisme de Chateaubriand .
Si tratta dunque della Prefazione al dramma storico Cromwell di Victor Hugo, del 1827.
L’arte moderna per Hugo è infatti contraddistinta da una forma nuova di poesia che nasce da
una società nuova poiché caratterizzata da una religione nuova, cioè il Cristianesimo, rispetto al
politeismo degli antichi. Nell’ambito quindi della polemica fra Classicismo e Romanticismo, Hugo
sottolinea come la concezione cristiana del mondo abbia comportato un radicale mutamento di
prospettiva in relazione alla percezione della realtà e dell’arte che la esprime rispetto al
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mondo antico, per lo meno come esso era interpretato dalla prospettiva classicistica.
Se infatti, dice l’autore, la musa antica studiava la natura sotto un unico aspetto escludendo dalla
rappresentazione artistica tutto ciò che non si accordava con un tipo determinato di bello, cioè il
bello ideale, il Cristianesimo ha invece condotto la poesia alla verità, poiché rivelando la
duplice natura dell’uomo, composta di corpo e spirito, ha consentito di mettere in luce la
mescolanza di elementi contrastanti che caratterizza il reale a tutti i livelli. La musa moderna
constata dunque la compresenza nel reale di bello e brutto, di deforme e aggraziato, di male e bene,
di ombra e luce, e la rappresenta nell’espressione artistica senza selezionare arbitrariamente
alcuni aspetti del reale a scapito di altri. L’arte moderna si pone così in un atteggiamento di
adesione alla complessità del reale caratterizzato da quel particolare tipo di mescolanza di livelli
contrastanti costituita dal grottesco. Il grottesco risulta così essere la differenza specifica
dell’arte moderna rispetto a quella antica, ciò che consente la rappresentazione nell’arte della
totalità molteplice degli aspetti della natura, senza tuttavia confondere il bello e il brutto, il male e il
bene, la bestia e l’intelletto, il grottesco e il sublime. Forma tipica per la rappresentazione di questo
tipo di grottesco risulta così il genere della commedia, in quanto definito proprio dalla possibilità di
rappresentare la mescolanza polifonica del reale e la compresenza multiforme dei suoi diversi
livelli. Conseguentemente i canoni del bello classicistico, costituito dalla rappresentazione
selettiva solo di ciò che è nobile e sublime e dal principio della separazione degli stili, in virtù
della quale il tragico e il comico non possono essere mescolati fra loro, devono essere rifiutati
perché responsabili di una rappresentazione incompleta, e dunque falsata, della realtà.
La prospettiva cristiana in questo modo consente di riconoscere e rappresentare la
complessità e le molteplici e simultanee sfaccettature del mondo, poiché vede in questo dato non
un limite, ma una perfezione dell’esistenza le cui contraddizioni si fanno allora portatrici di un
senso profondo in quanto espressione di un assoluto metafisico i cui segni si riflettono nel
quotidiano anche, apparentemente, più banale ed umile.
Schéma du texte
Apparemment la Préface a un schéma très simple.
L’essai débute par une analyse de l’évolution de la littérature en relation avec l’évolution de
l’histoire, aboutissant à une analyse de la sensibilité moderne;
à partir de là, la transition est aisée vers le grotesque comme l’élément nouveau des temps
modernes dans le domaine de l’art (suit une très longue analyse du grotesque considéré sous ses
aspects divers et dans son rôle esthétique);
OR, le grotesque fait partie intégrante du drame dont il est un des éléments essentiels;
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et le drame est la forme littéraire des temps modernes;
d’où la nécessité du mélange des genres, mélange interdit par la Classicisme;
d’où mise en question de tout le système dramatique classique;
conclusion: exaltation de la liberté du créateur
MAIS, sorte de retournement:
l’art n’est pas la nature, liberté ne veut pas dire abandon de la rigueur créatrice et Hugo se livre
donc à une sorte d’analyse des contraintes fécondes, c’est-à-dire:
concentration (tout ce qui est dans la nature est dans l’art mais les deux domaines sont parfaitement
distincts, le drame est bien le miroir du monde mais un miroir de concentration.
Encore sur LORENZACCIO
Lorenzaccio, le chef d'oeuvre de Musset, seule pièce française comparable aux oeuvres
shakespeariennes, projette dans le cadre historique de la Florence du temps des Médicis le
tragique de la Révolution de 1830 en France. A travers les Médicis, Musset critique les
Bourbons et les Orléans et ceux qui les soutiennent. La bourgeoisie et le peuple interviennent
dans la pièce, et leur présence n'est pas simplement un décor, mais une réalité vivante qui accuse
des tendences démocratiques et sociologiques. Lorenzaccio, réprésente en fait, dans la
dramaturgie française, bien plus qu'un drame romantique à la manière de Victor Hugo. Bien
sûr, il ne manquent pas à cette pièce les qualités de couleur locale dans le temps et dans l'espace
chères à Hugo, ni les qualités de la langue, qui a droit d' "oser, hasarder, créer, inventer son
style" (Préface de Cromwell). Tout en étant un drame en prose, l'absence de la rime ne nuit
absolument pas à la valeur intrinsique de la pièce et d’ailleurs le même Hugo, dans la "Préface de
Cromwell", plaidait "la liberté de l'art contre le despotisme des systèmes, des codes et des
règles" au profit de son plein épanouissement. Mais Lorenzaccio est, surtout et avant toute
chose, un drame psychologique, dans la mesure où cette pièce nous offre le témoignage le plus
vivant de Musset sur lui-même et sur la condition humaine. Le drame individuel et le drame
historique social et politique se fondent donc et s'entremêlent jusq'à aboutir au meurtre
d'Alexandre de Médicis, seul moyen par lequel Lorenzo-Musset peut s'accepter lui-même et se
réaliser devant le monde et devant l'histoire.
— Le drame romantique selon Victor Hugo et la technique de Musset dans Lorenzaccio
Dans la Préface de Cromwell, Victor Hugo dit que le drame doit être "un miroir de
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concentration" qui, tout en refléchissant la nature, nous donne de cette même nature une
image colorée et frappante touchée par "la baguette magique de l'art". Cet art accorde au
dramaturge le droit de restaurer la réalité à l'aide de l'imagination, et ".. . revêt le tout d'une
forme poétique et naturelle à la fois, et lui donne cette vie de vérité et de saillie qui enfante
l'illusion, ce prestige de réalité qui passione le spectateur, et le poète le premier... " (Préface de
Cromwell). Ce sont bien là les procédés qu'emploie Musset dans Lorenzaccio. Il n'hésite pas à
"retoucher" l'histoire pour donner à son oeuvre plus de relief et de vie. C'est dans cet objectif,
par exemple, qu'il avance la mort de Lorenzo de quelques années, parce qu'après le meurtre
Lorenzo, double désaffecté de lui-même, n'est plus qu'un fantôme, une ombre, épuisé dans
son acte et par son acte et qui seul la mort peut pleinement racheter. Cependant, Musset
refuse une construction héroïque, et ne finit pas la pièce par la mort de Lorenzo, qui ne se
passe même par sur la scène, et avec le discours de Côme, il nous donne d'autres perspectives,
en construisant une pièce à plusieurs plans, qui montre les raisons qui ont rendue nulle la
mort d'Alexandre et qui ont été les mêmes qui ont fait échouer la Révolution de 1830.
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— L'opposition du sublime et du grotesque
Il y a chez Musset le refus du héros. Ce refus est très net dans le personnage de Lorenzo à la
fois héros et crapule, lui-même sublime et grotesque. Le nihilisme qui le possède est l'essence
même du tragique de la pièce. Lorenzo sait que le meurtre d'Alexandre sera inutile et pourtant
il l'accomplit et aux paroles de Philippe qui lui demande pourquoi il n'était pas sorti avec la
tête d'Alexandre dans ses mains il répond avec mépris: "J'ai laissé le cerf aux chiens qu'ils
fassent eux-mêmes la curée". La réponse de Lorenzo marque non seulement le refus d'une attitude
mélodramatique et "théâtrale" mais, surtout, la conscience de 1' inutilité de son acte. Dans ce
moment il est vraiment tragique, exactement à cause de ce refus du dramatique à tout prix.
Pendant toute la scène IX de l'acte IV, dans le long dialogue de Lorenzo avec lui-même,
Musset a eu le soin d'eviter à son héros la théâtralité des tirades du théâtre classique, dans
lesquelles le héros expliquait consciencieusement aux spectateus la valeur de 1' acte dont ils allaient
être témoins. Par des touches vraiment magistrales, des pensées grotesques viennent à l'esprit
de Lorenzo en même temps que des idées tout à fait pures et sublimes.
— Lorenzaccio pièce grave et philosophique.
En donnant au problème de l'ennui une portée métaphysique, Musset, dans Lorenzaccio nous
met en contact avec une philosophie paradoxale. En même temps que, par le déroulement de la
pièce, Lorenzo refuse la morale des intentions et nous montre que l'acte est irréversible et que
lui seul définit l'homme, il plonge dans un nihilisme le plus complet er le plus tragique: "Je suis
plus vieux que le bisaïeul de Saturne...". Or, si l'acte existe il ne peut pas être nié. Cependant, en
reconnaissant l'inutilité du meurtre d'Alexandre, Lorenzo arrive à le nier, du moins dans un
plan métaphysique. Sur cette philosophie paradoxale Musset a construit la pièce et d'elle se
dégage tout le tragique de son héros.
— Lorenzo porte-parole de Musset.
Lorenzo vit en Florence une situation historique et sociale analogue à celle de Musset dans son
siècle. Lui, comme Musset, veut à la fois venger son peuple, le délivrer en se délivrant soimême, agir contre les oppresseurs et les bourreaux, retrouver sa pureté et rendre la liberté au
monde. Lui, comme Musset, s'aperçoit cependant de l'impossibilité de la réalisation de ce rêve
et de l'absence totale de communication avec les hommes. C'est dans cette mesure que Lorenzo
devient le porte-parole de Musset et celui de l'esprit de son siècle dans tout son péssimisme et son
desespoir. Le désenchantement de Lorenzo est celui de Musset.
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— Lorenzo est le double de Musset
Dans cette optique tragique de l'ennui, Lorenzo-Musset sont un seul personnage et, dans cette
pièce, nous retrouvons, plus déchirant que jamais, ce thème du double si fréquent chez
Musset. C'est le thème des masques, présent dans presque tout son theatre. Lorenzo était pur;
mais pour accomplir sa mission il fallait devenir Lorenzaccio. Le mal, enfui en lui, le
corrompt et pourtant il n'est pas mauvais. C'est l'eternel conflit entre l'apparence et le realité
profonde.
Sur la scène, avec le meurtre d'Alexandre, il essaie d'arracher le masque que lui, MussetLorenzo, porte tragiquement, mais, hélas! il est trop tard.
Musset, lui aussi, avait le coeur malade, désillusioné, et dans Lorenzaccio, dans la figure
unique de Lorenzo, il épuise son contenu, son thème, son problème fondamental. La nostalgie
de l'enfance, si profonde chez Musset, et très fréquente dans son théâtre, apparait aussi chez
Lorenzo. La même impossibilité qu'à Lorenzaccio de revenir au Lorenzo d'autrefois, Musset
l’éprouve dans l'impossibilité de retrouver son ancienne purété.
Lorenzaccio est en réalité, et par plus d'un aspect, le drame intérieur de Musset.
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JULES ROMAINS
(1885-1972)
Romancier, auteur dramatique, poète, essayiste
Biographie
Né à Saint-Julien-en-Chapteuil (Haute-Loire), le 26 août 1885. Fils d’instituteurs, Jules Romains
fut élevé dans le respect de l’idéal laïque et rationaliste de la IIIe République. Après des études
secondaires au lycée Condorcet, il fut reçu à l’École normale supérieure en 1906, et obtint
l’agrégation de philosophie en 1909. Ayant commencé sa carrière d’enseignant, il fut mobilisé en
1914 dans le service auxiliaire. Après avoir publié ses premiers poèmes dès l’âge de dix-huit ans
(L’Ame des hommes, 1904), il devait, à l’issue de la Première Guerre mondiale, renoncer à sa
carrière dans l’enseignement pour se consacrer exclusivement à la littérature. Son œuvre allait être
marquée par une idée maîtresse, conçue lors de ses années de jeunesse : celle de l’unanimisme,
expression de l’âme collective d’un groupe social. Cette théorie nourrit son recueil de poèmes, La
Vie unanime (1908), et ses romans : Mort de quelqu’un (1911) et Les Copains (1913). Elle trouvera
son expression accomplie dans la somme que constituent Les Hommes de bonne volonté, vingt-sept
volumes publiés entre 1932 et 1946, vaste fresque dans laquelle, à travers le récit de destins croisés,
Jules Romains brosse un tableau de l’évolution de la société moderne entre 1908 et 1933. Mais ce
fut d’abord au théâtre que Jules Romains acquit sa notoriété, dès après la Grande Guerre,
notamment avec Knock ou le Triomphe de la médecine, créé par Louis Jouvet en 1923. Devaient
suivre Amédée ou les Messieurs en rang (1923), Le Mariage de monsieur Le Trouhadec (1926), Le
Déjeuner marocain (1926), Démétrios (1926), Jean le Maufranc (1926), Le Dictateur, (1926), Boën
ou la Possession des biens (1930), etc. À la fin des années Vingt, Jules Romains était avec
Pirandello et George Bernard Shaw l’un des trois dramaturges de son temps les plus joués dans le
monde. Engagé dans la vie politique, Jules Romains fut proche dans l’entre-deux-guerres du parti
radical-socialiste, et se lia avec son chef, Édouard Daladier. Ayant soutenu le Front populaire, il
milita par pacifisme pour l’amitié franco-allemande, et ce, malgré son antifascisme, après
l’accession d’Hitler au pouvoir. Président du Pen club international de 1936 à 1941, Jules
Romains devait s’exiler pendant la Seconde Guerre mondiale aux États-Unis et au Mexique. En
1945, poussé par le général de Gaulle, soucieux de rénover l’Académie française, et encouragé par
son ami Georges Duhamel, à l’époque secrétaire perpétuel, Jules Romains, qui s’apprêtait à quitter
une nouvelle fois la France pour le Mexique, rédigea pour poser sa candidature une lettre dans
laquelle la mention du fauteuil restait en blanc. Il fut élu en son absence le 4 avril 1946, par 13
voix au premier tour, à la place laissée vacante par la destitution d’Abel Bonnard, découlant de sa
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condamnation en 1945 pour collaboration avec l’ennemi. C’est Georges Duhamel qui le reçut, le 7
novembre 1946. Il ne rendit pas hommage à son prédécesseur. Son orientation politique le portait
désormais vers un certain conservatisme, qui s’exprima dans les chroniques hebdomadaires qu’il
donna à L’Aurore de 1953 à 1971 ; partisan de l’Algérie française, il mena le cartel des non contre
de Gaulle au référendum de 1962. Mort le 14 août 1972.
KNOCK de Jules Romains
En produisant Knock en 1923, Jules Romains s'inscrit dans une tradition littéraire bien française : la
satire des médecins. Depuis le moyen-âge avec Le Vilain Mire, en passant par Le Médecin malgré
lui ou Le Malade imaginaire de Molière, nombre d'auteurs ont stigmatisé l'ignorance, le
pédantisme, le jargon des docteurs et surtout leur inefficacité quand il ne s'agissait pas du danger
qu'il faisait courir à leurs malades. Cependant, en créant le personnage du Docteur Knock, Jules
Romains a tant appuyé le trait, que sa farce en trois actes dépasse la simple pochade tympanisant la
médecine.
L’argument de la pièce
Le Docteur Parpalaid, qui, pendant les vingt-cinq ans de son séjour à Saint-Maurice, n'a pas cru à
la médecine ni fait fortune, vient d’escroquer le Docteur Knock en lui vendant un cabinet sans
clientèle (acte I). Ce dernier personnage, joignant la ferveur du missionnaire à l'énergie de l'homme
d'action, spécule sur la peur de la maladie et révèle le besoin de se soigner à la population du canton
en commençant par une consultation gratuite le jour du marché (acte II). Très vite on accourt pour
se faire examiner. Le Docteur Knock qui a su fédérer les intérêts du pharmacien, de l'instituteur, de
l'hôtelière, a assuré la fortune de ses alliés, mais sa vraie passion (du moins à ce qu’il paraît) c'est la
volonté de puissance. Au bout de trois mois, il peut montrer au Docteur Parpalaid un paysage "tout
imprégné de médecine" sur lequel il règne sans partage. Le Docteur Parpalaid finit par le consulter
pour lui-même (acte III). Ainsi la minable escroquerie de ce petit docteur de campagne met-elle en
valeur les talents de Knock qui, rapidement, a su assurer "le triomphe de la médecine".
De la médecine considérée comme un commerce
C'est une originalité du personnage. Par rapport à ses devanciers de la tradition littéraire, le
Docteur Knock se révèle un homme d'affaires avisé. Il a d'ailleurs fait ses premières armes dans le
négoce des cravates et de l'arachide. Désormais la maladie sera son gagne-pain : "J'estime que,
malgré toutes les tentations contraires, nous devons travailler à la conservation du malade". Ce
propos à double entente signifie moins que Knock empêchera ses patients de mourir, et plutôt qu'il
entretiendra leur mal, source de ses revenus.
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Désireux de faire fortune, Knock s'y prend avec habileté. Il nous expose le très moderne concept
du marchéage (marketing) qui consiste à créer le besoin avant de proposer le produit apte à le
satisfaire. "Ce que je veux, avant tout, c'est que les gens se soignent". Aussi n'aura-t-il de cesse à les
persuader de la maladie en général et de leur maladie en particulier quitte à adapter ensuite le
traitement aux revenus du patient. Ensuite Knock affiche un sens de la publicité non moins sûr, il
saura parfaitement utiliser les services du tambour et pour ses consultations gratuites.
Ajoutons sa diplomatie qui le poussera par exemple à demander des conseils au Docteur Parpalaid
qu'il considère comme un escroc un peu nigaud, et surtout sa psychologie qui lui permet de deviner
très vite les faiblesses de ses patients grâce auxquelles il aura prise sur eux. Enfin il a compris que
sa réussite ne peut être que le travail d'un groupe où chacun œuvre en fonction de ses capacités :
l'instituteur, le pharmacien, l'hôtelière. C'est pourquoi d'ailleurs Knock s'arrangera pour qu'ils ne
soient pas contaminés par la peur de la maladie qui sape le canton : son affaire ne saurait prospérer
avec des collaborateurs malades.
Pourtant, dès que Knock commence à encaisser de gros revenus, l'argent ne l'intéresse plus ; de son
propre aveu, il travaille pour échapper à l'ennui, mais surtout pour exercer son pouvoir sur autrui.
De la médecine considérée comme un instrument de puissance
Knock n'est sûrement pas ce que nous appellerions un bon médecin. Sa culture médicale s'est
constituée au contact des notices accompagnant les médicaments. Pourtant il connaît le succès grâce
à l'emprise de sa personnalité sur ses patients. À vrai dire c'est d’abord un grand comédien qui a le
don de la mise en scène. Il a su pénétrer "le style de la profession". D'abord on ne doit s'adresser à
lui qu'avec la dénomination de Docteur tant il connaît la magie des titres sur l'esprit du vulgaire.
Comme ses prédécesseurs moqués par Molière, il utilise le jargon, illustre ses démonstrations de
schémas, se sert du pouvoir émotionnel et inquiétant des photos, s'attache à autosuggestionner ses
victimes et à les rendre réellement souffrantes par un traitement qui les affaiblira. Fin psychologue,
il a tôt fait de découvrir les petits travers de ses patients ou de ses associés et il les exploite sans
vergogne : altruisme et orgueil intellectuel de l'instituteur, insatisfaction du pharmacien, vanité du
tambour... Il n'hésite pas à briser ceux qui voudraient lui tenir tête : les deux amis hilares ou
Raffalens. Il joue sur les engouements incontrôlés, la force coercitive du groupe. Il entend s'appuyer
sur l'autorité de la science ; c'est pourquoi il s'inquiète de savoir si le canton est agité par le
spiritisme, la magie ou d'une manière plus générale par des comportements irrationnels ce qui
constituerait un milieu peu propice à la diffusion de sa théorie. Même il n'hésite pas à fabriquer de
toutes pièces une citation pour pouvoir s'appuyer indûment sur le prestige du grand Claude Bernard
: « les gens bien portants sont des malades qui s'ignorent ».
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Conclusion
Avec Knock, Jules Romains dénonce le viol des consciences, l'asservissement des foules à l'âge
scientifique et commercial, lorsqu'un être sans scrupule spécule sur nos peurs ataviques ou joue de
nos travers.
Mais ce qui est encore plus inquiétant, c'est que Jules Romains ne nous a pas dépeint
un escroc de génie, mais un être persuadé de sa mission sociale, l'apôtre d'une nouvelle religion, un
filou visionnaire qui voudrait « mettre toute une population au lit pour voir, pour voir ». En fin de
compte, ce qui passionne Knock, c'est son emprise sur les individus par la science ou par toute autre
voie : « Il n'y a de vrai décidément que la médecine, peut-être aussi la politique, la finance et le
sacerdoce que je n'ai pas encore essayés ».
Vediamo insieme il film Knock del 1951.
Ricapitoliamo sul film e leggiamo commentando vari passi della pièce.
Texte sur Louis Jouvet, principal interprête de Knock:
LOUIS JOUVET
(1887-1951)
Jeunesse et études
Louis Jouvet est né à Crozon, dans le Finistère, le 24 décembre 1887, dans une famille
profondément catholique. Son père, briviste (di Brive la Gaillarde, dans le Limousin, département
du Corrèze, centre), est conducteur de travaux publics, sa mère Eugénie est ardennaise (Champagne
Ardennes, nord).
A l'âge de 2 ans, le petit Louis est confié à sa grand-mère Marie. Il va vivre en Ardennes, à
Belleville-sur-Bar, jusqu'en 1894. Louis aime et admire sa grand-mère, cette époque de sa vie
restera pour lui un moment privilégié.
A l'école, Louis est un enfant calme, réservé. Il travaille, il rêve. Son professeur voudrait bien lui
faire perdre le défaut de prononciation qui l'afflige. Il chuinte et hésite en parlant.
En 1898, les Jouvet placent leurs trois fils pensionnaires chez les Lazaristes à Lyon. C'est un collège
austère, sombre, où la discipline est rigoureuse. Jouvet, qui passe ses rares moments libres à lire en
cachette les ouvrages procrits par le collège, y est considéré comme un jeune homme studieux,
travailleur et infiniment bon.
En 1901, la tragédie frappe la famille Jouvet. Louis Jouvet père est écrasé sous un rocher alors qu'il
supervisait le creusement d'un tunnel. Eugénie amène sa famille vivre avec elle chez son frère qui
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est pharmacien à Rethel (Ardennes). Bientôt, Louis devra choisir une profession, et toute sa famille
entend bien qu'il deviendra lui aussi pharmacien, comme son oncle. En attendant, il poursuit ses
études au Collège Notre-Dame, où le chanoine Morigny, passionné de théâtre, anime avec
intransigeance la troupe du collège. Louis bientôt néglige ses études tellement il est préoccupé par
cette nouvelle passion, et il voudrait bien en faire sa carrière. Mais sa famille s'y oppose
farouchement. Pour qu'on lui fiche la paix, il se pliera à leur désir, tout en ayant la ferme intention
de consacrer tous ses temps libres à son amour pour le théâtre. Après un stage à Rethel dans la
pharmacie de son oncle, il peut enfin se rendre, en 1904, à Paris pour poursuivre ses études, et sa
passion...
Les débuts
Une fois à Paris, si Louis Jouvet consacre ses journées à la science, ses soirées il les passe au
théâtre. Il se présente trois fois aux examens du Conservatoire d'Art dramatique dans des scènes de
l'Ecole des femmes de Molière, et est recalé chaque fois. On lui reproche sa mauvaise élocution et
son apparence physique. Jouvet est meurtri par ses échecs, néanmoins il obtient d'être accepté à titre
d'auditeur dans la classe de Leloir, en 1908. C'est là qu'il apprendra à mieux contrôler sa diction.
Son temps est partagé entre les stages en pharmacie et le théâtre amateur au sein du Groupe
d'Action d'art. Jouvet participe à des représentations théâtrales, des récitals de poésie, mais prend
aussi le temps de suivre les cours de l'Ecole nationale des Arts décoratifs.
Puis il fait une rencontre privilégiée, celle de Léon Noël qu'il approche après un spectacle et dont il
suivra les cours d'art dramatique jusqu'en 1910. Léon Noël ne ménage pas son élève, mais Jouvet
l'aime et le respecte. Il lui devra beaucoup.
Tout en continuant de courir les cachets (dare lezioni private) et de faire un peu de tournée, il trouve
le temps de tomber amoureux de sa voisine d'en-face, Else Collin. Else est une jeune Danoise qui
travaille comme garde d'enfants chez Jacques Copeau metteur en scène et dramaturge, à qui elle
parle souvent de Louis. Copeau caresse un projet de théâtre, et il en parle à Louis Jouvet, après
l'avoir vu jouer au Théâtre du Château-d'Eau, à l'insistance d'Else. Une amitié naît instantanément
entre ces deux hommes qui partagent la même passion.
1912: Louis et Else se rendent à Copenhague pour se marier. A leur retour en 1913, Louis obtient
enfin son diplôme de pharmacie et se joint, avec Charles Dullin, à la troupe de Jacques Copeau pour
la naissance du Théâtre du Vieux-Colombier.
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Le Vieux-Colombier
Tout l'été, ce sera entraînement physique, répétitions, lectures, en vue de l'ouverture du nouveau
théâtre le 15 octobre 1913. Jouvet fait un peu tout dans ce théâtre; acteur, machiniste, éclairagiste
(datore luci); il apprend, et plus ouvert et disponible que Copeau, il devient bientôt l'âme du VieuxColombier. Pour un temps, il est davantage reconnu pour ses éclairages que pour son jeu. (Il conçoit
même un nouveau type de lumière qui porte son nom.) Mais les critiques et le public remarquent
bientôt le talent de Jouvet "l'acteur" dans des productions mémorables de La jalousie du barbouillé,
de Molière et de La Nuit des Rois de Shakespeare.
La guerre 14-18
1914: La guerre éclate. Jouvet, qui est non-mobilisable, s'engage volontairement. Il est pharmacien,
on aura besoin de lui. Travaillant comme infirmier auprès des blessés et des mourants à la Somme,
il est absent lors de la naissance de sa fille. Il continue néanmoins de penser au théâtre et
d'entretenir une correspondance avec Copeau à ce sujet.
Transféré à l'Oise, il lit, récite des vers aux mourants qu'il soigne. Et il prie. (Giraudoux s'inspirera
des prières pour les morts de Jouvet pour une scène de La guerre de Troie n'aura pas lieu, 1935.)
Après une période au front, en 1916, où il prendra part à l'offensive de la Somme, sa santé et son
moral périclitent. Diagnostic: maladie de coeur. Finalement démobilisé, Jouvet reste marqué par son
expérience de guerre. Il est souvent agressif, désagréable, il a du mal à dormir...
New York
Mais de nouveaux horizons s'ouvrent devant lui, puisque Jacques Copeau, après avoir donné des
conférences aux Etats-Unis, a décidé d'y installer sa troupe. Ils iront donner deux saisons à New
York. Jouvet, parti le premier pour préparer la scène du Garrick Theater, laisse sa famille, et son
dernier-né, en France. Ils le rejoindront l'année suivante.
La troupe s'installe, menée à la baguette par un Jouvet maniaque qui ne tolère aucune incartade et
multiplie les amendes et les notes de service pour faire régner la discipline. Malheureusement le
Vieux-Colombier n'obtient pas le succès escompté, et bientôt Copeau opère des changements au
répertoire qui ne plaisent guère à Jouvet, ni à Charles Dullin, qui a lui aussi rejoint New York en
1918. Ils reprochent à Copeau d'avoir changé la mission du théâtre, et d'avoir sacrifié aux raisons
économiques. Les relations sont de plus en plus tendues entre Copeau et Jouvet, et bientôt ils ne se
parlent plus.
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Après deux années souvent difficiles, c'est le retour en France. Dullin a déjà été congédié. Jouvet,
trop indispensable, est toujours là. Le Vieux-Colombier rouvre ses portes à Paris en 1920. Le rôle
de Jouvet y prend de plus en plus d'importance, mais l'entente avec Copeau sur les questions
artistiques est devenue impossible et il veut partir. C'est pourquoi il accepte en 1922 la direction
technique de la Comédie des Champs-Elysées, que lui propose Jacques Hébertot.
La Comédie des Champs-Elysées
Il entreprend aussitôt la réfection du théâtre. Il monte d'abord Monsieur Le Trouhadec saisi par la
débauche de Jules Romains, qui obtient un grand succès. Puis en 1923, c'est Knock, ou le triomphe
de la médecine du même auteur. Jouvet est angoissé à l'approche de la première. Avec son
inquiétude caractéristique, il trouve la pièce trop drôle, pas assez drôle, ou trop courte, pour avoir
du succès. Romains raconte, "Jouvet me disait souvent de cet air préoccupé, plein d'inquiétude
contagieuse qui était le sien: 'Ils ne vont pas rigoler une minute. Ils vont trouver ça tellement dur,
tellement noir.'" La pièce eut un succès retentissant, qui ne se démentira pas au long des années et
des reprises successives.
En 1924, Jouvet est maintenant seul aux commandes de son théâtre et peut le gérer à sa guise.
Bien qu'il multiplie les créations, Jouvet a de la difficulté à obtenir des succès, et ses coffres se
vident. Heureusement, à chaque fois, il peut remettre à l'affiche sa pièce magique, Knock, pour
renflouer les finances de son théâtre.
Pourtant, à la suite d'échecs successifs (Marlborough de Marcel Achard, Le Dictateur de Jules
Romains...), les finances du théâtre sont au plus bas. Jouvet couche sur place de peur d'être expulsé
de son théâtre. Il engage Valentin Marquetty, qui l'aidera à rendre la Comédie des Champs-Elysées
plus rentable par des moyens qui ne poseront pas d'entraves à ses choix artistiques. Aménagement
du foyer, exposition, librairie, création de la revue-programme Entr'acte (1927-1934), sous-location
du théàtre, permettront d'assainir les finances. C'est à la même époque, en juillet 1927, devant
l'indifférence des médias et l'envahissement du théâtre commercial et du cinéma, que quatre théâtres
signent un accord visant à protéger leurs intérêts communs, c'est le Cartel des quatre qui réunit
Louis Jouvet, Charles Dullin, Georges Pitoëff et Gaston Baty.
Les lignes directrices du théâtre de Louis Jouvet reposent sur la primauté du texte. Dans la
philosophie artistique de Jouvet, seule la pièce compte: le texte, le public. L'acteur ne compte que
comme intermédiaire, comme exécutant, au service de l'auteur et du public. Ses problèmes, ses états
d'âme, Jouvet n'en a que faire. Il est dur, intransigeant avec sa troupe, mais s'il les engueule, c'est
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par amour du travail, pas pour le plaisir... D'ailleurs, il loge à la même enseigne. Jouvet s'occupe
plus du théåtre que de lui-même, et toujours il place la grandeur du théâtre avant sa gloire
personnelle.
Jean Giraudoux
1928: C'est une rencontre qui allait tout changer dans sa carrière et dans sa vie. Jean Giraudoux.
Giraudoux vient de terminer la pièce tirée de son roman Siegfried et le Limousin et il la présente à
Jouvet. Seul problème, telle quelle la pièce durerait 8 heures! Jouvet annote, souligne, questionne,
quoique toujours respectueux du texte, et ensemble ils façonneront l'oeuvre finale. La pièce obtient
un énorme succès et Jouvet demande à Giraudoux de lui réserver la prochaine qu'il écrira.
Le cinéma parlant, qui vient de faire son apparition, fait désormais fureur et Louis Jouvet est sans
cesse courtisé par les producteurs, mais toujours il refuse sous prétexte qu'il n'a pas le temps. Ses
responsabilités trop nombreuses au théâtre l'accaparent.
Giraudoux prépare sa nouvelle pièce, Amphytrion 38. L'Amphytrion 38 de Giraudoux s'avère un
triomphe qui retentira bien au-delà des frontières de la France, et Jouvet-Giraudoux sont désormais
célèbres.
Mais si la carrière de Louis Jouvet prend alors un essor étourdissant, tout ne va pas pour le mieux
dans sa vie privée. Il est d'abord très affecté par la mort de sa mère, puis par la rupture avec sa
maîtresse Lisa Duncan (une des Isadorables d'Isadora Duncan), avec qui il vivait depuis 6 ans.
Jouvet le prend très mal, mais le théâtre continue de remplir sa vie. Tout au long des créations, il ne
cesse de penser au jour où il pourra enfin monter Molière. L'Ecole des femmes et Dom Juan
l'obsèdent. Invité à présenter une mise en scène au théâtre Pigalle, il y monte Donogoo-Tonka de
Jules Romains, avant de partir pour une tournée européenne qui le mènera jusqu'à Vienne.
1932: Jouvet enfin se laisse convaincre de faire son entrée au cinéma dans le Topaze de Marcel
Pagnol (réalisé par Louis Gasnier), et se met ensuite lui-même aux commandes d'une version filmée
de Knock. Dans Knock, il distribue dans un petit rôle une toute jeune comédienne qu'il a remarquée
quelques mois plus tôt à une réception. C'est Madeleine Ozeray. Ils entameront bientôt ensemble
une grande aventure théâtrale et amoureuse qui durera 10 ans. Puis c'est la pièce tant attendue de
Jean Cocteau qu'il met à l'affiche, La machine infernale. Par l'entremise de Cocteau, Jouvet
rencontre alors pour la première fois Christian Bérard, dit Bébé, à qui il confie les décors. C'est le
début d'une longue et très profonde amitié. Bérard devient le décorateur attitré de Jouvet.
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L'Athénée (et le cinéma...)
1934: fin de bail à la Comédie des Champs-Elysées, que Jouvet trouve trop petite, pas assez
rentable, de plus qu'il devra faire face s'il reste à une hausse de loyer. Jouvet déménage donc tout
son monde à l'Athénée, dans le district des théâtres de boulevards, ce qui ne manque pas de faire
parler les méchantes langues. Il passe tout l'été à remettre l'Athénée en condition.
Deux nouvelles créations de Giraudoux: Tessa (1934), écrite spécialement pour Madeleine Ozeray,
et La guerre de troie n'aura pas lieu (1935), pièce d'une actualité effrayante où il interprète le rôle
d'Hector. Jouvet triomphe. Nommé professeur au Conservatoire d'art dramatique (1934) et
continuant sa carrière cinématographique dans la mesure où le théâtre le lui permet, Jouvet sur sa
lancée est tout heureux de pouvoir enfin se consacrer à cette Ecole des femmes qui l'obsède depuis
si longtemps. Surtout que maintenant il a en Madeleine Ozeray l'Agnès dont il avait toujours rêvé.
Christian Bérard lui signe un décor merveilleux, mais les répétitions sont difficiles. Jouvet, plus
inquiet que jamais, n'est pas à prendre avec des pincettes. Le soir de la première, il est tellement
rongé par le trac qu'il panique et ne peut entrer en scène. On doit baisser le rideau et attendre qu'il se
calme un peu avant de commencer. Mais Jouvet ce soir-là connaît un des plus grands triomphes de
sa carrière...
On lui offre la direction de la Comédie Française, qu'il refuse. (Il en refusera la direction à trois
reprises.) Il ne veut pas avoir à transiger, à négotier, ou à faire des concessions à des sociétaires.
Jouvet veut être le maître absolu dans son théâtre.
1937: C'est Electre de Jean Giraudoux, puis d'autres projets de films viennent s'offrir à Louis
Jouvet: Entrée des artistes, et surtout Hôtel du Nord qui connaîtra un énorme succès et fera de lui
une véritable star du cinéma.
Ce qui préoccupe le plus Louis Jouvet en cette fin de l'année 1938, c'est de trouver un décorateur
pour la nouvelle pièce de Giraudoux, Ondine. Louis Jouvet, tenaillé par le trac, voit approcher la
date de la première, le 4 mai 1939. Mais la pièce est un triomphe, la salle ne désemplit pas et
Madeleine Ozeray obtient un grand succès personnel. Les vacances arrivent. Jouvet ferme l'Athénée
pour l'été. Il a promis d'être au festival de Cannes fin-août pour défendre La charrette fantôme qui y
sera présenté. Il reprendra Ondine en septembre.
Mais tout l'été, la guerre couve. Début septembre, c'est la mobilisation générale et l'entrée en guerre
de la France. Quand il rentre à Paris, Jouvet doit se rendre à l'évidence. Presque tout son personnel
masculin est mobilisé. Il doit fermer temporairement son théâtre. En mars 1940, le tournage de
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Volpone, interrompu l'année précédente faute de fonds, peut enfin reprendre. Jouvet aura beaucoup
de plaisir à faire ce film, où il partage la vedette avec son cher ami Charles Dullin, ainsi que
Fernand Ledoux avec lequel il aime bavarder. Le jour même où débute le tournage, Ondine reprend
l'affiche à l'Athénée. Cependant les Parisiens n'ont pas le coeur au théâtre en cette période de
guerre. Les recettes sont insuffisantes, et Jouvet se voit contraint de retirer Ondine de l'affiche le 15
mai.
En juin, les Allemands sont à Paris. L'armistice est signée. Jouvet se voit bientôt interdit de monter
Giraudoux et Romains. Dans ces conditions, il préfère garder son théâtre fermé indéfiniment. Avec
Madeleine Ozeray, il va se reposer à Aix-en-Provence. Ils y rencontrent Max Ophüls et projettent
avec lui de tourner en Suisse une version filmée de L'école des femmes. Mais Louis Jouvet a aussi
d'autres projets en tête, et lors d'un séjour à Paris en septembre 1940, il en parle avec Marcel
Karsenty.
Karsenty avait organisé l'année précédente la tournée sud-américaine de la Comédie-Française.
Jouvet, qu'on avait aussi déjà invité à faire une tournée là-bas, avait décliné jusqu'à présent faute de
temps. Mais maintenant partir lui semble la seule voie possible. Karsenty accepte de s'occuper de
toute l'organisation.
Interdit d'enseignement par l'occupant, Louis Jouvet donne le 7 décembre 1940 son dernier cours au
Conservatoire d'art dramatique. Dans le mois qui suit, il tente de recruter les acteurs qui
l'accompagneront. Certains voient d'un très mauvais oeil ce départ, comme si Jouvet abandonnait le
navire. Mais Jouvet suit son idée. Le 2 janvier, il part pour la Suisse, mais dès le début du tournage
de l'Ecole des femmes, il s'aperçoit des véritables relations de Madeleine et Ophüls qui entretiennent
depuis quelques temps une liaison secrète. Blessé, Louis Jouvet abandonne le projet. Le film est
arrêté. La rupture est imminente, et Jouvet songe un moment à trouver une autre actrice (et une
autre compagne), mais Madeleine décide finalement de rester avec lui. A Vichy, Karsenty s'est
affairé à obtenir les permissions et les bons qui permettront le départ pour l'Amérique du Sud.
C'est ainsi que Jouvet quitte Lyon le 26 mai 1941, avec 25 acteurs, 1 secrétaire, 2 machinistes, 1
directrice de scène, 1 régisseur, 1 costumière, et Marcel Karsenty qui s'occupe de tout (théâtres,
abonnements, relations publiques, location, publicité, etc.), Jouvet ne voulant se consacrer qu'aux
répétitions. Ils apportent aussi avec eux 34 tonnes de matériel (décors, costumes et accessoires) et
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de bagages. La troupe quitte Lisbonne sur le Bagé en direction de Rio de Janeiro le 6 juin 1941. Ils
sont sensés revenir en octobre...
L'Amérique du Sud
Pour leur saison sud-américaine, Jouvet et sa troupe doivent donner des séries de spectacles dans
trois villes: Rio de Janeiro (Brésil) tout d'abord, où ils arrivent le 27 juin, Buenos Aires (Argentine)
et Montevideo (Uruguay). Invitations officielles, réceptions, et partout le même succès, sont au
rendez-vous en cette saison 1941 pour les 'Jouvet' (comme on les appellera), ambassadeurs de la
pensée française en Amérique.
En décembre, c'est la fin prévue de la saison sud-américaine après une ultime représentation à Rio
de Janeiro. Jouvet réunit son monde et leur fait part de son intention de donner une deuxième
saison. La situation ne s'est pas améliorée en France. Qui sait ce qui les attend à leur retour?
Pourront-ils travailler, circuler librement? Suite à cette réunion, Jouvet perd 5 fidèles. Il en recrute
immédiatement de nouveaux sur place, et en fait venir de France.
Jouvet se consacre aussitôt à préparer la prochaine saison. Il veut un nouveau répertoire de huit
pièces à offrir à son nouveau public, et exige pour cela la même qualité qu'à Paris. Il fait construire
des décors, fabriquer des costumes, etc, qui engloutissent rapidement les finances de la troupe. Les
répétitions sont tendues, les amours de Jouvet et Madeleine Ozeray sont au plus mal. Madeleine ne
répond plus aux directions et mine l'autorité du 'patron' à chaque occasion. Convaincue de son
propre talent, elle le croit mal servi par les directives que lui impose Louis Jouvet. Une petite guerre
s'installe entre eux dont la troupe est témoin.
Le 12 juin 1942, Jouvet débute sa deuxième saison sud-américaine à Rio par une représentation de
Tessa de Giraudoux. Mais le 30 juin, il est épuisé, il se sent mal. Le docteur parle de dépression
nerveuse. Jouvet ne s'accorde que 5 jours de repos, et reprend le travail, amaigri et en mauvais état,
le 6 juillet. La saison de Rio s'achève le 19 juillet, et la troupe peut rembourser une partie des dettes.
La deuxième étape est Sao Paulo, mais malheureusement ils n'y obtiennent pas le succès espéré.
Les salles sont à moitié vides, et les créanciers commencent à s'affoler.
Pour leur retour à Buenos Aires, Jouvet a choisi un nouveau théâtre, choix malheureux puisque les
abonnés ne suivent pas et, comble de malheur, un feu éclate sur le plateau le 24 septembre
détruisant la moitié des décors. Pire encore, la personne chargée d'encaisser l'assurance disparaît
avec une partie de l'argent. Dans l'affolement, le théâtre de Montevideo annule sa saison (et les
38.000 pesos de garantie).
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On réussit à trouver un autre théâtre où jouer à Montevideo, mais sans garantie. C'est un désastre.
Les abonnements sont pratiquement inexistants, Jouvet est menacé de boycott: on lui reproche de ne
pas prendre position pour Vichy, ou pour la France Libre. Résultat: des salles vides.
17 octobre: réunion houleuse pour faire le bilan de la deuxième saison. Le ton monte, les acteurs
sont insatisfaits, et Jouvet inflexible. Il veut continuer la tournée: Karsenty a trouvé quelque chose
au Chili.
Mais l'atmosphère est malsaine au sein de la troupe. En raison des difficultés financières, les acteurs
ne touchent plus de salaire, mais seulement $3.00 par jour pour leurs défraiements.
Le 31 octobre, soirée d'adieu à Montevideo. La troupe s'installe ensuite à l'Alvear Palace de Buenos
Aires, où le directeur, grand admirateur de Louis Jouvet, les loge gratuitement en attendant leur
départ pour le Chili. Il aide également Jouvet à obtenir un prêt d'honneur pour défrayer le coût du
voyage.
Après plusieurs jours de train, les 'Jouvet' arrivent le 18 novembre au Chili où ils sont accueillis par
des centaines d'admirateurs, journalistes et photographes. Jouvet n'en revient pas. Les
représentations de L'Ecole des femmes y sont un triomphe. On doit donner 6 supplémentaires.
Cocktails, galas et réceptions se succèdent, et Jouvet retrouve enfin sa bonne humeur et vit même
une courte romance avec une jeune aristocrate chilienne.
Il reçoit l'invitation du président du Pérou qui l'invite à venir jouer à Lima, seulement Jouvet n'a pas
les moyens de payer le voyage. Un navire de guerre Péruvien devra prendre la troupe à son bord à
Valparaiso. Madeleine, qui n'entretient plus avec Jouvet que des relations professionnelles, veut
alors partir avec son nouvel amant mais accepte, à contre-coeur, d'accompagner la troupe jusqu'au
Pérou.
Le 30 décembre la troupe s'embarque. La saison à Lima se déroule agréablement. Le moral est bon
et Jouvet en profite pour rencontrer les Pères Blancs. C'est à partir de cette époque que Louis Jouvet
devient davantage preoccupé par les questions religieuses.
Le 23, une nouvelle réunion de la troupe. Madeleine veut se reposer. Jouvet est toujours décidé à ne
pas s'arrêter, à ne pas rentrer en France. Karsenty s'occupe de préparer le terrain en Colombie. Deux
nouvelles démissions...
Jouvet redistribue les rôles. Quand Madeleine est de retour au Chili, elle informe Jouvet des
conditions de son retour: qu'il rebaptise son théâtre l'Athénée Louis Jouvet-Madeleine Ozeray, et
qu'il lui accorde un pourcentage de toutes les recettes. Tout en l'implorant de revenir, Jouvet répond
négativement aux deux conditions et Madeleine ne donnera plus de nouvelles. Le 4 mars 1943, la
troupe s'embarque pour la Colombie: ils arrivent à Bogota le 20 mars après un voyage périlleux au
cours duquel les décors sont endommagés.
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Le 26 mars, Jouvet est dans tous ses états. Il est d'une humeur exécrable, pire qu'à son habitude et
touche du bois sans arrêt. C'est la première fois ce soir qu'il jouera l'Ecole des femmes sans
Madeleine. Mais il s'inquiète à tort... Micheline Buire est excellente, la pièce obtient un énorme
succès et Jouvet est heureux. Il n'a plus besoin de Madeleine. 9 représentations jusqu'au 16 avril,
ensuite Medellin, et les vacances! 6 semaines de rêve....
Karsenty reprend bientôt ses démarches. Prochaine étape: le Vénézuela. On offre à la troupe $6 000
pour venir jouer au Vénézuela, mais le voyage n'est pas payé. Jouvet doit encore une fois user de
son prestige personnel pour obtenir l'argent. La troupe se rend à Caracas en DC3 (malgré les
inquiétudes du "patron" qui craint ce mode de transport) pour un séjour d'une dizaine de semaines.
Jouvet est tout heureux du succès qu'ils obtiennent là-bas, ainsi que d'y retrouver autant de
francophones.
Cuba est la prochaine étape. Karsenty y a obtenu une généreuse entente: la troupe sera nourrie,
logée, blanchie dans un hôtel de luxe pendant quatre mois en échange de la moitié des recettes. Le
19 août 1943, Jouvet s'installe donc à La Havane et commence à préparer la saison mexicaine: il
veut quatre nouvelles pièces au répertoire. Cependant les finances sont au plus bas. Le voyage de
Caracas à La Havane et les défraiements de la troupe ont coûté $19 000. A la fin de leur séjour à
Cuba, il ne leur reste que $80 en poche. Jouvet voudrait pourtant se rendre à Haïti. Il trouve
indécent de ne pas aller jouer dans le seul pays francophone de la région.
Louis Jouvet envoie alors un télégramme au président haïtien proposant sa visite en échange du
transport et des défraiements de sa compagnie, mais malheureusement Haïti, bien qu'honorée, est
trop pauvre pour se payer une telle entreprise. Jouvet offre donc de céder la totalité des recettes en
échange du transport. Dans ces conditions, Haïti ne peut plus refuser.
Louis Jouvet arrive à Haïti à la mi-décembre. Il y est reçu en chef d'état et décoré de la croix de
commandeur dans l'ordre Honneur et Mérite. Il reste médusé le 5 janvier 1944 lorsque le président
haïtien lui rend la totalité des recettes qu'il avait cédées: $14 000.
Le 11 janvier 1944, la troupe s'embarque pour une traversée de huit jours vers le Mexique.
Malheureusement, le vaisseau qu'a trouvé pour eux Karsenty est un cargo qui n'est pas adapté au
transport des passagers. La troupe doit coucher à même le pont, sans cabines, ni commodités, à la
merci des intempéries. La nourriture est infecte et le confort inexistant. Mais puisque Jouvet subit le
même sort sans rien dire, personne n'ose se plaindre...
Le 22 janvier, arrivée à Mexico. Le théâtre Las Bellas Artes est mis à leur disposition gratuitement
et ils reçoivent une aide de $10 000 de la part du général de Gaulle. Jouvet apprécie le geste, bien
qu'il craigne un peu qu'il soit récupéré à des fins politiques. La saison débute le 28 janvier par une
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représentation de l'Ecole des femmes devant une salle archi-comble. Jusqu'au 31 mars, Jouvet veut
donner 12 spectacles irréprochables, comme si la réputation de l'Athénée était en jeu, et les décors
et costumes engloutissent encore une fois tous les fonds.
Ce séjour au Mexique sera marqué pour Louis Jouvet par la mort de Giraudoux, qui l'affectera très
profondément; par la brouille avec Jules Romains, dont la ladrerie (tirchieria) l'excède.
La prochaine étape logique pour 'les Jouvet' ce sont les Antilles françaises. Comme il s'agit d'un
territoire français, certains membres de la troupe y seront mobilisés, et pour cette raison certains
préfèrent rester au Mexique. Ainsi au 30 juin, Jouvet n'a plus que 12 fidèles, dont seulement 6
comédiens. Il doit se résoudre à dissoudre la troupe.
Le 14 juillet 1944, Jouvet s'embarque avec ce qui reste de sa troupe sur le Duc D'Aumale à
destination de la Martinique: une croisière de 22 jours gaie et heureuse, à bord d'un bateau français.
Ils arrivent à Fort-de-France le 5 août. Faute de comédiens, ils sont dans l'impossibilité de donner
des spectacles, mais la vie est bon marché et ils arrivent à subsister agréablement.
Bientôt cependant, Louis Jouvet est pressé de toutes parts, on veut qu'il présente quelque chose. Au
cours d'une conférence de presse à la radio, Jouvet lance un appel. Il lui faut des comédiens
amateurs s'il veut être en mesure de monter une pièce. Son appel est entendu, et avec sa troupe de
fortune Louis Jouvet peut présenter une série de représentations en septembre 1944 qui seront un
grand succès. D'autant plus qu'il travaille dans la joie, puisque Paris vient d'être libérée.
Il lui tarde à présent de regagner la France. Grâce à son secrétaire, Léo Lapara (celui-ci a des
contacts au ministère de la Marine du gouvernement de la république provisoire d'Alger), Louis
Jouvet obtient que sa troupe et tout son matériel soient embarqués le 13 décembre 1944 sur le
Sagittaire, navire militaire destiné au transport des troupes qui fait route vers le Maroc. Des escales
(et des vacances!) à Casablanca, et à Alger; puis, c'est enfin Marseille, et la France!
Le Retour à Paris
Le 12 février 1945, Louis Jouvet débarque à Marseille. Il reprend contact par téléphone d'abord
avec sa famille, et avec Pierre Renoir à l'Athénée, puis il rentre à Paris où il est assailli par les
journalistes et les photographes. Enfin réinstallé, il a une promesse à tenir. Sur la première page du
manuscrit de La Folle de Chaillot, Jean Giraudoux a écrit prophétiquement en 1943: "La Folle de
Chaillot sera jouée pour la première fois le 17 octobre 1945, sur la scène du Théâtre de l'Athénée,
par Louis Jouvet". Jouvet a neuf mois pour y arriver.
Pour répondre à toutes les questions qu'on lui pose depuis son retour, Jouvet décide de donner une
conférence de la scène de l'Athénée où il parlera en détail de ses années d'exil. Devant l'affluence, il
devra donner cette conférence trois fois durant le mois d'avril 1945.
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Mais tout ne va pas pour le mieux pour Louis Jouvet à l'Athénée. Les Grammont, ses co-sociétaires,
ont manigancé pendant les années de guerre afin de le priver de ses pouvoirs à l'Athénée. Encore
maintenant, on tente de le tenir à l'écart, et on croit avoir trouvé le moyen parfait: programmer une
pièce si populaire (Arsenic et vieilles dentelles, de Joseph Kesserling et ensuite film de Franck
Capra) qu'elle ne quittera pas l'affiche de sitôt. Jouvet se lassera bien d'attendre et devra aller voir
ailleurs.
Mais Jouvet pour le moment se contente d'attendre. Il lui faut absolument réussir sa rentrée à Paris,
et retrouver son public. Et cette réussite, il croit en tenir la clé dans la dernière pièce de Giraudoux,
La Folle de Chaillot. Il retravaille avec son cher Christian Bérard pour les décors, il auditionne à
tour de bras pour combler les 62 rôles que compte la pièce, et le 30 octobre, il lance un appel dans
Le Figaro: il aimerait que les lecteurs lui apportent des vieux vêtements féminins du début du siècle
qui pourraient servir de costumes. La réponse du public est rapide et généreuse; les dons de
vieilleries affluent.
La date de la première approche, et les Grammont s'incrustent à l'Athénée. La pièce Arsenic et
vieilles dentelles connaît un très grand succès et semble ne jamais devoir quitter l'affiche. Louis
Jouvet lance un ultimatum aux Grammont: ou bien ils retirent la pièce et lui laissent sa scène, ou
lui, Louis Jouvet, donnera une conférence de presse faisant le jour sur leurs tentatives déloyales
pour le tenir à l'écart. Les Grammont s'inclinent, Jouvet reprend les rènes de l'Athénée avec une
brève reprise de son Ecole des Femmes, et la première de La Folle de Chaillot a lieu le 19 décembre
1945. La pièce obtient un énorme succès! Louis Jouvet a réussi sa rentrée à Paris. Il est encore 'le
patron'...
1946 est une année qui s'annonce bien. Jouvet est extrêmement occupé: il travaille sans se ménager
au théâtre, au cinéma; il se produit au festival d'Edimbourg, à la conférence de Paris. Les seules
vacances qu'il s'octroie, il les passe à étudier Dom Juan qu'il compte monter après La Folle de
Chaillot. Il discute des décors avec Bérard et celui-ci, avec Jean Cocteau, profite de l'occasion pour
le convaincre de monter Les Bonnes de leur ami Jean Genêt. Jouvet n'aime pas beaucoup la pièce,
mais son Dom Juan n'est pas prêt, et ce serait une façon de faire taire les critiques qui le qualifient
de passéiste. Il accepte donc.
Les succès au cinéma suivent les succès au théâtre, Copie conforme et Quai des Orfèvres
remplissent les salles, et à l'automne 1947, Louis Jouvet est réinstitué professeur au Conservatoire
d'art dramatique. En décembre a lieu la première de Dom Juan qui obtient un énorme succès.
Cet emploi du temps surchargé n'est pas sans conséquence cependant. Louis Jouvet a le coeur
malade. Il doit consulter son cardiologue régulièrement et, depuis quelques temps, il est aussi
préoccupé par la mort et la religion. Au fur et à mesure qu'il vieillit, il est de plus en plus terrifié à
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l'idée de mourir. Cette pensée l'obsède, il réalise qu'il n'aura pas le temps de faire tout ce qu'il aurait
voulu, et cela l'angoisse profondément.
Une tournée, en 1948, le mène en Egypte et dans l'est de l'Europe. Il étudie Tartuffe, et monte Les
Fourberies de Scapin pour Jean-Louis Barrault. C'est pendant les répétitions de cette pièce au
théâtre Marigny que Christian Bérard s'écroule en plein théâtre, terrassé par une hémorragie
cérébrale. Louis Jouvet se remettra difficilement de la perte d'un ami si cher et d'un si proche
collaborateur. D'autant plus que ses compagnons de la première heure, Copeau et Dullin, meurent
aussi dans la même année. Louis Jouvet est persuadé que son tour viendra bientôt...
Il se concentre sur son Tartuffe qui prend enfin l'affiche, le 26 janvier 1950. La pièce obtient un
grand succès auprès du public, mais les critiques dans les journaux sont véhémentes. L'approche de
Jouvet déplaît profondément à ces messieurs qui s'en donnent à coeur joie et l'attaquent de tous
côtés.
Une brève tournée au printemps, et Jouvet est épuisé. A deux reprises, il se sent mal en scène...
Malgré les conseils de tous, il ne veut pas s'arrêter. A la fin de l'année, il tourne Knock et se lance
dans un nouveau projet: La Puissance et la Gloire de Graham Greene. Il sent qu'avec cette pièce il
va enfin pouvoir révéler quelque chose de très personnel au public. En attendant, il doit effectuer
une tournée nord-américaine, et assurer la mise en scène de la pièce de Jean-Paul Sartre Le Diable
et le bon Dieu au théâtre Antoine.
L'Amérique du Nord lui fait un accueil extrêmement chaleureux. Jouvet est content, mais les
réceptions, conférences, en plus des représentations, l'épuisent. Pourtant il ne veut pas se reposer. A
New York, il a une attaque pendant une représentation de L'Ecole des femmes, et continue quand
même à jouer.
De retour à Paris, se sachant très malade, il demande à son fils de veiller à ses affaires. Les
mauvaises surprises qui l'attendent au Théâtre Antoine ne l'aident pas d'ailleurs. Pendant sa tournée,
acteurs, costumier et décorateur ont été choisis sans qu'il soit consulté. De plus, Sartre qui a enfin
terminé la pièce, lui a donné un tour anti-religieux qui n'est pas du tout du goût de Louis Jouvet. Les
relations seront extrêmement tendues, voire orageuses, tout au long des répétitions. Le jour de la
première arrivé le 7 juin 1951, Louis Jouvet peut enfin se consacrer à des projets qui lui tiennent à
coeur.
Il étudie L'Avare, participe à une commémoration de Jean Giraudoux à Bellac, et tourne un film, qui
sera son dernier, Une histoire d'amour. En août, il commence les répétitions pour La Puissance et la
Gloire.
Comme à son habitude, Jouvet est inquiet. Il doute de ses choix de mise en scène, de lui-même. Le
14 août, après une répétition difficile, par une journée trop chaude, il se sent mal. Il va s'étendre, et
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on appelle un médecin, mais la situation est grave. Victime d'un infarctus et jugé non-transportable,
il sera soigné dans sa loge à l'Athénée pendant deux jours, entouré de ses proches.
Malheureusement, son état ne fera qu'empirer. Il meurt le jeudi 16 août 1951, à 20h 30.
(d'après "Louis Jouvet" de J-M Loubier)
Conclusione lettura e commento Knock
Introduzione Le cocu magnifique
Lettura del racconto Les jumeaux di Crommelynck per introdurre i temi del doppio e della gelosia
del Cocu magnifique
Inizio lettura del Cocu magnifique
73
FERNAND CROMMELYNCK
Estrugo, il servitore gemello di Crommelynck
“J’ai donc écrit Le cocu magnifique qui est en réalité un
immense monologue. Car les personnages ne sont que des
échos de son tourment intérieur, lequel je voulais montrer
au public explicitement et non implicitement”.1
Intimamente doppio, nato nel 1886 a Parigi e morto nel 1970 nella stessa città ma di famiglia belga,
vissuto tanto a Bruxelles quanto nella capitale francese, sposatosi due volte e in entrambi i casi con
donne di nome Anne, la prima parigina (Letellier) la seconda fiamminga (Grünert), Fernand
Crommelynck è stato ossessionato sempre dall’idea di esistere allo specchio.
La sua pièce principale, Le cocu magnifique,2 porta alle estreme conseguenze questa idea primaria,
mettendola in scena. Il protagonista, Bruno, è fiancheggiato da un altro personaggio, Estrugo, che è
la sua copia allo specchio. Tuttavia, come in ogni incubo degno del suo nome, questo altro da sé che
esiste fuori di lui, dopo aver fedelmente ripetuto – e servilmente – le sue parole e i suoi gesti,
assecondato le sue volontà anche le più irragionevoli, a un certo punto si ribella all’immagine
padrona e cessa di doppiarla.
Quasi come se, guardandoci allo specchio, vedessimo l’altro nostro io, quello riflesso, compiere
gesti diversi da quelli che noi abbiamo eseguito.
Facciamo allora un passo indietro nell’opera di Crommelynck, prima di sviluppare il tema della
coppia maître-valet costituita da Bruno e Estrugo, risalendo a un testo di poco anteriore rispetto al
Cocu, da questo punto di vista singolarmente esplicito.
Crommelinck respirava aria teatrale fin dalla più tenera età, figlio e nipote di commedianti. Già
tredicenne recitava in spettacoli di rivista con lo zio. Le prime pièces in proprio cominciò a scriverle
ventenne nel 1906. L’esordio fu con Nous n’irons plus au bois, 3 atto unico in versi che venne
rappresentato l’anno successivo, e la prima di successo fu Le sculpteur de masques,4 dramma in tre
F. CROMMELYNCK, “Six entretiens de Fernand Crommelynck avec Jacques Philippet”, in J. MOULIN, Fernand
Crommelynck ou le théâtre du paroxysme, Bruxelles, Palais des Académies, 1978, p. 386
2
F. CROMMELYNCK, Le cocu magnifique, farce en trois actes, Paris, Ed. de la Sirène, 1921
3
F. CROMMELYNCK, Nous n’irons plus au bois, Bruxelles, Le Thyrse, 1906
4
F. CROMMELYNCK, Le sculpteur de masques, Bruxelles, H. Lamertin, 1918
1
74
atti in prosa rappresentato nel 1911. Il periodo della guerra lo trascorse a Bruxelles creando nel
1916 una sua compagnia, «Le Théâtre volant». Una carriera avviata, insomma.
Ma nel dicembre del 1918, Crommelynck decise di tornare ad abitare a Parigi, città natìa e della
prima infanzia, e si mise a lavorare per vari giornali spesso sotto pseudonimo. Era un’attività che
aveva già praticato a partire dal 1908, quando – appena sposato – era andato a stare a Ostenda. Lì
suo padre, smesso di fare l’attore, era diventato bookmaker. In quella fase Crommelynck, per la sua
attività di gazzettiere, si firmava per lo più con il monogramma G.M., ovvero con le iniziali di
Georges Marquet, un operatore culturale dell’epoca, che dirigeva un giornale, il «Carillon», cui
aveva chiesto a Crommelynck di collaborare. A Parigi iniziò dunque a scrivere articoli per
«L’homme libre», «L’éclair», poi «Le Matin» e «L’Avenir». Tra il ’18 e il ’19 pubblicò su
quest’ultima testata tre Contes fantastiques: il primo, La maison des hiboux,5 è una pittura sordida
dell’avarizia, prefigurazione di quella che sarà al centro di una delle pièces majeures, Tripes d’or.6
L’ouragan,7 il secondo racconto fantastico, ha invece già elementi anticipatori del Cocu magnifique
perché c’è un giovane che, come Pétrus – cugino della moglie di Bruno nel Cocu – suscita la
gelosia del protagonista. Questo giovane, tra l’altro, si chiama Pétrus anche nel racconto. E come il
Pétrus del Cocu, di mestiere naviga per mare. La donna invece si chiama Léna e ama il giovane
dato che l’anziano marito, a sua volta marinaio, è sempre via. Nella conclusione, il vecchio manda
via il giovane e lui non osa portare con sé la donna. L’anziano marito, trionfando, annuncia a Léna
che la terrà con sé finché ne avrà voglia, fino a quando non proverà disgusto per lei, ma che poi la
caccerà con un calcio come ha fatto con Pétrus. In questo racconto, che di fantastico ha soprattutto
il cinismo del protagonista, sono numerosi i punti di contatto con Le cocu magnifique, pièce che
infatti già Crommelynck elaborava mentalmente in questi mesi. Non solo il tema strutturante della
gelosia, ma anche il contesto marino, l’antagonista e il suo carattere, la scansione degli
avvenimenti, l’idea di rappresentare l’acuirsi di uno stato di crisi. Ma è nel terzo racconto, Les
jumeaux,8 che prende corpo – inserendosi nella dinamica sperimentata con L’ouragan – l’elemento
della doppiezza, e in particolare dell’immagine speculare ribelle. Una netta prefigurazione è inoltre
rappresentata dall’innescarsi del meccanismo parossistico.
In questo racconto il protagonista aspetta un figlio dalla donna che ai suoi occhi rappresenta
l’unicità assoluta dell’amore. Di tale unicità l’uomo vede un’immagine nella rosa, una sola, che
sempre viene rinnovata in virtù del suo significato:
5
«L’Avenir» , 24 déc. 1918
F. CROMMELYNCK, Tripes d’or, pièce en 3 actes, [s.l.] 1929, extr. de «Variétés» 15 mai, 15 juin, 15 juillet 1929 –
création Paris, Th. Des Champs Elysées, 30 avril 1925
7
«L’Avenir» , 22 janv. 1919
8
«L’Avenir» , 9 févr. 1919
6
75
Et il y avait une seule rose à tige courte dans un pichet de terre.
[…]
Car il n’y a qu’une rose, comme il n’est qu’un seul amour, et la rose était dans notre maison.9
L’amore esclusivo che unisce il narratore alla donna della sua vita sta per dare il frutto esemplare:
Donc, ma femme était enceinte. Nous attendions avec émoi le jour de la chère douleur.
– Cet enfant, lui disais-je, sera notre passé vivant..10
Quel giorno venne portando con sé una sorpresa:
Ma femme s’arracha, dans de hauts cris, deux fils vivants!11
I due gemelli si presentano alla vita talmente uguali uno all’altro da parere la reciproca conferma, in
qualche modo, di una irripetibile unicità:
Mes fils se ressemblaient comme les deux yeux, – je ne puis pas dire plus – comme les deux yeux
d’un visage.
Mêmes cheveux légers, même bouche un peu triste, ils penchaient de la même manière leur tête
blonde vers l’épaule. Et, plus tard, ils dirent ensemble, de la même voix, les mêmes paroles.
Je vous le dis, c’était bien là le fruit d’une tendresse égale et toujours échangée.12
E ciò nonostante, prima ancora che si manifesti qualsivoglia indizio dell’approssimarsi di una crisi,
l’io narrante esplicita l’errore contenuto nello sdoppiamento. Tornando al momento della nascita dei
bambini, pur riconoscendo la gioia provata e quella letta nello sguardo dell’amatissima moglie, egli
afferma:
Et, cependant, de ce jour-là date ma peine.13
I gemelli infatti si rassomigliano d’aspetto ma si rivelano un giorno, come l’abbattersi di una
disgrazia per il loro padre, diversi di carattere:
Or, un soir, nous étions à table.
9
F. CROMMELYNCK, Les Jumeaux, in J. MOULIN, Textes inconnus et peu connus de Fernand Crommelynck. Etude
critique et littéraire, Bruxelles, Palais des Académies, 1974, p. 297
10
Ibid.,, p. 298
11
Ivi
12
Ivi
13
Ivi
76
Ma femme partageait en quartiers le grand gâteau de sucre roux. Tout à coup mon fils, celui que
nous nommions Jean et qui avait un ruban aux cheveux, celui-là dit:
–Je ne veux pas de gâteau.
L’autre, que nous nommions René, s’écria:
–Je mangerai sa part!14
Il padre cerca di costringere il gemello refrattario a non distinguersi, s’infuria, spaventa tanto la
moglie quanto i bambini con le sue urla. E poi confessa, a noi lettori:
Que de ces deux enfants, que de ces jumeaux si semblables, l’un se prît à n’aimer plus ce qu’aimait
l’autre, cela me remplissait d’une épouvante religieuse.15
Il padre non riesce ad accettare quello che ai suoi occhi si configura come un tradimento: i due
gemelli non sono immagine dell’unicità pura dell’amore, come lui aveva creduto e sperato, bensì,
nella sua visione che comincia a distorcersi, a scollarsi dal reale, della menzognera duplicità del
sentimento amoroso. Constatando giorno dopo giorno come le differenze interiori tra i due si
moltiplichino a onta dell’esteriore identicità, il padre si mette a considerarli degli “ennemis
irréductibles”. 16 Non specifica se intende nemici tra di loro, o per se stesso. Ma quello ch’egli
definisce il proprio supplizio, prende forma con il maturare nella sua mente dei primi propositi folli.
A scatenarli è stata la scoperta di un reale diverso da quello nel quale prima di allora il padre si era
identificato:
Toute ma vie en était bouleversée.
“Donc, me disais-je, il n’y a pas qu’une rose et qu’un seul amour!”.17
L’uomo si autoconvince che uno dei due bambini vada eliminato. Inizialmente pensa debba essere
ucciso il bambino che ha manifestato per primo la propria interiore differenza, ma poi cade in
confusione. Guardando i due figli si chiede con angoscia crescente quale dei due sia il mostro. E
contestualmente sente che qualcosa in lui si è spezzato. Enuncia una scissione, avvenuta suo
malgrado. Rispetto all’indecisione sul figlio da sacrificare, e alle repentine scelte che ogni volta gli
paiono definitive, afferma però:
Et le lendemain je pensais le contraire. Je ne voulais pas être injuste, car moi j’aimais mes enfants
d’un autre cœur que le mien, qui battait au-delà de moi-même.18
14
Ibid., p. 299
Ivi
16
Ibid., p. 300
17
Ivi
15
77
Amava i sui figli con un cuore diverso rispetto al suo, un cuore altro che batteva al di là, al di fuori
di lui stesso. In questa confessione, sta la chiave della pièce a venire.
La conclusione del racconto, che contiene l’elemento definibile come fantastico da un punto di vista
rigorosamente formale – fantastico alla Maupassant, per intenderci, maestro di Crommelynck in
questo genere –, introduce lo specchio rivelatore:
Un jour, dans mon miroir, j’ai vu ma propre image me mentir. Quand j’y pense, je sens contre ma
peau toutes les flammes de l’enfer. Ma propre image! J’avais ouvert la bouche, tendu le bras, et le
miroir m’avait laissé, dans ses profondeurs, immobile et curieux.19
Lo scollamento dell’immagine riflessa, o meglio la percezione di questo scollamento, durò solo un
istante. Ma tanto bastò, si evince dalle parole della chiusa, a determinare il non ritorno: “On m’a
emporté”.20
Ad assistere al drammatico evento, la moglie in un angolo della stanza, che si morde a sangue le
labbra tenendo stretti a sé i due piccoli mentre la voce narrante ancora una volta li definisce “si
ressemblants, si différents et si malheureux”.21
*
**
Tenendo bene a mente la dinamica del racconto e delle relazioni tra i personaggi, veniamo allora
alla pièce intitolata Le cocu magnifique, indiscutibilmente la più nota di Fernand Crommelynck,
rappresentata nei paesi più disparati. Ogni libro di storia del teatro irrinunciabilmente dà conto per
la sua singolarità della messa in scena di Mosca del 1922: nella Russia rivoluzionaria, Meyerhold
creò la pièce nella celebre scena costruttivista di Popova. Ed anche questa messa in scena, come
tutte le altre di cui vi sia memoria, dall’indimenticabile prima di Lugné-Poe al Théâtre de l’Oeuvre
il 18 dicembre 1920, straordinario successo, a quella italiana il 2 gennaio 1924, al Teatro Carignano
di Torino per la regia di Annibale Ninchi (dove malgrado tagli decisi il pubblico insorse contro
l’immoralità della pièce), passando per le riprese nel mondo anglosassone, anch’esse avventurose
per le reazioni indignate, e quelle nei paesi slavi, di gran lunga invece le meglio accolte da pubblico
18
Ibid., p. 301
Ivi
20
Ivi
21
Ivi. È qui evidente l’impatto sulla narrazione del referente mitico. Come scriveva R. BARTHES in Mythologies (Paris,
Ed. du Seuil, 1957, p. 215), il mito non mostra né nasconde nulla: deforma.
19
78
e critica, tutte comunque riprendono la scena a due piani, sdoppiamento anche visivo dei livelli di
coscienza. In altre parole, tutte le messe in scena rispettano rigorosamente le indicazioni fornite
dall’autore nella prima didascalia del testo:
L’intérieur d’un ancien moulin à eau transformé en maison d’habitation. Vaste et haute pièce aux
murs blanchis, largement éclairée par deux fenêtres de fond, l’une au rez-de-chaussée, l’autre à
hauteur du premier étage.
La première s’ouvre sur un jardin fleuri, au bord de la route, la seconde en plein ciel bleu. On
accède à celle-ci par un escalier de bois et une galerie qui flanque le mur de façade et conduit aux
chambres à coucher, à droite.
La porte extérieure est à gauche, vers le fond; la porte des appartements à droite, au premier
plan.22
Come osserva Paul Emond, in effetti, le didascalie di Crommelynck non sono mai semplici
indicazioni tecniche, bensì implicano già un ritmo scenico che informa di sé l’insieme del testo e
una disposizione molto precisa dello spazio, indissociabile dalla tematica profonda della pièce. 23
Le cocu magnifique si sviluppa in tre atti, ognuno dei quali corrisponde a uno stato di coscienza del
protagonista. La situazione iniziale è contrassegnata da passione giocosa e reciproca tra Bruno e la
sua giovane e ingenua moglie Stella. Poi però la mente di Bruno viene sconvolta da un lampo colto
nello sguardo di Pétrus, cugino della donna appena tornato da lunghissimi viaggi per mare che lo
hanno tenuto lontano per molti anni. Quando erano piccoli, Bruno, Stella e Pétrus condividevano i
giochi, ed erano inseparabili. Ecco perché al suo ritorno al paese natio Bruno vuole ospitarlo nel
domicilio coniugale, certo di fare un dono a Stella. Ma Pétrus è da poco entrato in casa, quando
Bruno compie un gesto che determina la sua futura dissociazione: per vantare la bellezza di Stella
ora che è diventata donna, la spinge dapprima a far vedere le gambe al cugino e poi decisamente a
mostrargli il seno. La resistenza della donna e l’imbarazzo di Pétrus non impediscono a Bruno di
procedere nell’inopportuna esibizione. La quale s’inceppa nel momento in cui Bruno crede di
scorgere negli occhi di Pétrus una luce lubrica. Da questo momento in poi la mente di Bruno si
degrada via via, fatta preda del demone della gelosia al punto che costringerà la moglie e Pétrus a
chiudersi in camera insieme per poter essere certo del tradimento da loro perpetrato nei suoi
22
F. CROMMELYNCK, Le cocu magnifique, Préface de Jean Duvignaud. Lecture de Paul Emond, Éditions Labor,
Bruxelles, 1987, p. 19
23
P. EMOND, Le théâtre selon Crommelynck: forces de la dramatisation et pouvoirs de l’équivoque, in ibid., pp. 120121: “Il est symptomatique que toutes les scénographies utilisées dans les multiples mises en scène du Cocu magnifique
que l’on a pu recenser comportent cet espace à deux niveaux, aussi particulières qu’elles aient pu être dans leur
conception (car l’on a inventé pour cette pièce de très beaux et très étonnants décors et dans des styles très différents, du
réalisme le plus plat au constructivisme le plus strict – comme le décor de Popova pour la mise en scène de Meyerhold
– en passant par l’expressionnisme et le futurisme) et quel que soit le pays où la pièce a été représentée, de l’Argentine
au Japon, de la Finlande à l’Italie”.
79
confronti piuttosto di dover vivere il tormento del sospetto. E questo meccanismo egli tenterà di
ripeterlo con tutti gli uomini del villaggio, fino al culminare della tragica farsa: lo stesso Bruno,
travestito, s’infilerà nel letto di Stella per avere la certezza dell’adulterio. Cocufié da se stesso, in
altre parole, pur di dimostrare in maniera inconfutabile l’infedeltà della moglie.
La struttura elicoidale della pièce, che a chiocciola si avvita verso un centro cupo sino a una sorta di
enlisement senza apparente via d’uscita, ovvero la perdita per Bruno della moglie Stella, che
coincide, per lui, con la perdita di sé, ma da cui tutto paradossalmente potrebbe ricominciare, 24
costituisce lo scheletro del Cocu magnifique. Cui vanno aggiunti, ora, gli elementi caratterizzanti: il
principale, il personaggio di Estrugo, e i due corollari, la maschera e il voyeurismo. Su diversi piani
drammaturgici, sono tre forme di esplicitazione.
*
**
Estrugo fa la sua comparsa quando la pièce è già ben avviata. Crommelynck non divide i suoi atti in
scene, ma potremmo dire che quando lo fa apparire siamo al sesto quadro del primo atto. 25
Ecco la didascalia relativa al suo ingresso:
Estrugo, le scribe, paraît à la porte de gauche. Il a l’air à la fois attentif et distrait. Il ne parle
jamais qu’après une courte hésitation, mais son débit est rapide, trop rapide.
Le geste semble servir de tremplin à la parole.
S’il advient qu’il ne puisse s’exprimer, son geste demeure longtemps suspendu.
Bruno l’accueille gaiement.26
In un testo intitolato Du dénouement scritto verosimilmente nel 1927 ma rimasto inedito, probabilmente all’origine
una lettera, poiché in testa vi figura “A Gustave Téry”, riportato in J. MOULIN, Fernand Crommelynck ou le théâtre du
paroxysme, Bruxelles, Palais des Académies, alle pp. 350-353, Crommelynck spiega la sua concezione drammaturgica
in questi termini: “Voici comme nous construisons nos drames: toutes nos scènes, de celle que nous nommons
provisoirement la première jusqu’à celle que, provisoirement, nous nommons la dernière, une à une les disposerons
comme les côtes d’une orange, jusqu’à recomposer le fruit parfait, pépins pressés vers le centre. Une fois toutes les
fines cloisons convergentes l’une contre l’autre serrées, je vous défie de distinguer la première de la dernière. Ainsi
vraiment compose en tournant la vie sans commencement ni fin, mais économe et soucieuse d’unité”. Aggiunge poi che
la conclusione della pièce deve essere “comme le serpent qui se mord la queue, mais non comme le scorpion qui de la
queue se perce la tête et meurt”.
25
Il primo quadro vede in scena Stella che, dapprima sola, parla a una pianticella di geranio e a un canarino in gabbia
del suo amore per Bruno, poi con una giovane donna del villaggio, Cornélie, e con l’anziana balia, della sua
impazienza: non vede l’ora che il marito torni, è partito la sera prima per andare in città a prendere Pétrus, non dovrebbe
tardare ad arrivare a casa. Nel secondo quadro un bovaro, approfittando dell’assenza di Bruno, tenta un approccio nei
confronti di Stella, che lo respinge aiutata dalla balia la quale lo allontana a suon di randellate sulla testa. Nel terzo
quadro è un conte a proporsi come amante. Il quarto è quello dell’arrivo di Bruno: un quadro prefigurativo, perché egli
finge di essere uno sconosciuto e di voler a sua volta sedurre Stella in assenza del marito. Poi, quinto quadro, i due
interrompono il gioco e il duetto amoroso ha inizio. La suddivisione in quadri, funzionale all’analisi, è mia.
24
80
Crommelynck presenta Estrugo evocando il suo ruolo di scriba: se Bruno di mestiere fa lo scrivano
pubblico, di fatto, materialmente, è Estrugo che scrive le lettere, sotto dettatura. Bruno le
concepisce, Estrugo verga sul foglio le frasi che Bruno ha inventato. E sin da questa prima
didascalia che lo concerne, Crommelynck insiste su due elementi: da un lato Estrugo non parla mai,
se non dopo aver esitato – e quando raramente accade che parli, lo fa in maniera furtiva; d’altro
lato, sostituisce spesso la parola che gli è inibita con un gesto, anch’esso però esitante.
Segue l’immediata verifica di quanto annunciato. Bruno inizia a dettare la lettera che il borgomastro
è venuto a chiedergli, inframmezzando però l’elaborazione del documento con lunghe descrizioni
della bellezza incantevole di Stella, preludio ai prossimi vertiginosi accadimenti, e Estrugo,
scrivendo, compita a mezza voce le ultime parole di ogni frase dettatagli da Bruno. L’effetto è
quello del rimbombo, dell’eco:
BRUNO, à Estrugo: «Chers concitoyens, malgré la vigilance des pouvoirs publics, l’audace des
malfaiteurs à réussi, une fois de plus, à s’exercer sur notre territoire» (Tu suis?)
Il prend le bourgmestre au bras.
Stella est tellement souple, le croirez-vous? qu’elle se plie comme une liane, la nuque au talon. Une
acrobate… Nous jouons ensemble à ce jeu d’enfants. Debout elle touche le plancher du bout des
doigts sans plier les genoux. Je l’aime follement!…
ESTRUGO: «Sur notre territoire…»27
E così avanza il quadro fino alla fine della dettatura, con un meccanismo che sarebbe da gag se il
tono, anche in virtù dell’arrivo del bovaro che a sua volta vuole da Bruno una lettera per l’amata e
non fa mistero del fatto che la donna cui essa sarebbe rivolta è Stella – rivelazione alla quale Bruno
reagisce con apparente indifferenza –, non cominciasse invece a farsi quello della farce grinçante.28
A Estrugo viene poi ordinato di uscire con un pretesto, ed è in sua assenza che – giunto invece
Pétrus, festeggiato con gioia quasi infantile tanto da Bruno quanto da Stella – si avvia il quadro nel
corso del quale, a furia di decantare la bellezza della moglie, adesso in favore del cugino che non la
vedeva da lunghi anni, Bruno chiederà alla donna di denudare il seno perché Pétrus possa constatare
26
F. CROMMELYNCK, Le cocu magnifique, cit., p. 34
Ibid., p. 37
28
L’espressione è usata a proposito del Cocu magnifique da P. EMOND in Le théâtre selon Crommelynck…, cit., p. 125,
là dove il critico assimila certi tratti della scrittura crommelynckiana a stilemi tipici dell’espressionismo tedesco: “Chez
Crommelynck comme chez les expressionnistes, c’est la logique d’une force intérieure, pulsionnelle, qui est recherchée,
c’est son mécanisme même que l’on entend expliciter, «extérioriser» dans toute sa violence, quitte à sortir du cadre de
la convention naturaliste”.
27
81
di persona quanto è perfetto. Quella che a Bruno sembrerà una luce troppo infuocata negli occhi di
Pétrus (costretto suo malgrado a guardare) determinerà l’innescarsi del sospetto.
E non è un caso se questo evento scatenante ha luogo mentre Estrugo è fuori scena: come se Bruno
lo avesse fatto allontanare per poter dare libero sfogo al proprio insano istinto senza essere visto né
sentito dal suo doppio, che ne diverrebbe testimone.
Quando Bruno – dopo essersi scusato sia con Pétrus che con Stella per come si è comportato, e aver
ordinato alla moglie di preparare la stanza per l’ospite accanto a quella matrimoniale – si ritrova da
solo con Estrugo, che nel frattempo è rientrato, abbiamo il primo impressionante monologo in cui il
protagonista mette in atto il meccanismo di spostamento da sé all’altro, trasferendo sull’alter ego la
piena responsabilità dell’accaduto. Estrugo rimane muto per tutta la scena, mentre Bruno lo accusa
di aver detto, e di dire, in risposta alle sue sempre più incalzanti domande, ciò che non andava
neppure pensato.
Ed ecco che la funzione drammaturgica di Estrugo viene a galla in tutta la sua pregnanza:
BRUNO, morne: Estrugo, assieds-toi là, non, là, approche. Chut! Un instant, chut! chut! tais-toi! te
tairas-tu! (Silence. Puis il demande âprement, sans regarder Estrugo:) Dis-moi, crois-tu que Stella
me soit fidèle? (Rire sec.) Ah! Ah! question! oui réponds simplement: fidèle ou infidèle, oui ou
non? La question se pose… Pourquoi? (Estrugo n’a pas le temps de répondre, jamais. Gestes
suspendus. Bruno répond pour lui.) Elle est fidèle comme le ciel est bleu. Aujourd’hui! Comme la
terre tourne. (Illumination.) Oui! (Puis rembruni.) Pas de comparaison, s’il te plaît. Oui ou non.
Fidèle? Prouve-le. (Il se lève.) Ah! je t’y prends! tu ne peux pas le prouver. Tu mentais! Tu en
jurerais? Jure. Tu n’oses? (Il s’emporte) Il avoue! il avoue, le malheureux! […]29
Di lì a poco, quando il crescendo di esaltazione porta Bruno a decidere che Pétrus deve andarsene e
lo caccia, immediatamente attribuisce a Estrugo la cattiva azione:
BRUNO, aussitôt, est pris d’une crise de désespoir larmoyant: Estrugo, tu l’as chassé!… Jamais je
n’oublierai ta noirceur! Oui, je sais ce que tu répliqueras… Mais on ne laisse pas les gens se
noyer!… Ta complaisance est suspecte, et ton obéissance… […]30
L’accusa a Estrugo è di aver compiuto quel gesto (cacciare l’innocente Pétrus) per non aver
impedito a Bruno di compierlo. Bruno, in altre parole, ha posto fuori da sé la parte di sé giudicante
per esserne affrancato, e poi però a quella parte di sé cui non permette di esprimersi, attribuisce la
colpa di non averlo fatto. Il sistema è ferocemente funzionale.
Una riflessione sul nome del personaggio a questo punto s’impone. Tutti coloro che si sono
occupati della pièce hanno fornito la loro personale interpretazione. Predomina la lettura secondo
29
30
Ibid., pp. 47-48
Ibid., p. 51
82
cui Estrugo ricorda il nome dell’esturgeon, in virtù del fatto che come il pesce egli è silenzioso.31
Un’altra, più elaborata, vedrebbe nascosta all’interno del nome la questione identitaria: Es-t(r)u(e)go?32
È andare a cercare lontano. Più convincente sembra leggere nella radice del nome un prefisso di
allontanamento (es/ex) unito a un termine che evoca estrazione, espulsione (dell’ego, certo). L’altro
da sé è portato fuori, potremmo dire estrapolato.
*
**
Il ricorso all’espediente della maschera ha luogo due volte, nella prima parte del secondo atto e
nella parte conclusiva del terzo. In entrambi i casi è Bruno che ne decide la necessità, la prima volta
facendola indossare a Stella, la seconda indossandola lui stesso. Con finalità opposte: quando la fa
indossare alla moglie, insieme a un mantello nero con cappuccio che ne nasconde completamente le
forme corporee,33 ha l’insensato scopo di sottrarre alla vista di chicchessia quelle beltà che fino a
pochissimo tempo prima ostentava con spavalderia. Un rimedio contro la gelosia scatenata dallo
sguardo involontario di Pétrus che contiene in sé le ragioni della sua inefficacia: Bruno è talmente
offuscato dal sospetto, che arriva a immaginare amanti nascosti sotto il mantello che lui stesso ha
imposto a Stella. La maschera, che Bruno motiva come rivelazione al mondo della doppiezza, della
falsità della moglie (“… ta figure de poupée est le plus parfait des mensonges! Ton vrai visage,
c’est ce masque de monstre” 34), è in realtà anch’essa un’estrinsecazione, un’oggettivazione, del
mostro interiore di Bruno. Le brutture che applica al corpo di Stella sono prima di tutto nella sua
mente. Anche in questo caso Bruno si illude di potersene liberare espellendole fisicamente da sé.
Prima di chiamare in scena la donna così camuffata, egli ha fatto allontanare Estrugo. Nuovamente
per impedire alla parte di sé giudicante di farsi testimone dell’abietto. Come aveva accusato
Estrugo, in sua assenza, di aver cacciato Pétrus, così ora dice a Stella che quel travestimento
assurdo è stato da lui ideato:
[…] Estrugo, je crois, m’a conseillé de te fagoter ainsi…35
J.-P. DE CRUYENAERE, Fernand Crommelynck. Le cocu magnifique, Tripes d’or. Une œuvre, Ed. Labor, Bruxelles,
1987, p. 26; J. PYCHOWSKA, “Un jaloux et sa conscience dans Le cocu magnifique de Fernand Crommelynck” in
Double et dédoublement en littérature, Publications de l’Université de Saint-Etienne, 1995, pp. 161-167
32 V. RENIER, Es-tu moi? La question du cocu magnifique, Bruxelles, Labor, 1985, pp. 77-78
33
Didascalia: Stella paraît, vêtue d’une mante noire à capuchon rabattu et le visage couvert d’un grotesque masque de
carton (F. CROMMELYNCK, Le cocu magnifique, cit., p. 58)
34
Ibid., p. 60
35
Ibid., p. 63
31
83
E poi finge, tanto con Stella quanto con se stesso, di provare orrore per quanto ha fatto:
BRUNO s’exalte, joyeux: Laisse tomber ce manteau! Que la confiance renaisse, entière! Toutes les
larmes de Saint Laurent dans mon âme! Pleuve! Pleuve tes étoiles, la Cielée, jusqu’au matin! Si
Estrugo rentre ici, je le tue, je le massacre! Sans doute enviait-il notre bonheur? C’est un homme
desséché par la solitude, qu’il aille manger des sauterelles dans le désert.36
La seconda maschera invece Bruno la appone al proprio stesso volto, ed è l’apice della pièce prima
del dénouement. Egli decide di travestirsi per avere la certezza dell’infedeltà della moglie. “J’ai le
remède à ce doute, le remède absolu, immédiat, la panacée universelle: pour ne plus douter de ta
fidélité, que je sois certain de ton infidélité”, le aveva già detto, preannunciando questo sviluppo,
mentre la spingeva tra le braccia del cugino Pétrus al secondo atto. 37 Anche in questo caso il
rimedio è destinato a non sortire l’effetto sperato – e Bruno non riuscirà nell’intento paradossale, se
cocufier par lui-même – ma nemmeno saprà se Stella lo ha riconosciuto e solo per questo non gli ha
ceduto, non dandogli la famosa prova. Il ruolo di Estrugo, in questo caso presente, per volontà come
sempre di Bruno, questa volta perché sia testimone della messa in atto della risoluzione paradossale,
a differenza delle volte precedenti in cui invece lo allontanava per evitare questa stessa funzione,
torna a farsi il gemello muto, cui addossare le responsabilità del proprio agire.
“Torna a farsi”: sì, perché c’è stato un momento in cui Estrugo – come l’immagine allo specchio
che si mette a compiere gesti autonomi rispetto ai nostri, come il bambino Jean che afferma di non
voler mangiare la torta a differenza del bambino René – ha reagito, dapprima trovando la parola, di
cui fino ad allora era stato privo, e poi respingendo (per un momento) la gemellarità.
Quando Bruno impone a Pétrus e a Stella di chiudersi in camera insieme, primo tentativo di
sbaragliare la propria ossessione tuffandocisi dentro, ordina a Estrugo di spiare al posto suo dal
buco della serratura. Nel suo maldestro tentativo di usarlo come fosse semplicemente un servo ai
suoi ordini – quando invece ha a che fare come si è più volte ribadito con la parte giudicante di sé
oggettivata, alienata –, Bruno vuole che sia lui a guardare, che sia lui il voyeur, perché poi riferisca
quello che ha visto e ciò facendo concretizzi materialmente la certezza. Ancora una volta un alibi:
perché quando Estrugo effettivamente riferisce, sia pure a mezze frasi, per anacoluti e anafore,
ripetizioni e inversioni, di aver visto, Bruno rifiuta di credere. Come al solito, addossa a Estrugo
l’errore. Ecco il momento centrale del quadro:
36
37
Ivi
Ibid.,, pp. 72-73
84
Estrugo met l’œil à la serrure, puis se redresse, abasourdi, et gesticule pour attirer l’attention de
Bruno.
BRUNO, très calme: Hein?
Estrugo descend vivement et s’arrête devant Bruno. Gestes inutiles, il est suffoqué.
Qu’y a-t-il?
ESTRUGO se débonde, brusquement: Pétrus avec Stella, Stella avec Pétrus, Pétrus avec Stella, dans
la chambre, enfermés!
BRUNO, simplement: Non!
ESTRUGO, avec une volubilité étonnante: Des galons et des volants, je le jure, les rideaux tirés.
Pétrus et Stella, je le jure, enfermés là!
BRUNO, têtu: Non, non.38
Anche di fronte alla proposta finalmente e per la prima volta autonoma di Estrugo, peraltro
fortemente simbolica dal momento che evoca lo specchio, Bruno recalcitra:
ESTRUGO, un peu ralenti: Regarde dans mes yeux, l’image n’est peut-être pas effacée… Je les ai
vus!
BRUNO, soudainement, se dresse devant lui et crie avec fureur: Tu mens! Tu mens!
ESTRUGO, tremblant, mais obstiné: Stellus et Pétra!
BRUNO, affolé: Tu mens trente-deux fois!39
Le reiterata denuncia di Estrugo, che all’ultima ripetizione cade nel lapsus rivelatore dell’incrocio
dei nomi, rappresenta il compimento pieno del personaggio. Necessario fino a questo punto a
Bruno, da lui utilizzato perché si faccia carico delle proprie responsabilità, di colpo prende la parola
in prima persona per dire, questa volta davvero e non più solo nell’immaginazione malata di Bruno,
ciò che non andava detto. Di lì a poco, Estrugo – dissociazione totale dal maître – suggerirà a un
giovane incautamente venuto a corteggiare Stella, di fuggire prima che Bruno, ormai
completamente privo del controllo di sé, lo uccida.
*
**
Crommelynck dichiarò di aver voluto riscrivere Otello con il Cocu magnifique.:
Là j’ai voulu extérioriser un sentiment profond et je vais faire une confidence qui aurait pu
d’ailleurs n’en être pas une (parce que les critiques auraient dû s’aviser de ce que j’ai voulu faire):
j’ai voulu refaire Othello de Shakespeare.
[…]
Othello devient Bruno, Cassius devient Pétrus, qui lui aussi est navigateur, Jago devient Estrugo..40
38
39
Ibid., pp. 79-80
Ivi
85
In questo caso non fece cenno a Molière, indicato invece come referente principale per Tripes d’or.
Ma è evidente anche il debito della pièce nei confronti di Sganarelle ou le cocu imaginaire, non
fosse altro che per l’idea del finto tradimento, sempre creduto e mai reale. Da un lato, certo, è
indubbia la personale elaborazione del dramma della gelosia in una chiave quasi espressionistica.
D’altro lato però non si può non rilevare l’inserirsi netto di Crommelynck nella tradizione ben
francese del valet confidente.
Ma l’elemento senz’altro più interessante della pièce, della cui portata forse lo stesso autore non fu
del tutto consapevole, sta nell’aver realizzato qualcosa di assolutamente inedito: nell’aver
trasformato in personaggio un attante, l’aver materializzato una funzione in personaggio, presente
sulla scena in carne ed ossa. Crommelynck ha così dato vita drammaturgica al je est un autre, ma
liberando l’autre dal je, togliendogli le catene dell’identità e riscattandolo, sia pur brevemente, dalla
condizione di servo.
Gabriella Bosco
Torino, 15 settembre 2013
(verrà pubblicato in Studi Francesi n°173, 2014)
Conclusione del Cocu con commento
Inizio lettura del racconto Rhinocéros di Ionesco
Inizio lettura primo atto Rhinocéros per vedere la trasformazione dal racconto
F. CROMMELYNCK, “Six entretiens de Fernand Crommelynck avec Jacques Philippet”, in J. MOULIN, Fernand
Crommelynck ou le théâtre du paroxysme, cit., p. 386
40
86
EUGENE IONESCO
PERCORSI TESTUALI
Sono testi nutriti di sogni, sotto forma di immagini e di visioni. E a partire da ognuno di essi,
Ionesco ha tratto una pièce. Veniamo al caso del Solitaire, il solo romanzo che Ionesco abbia scritto
e che io considero, e propongo di leggere, come una delle risposte – quella narrativa – alla domanda
impossibile ma inevitable che lo scrittore rivolge al proprio io. Ecco la situazione colta nel
momento in cui il romanzo inizia: il protagonista, che si esprime in prima persona, ha appena
ricevuto un’eredità assolutamente inattesa da parte di uno zio d’America che egli neppure
conosceva. Pur non avendo che trentacinque anni, decide di lasciare il lavoro che faceva, anzi di
smettere del tutto di lavorare. Compra un appartamento e si trasferisce nella periferia sud della città,
che è Parigi, per non correre il rischio di incontrare persone che lo conoscevano prima, si ritira
quindi dalla vita attiva e si isola progressivamente, consegnandosi a un’esistenza che lo conduce a
perdere qualunque contatto con il reale, anche per via dell’alcol che si mette a bere. Più beve, più
sprofonda nel vaniloquio, nel corso del quale è colto da visioni continue e sempre meno
controllabili.
Siamo in presenza di una scrittura magmatica, che procede a spirale, scandita da assunzioni di alcol
sempre più frequenti, e questa scansione sostituisce i capitoli, il romanzo infatti non comporta
nessuna divisione interna. Le crisi del personaggio, chiamiamole così, introducono ciascuna un
tema che va visto in relazione con la solitudine. Sono così passati in rassegna i rapporti del
personaggio con le donne, esemplificati tramite le tre che ha amato nel corso della vita precedente –
Juliette, Jeanine e Lucienne – e una quarta – Yvonne – con la quale egli vive per un breve periodo
nel nuovo appartamento, relazioni sentimentali difficili e basate sulla reciproca incomprensione. Poi
vengono analizzati i lacerti di rapporti sociali che sopravvivono alla scelta di isolamento: con le
persone che il personaggio incontra al ristorante nel quale va a consumare i suoi pasti e soprattutto a
bere le sue bottiglie di Beaujolais; con la portinaia del palazzo; con uno studente di filosofia cui
telefona alcune volte, con qualche vicino di casa. E così pure viene evidenziato il rapporto del
personaggio con l’apparecchio telefonico, nei confronti del quale è impaziente e timoroso allo
stesso tempo. Poi, a mano a mano che egli si chiude sempre di più all’interno dell’appartamentocarapace, vengono sottoposti a esame i rapporti che intrattiene con la sua memoria. Presto il
personaggio si trova a non saper più distinguere tra ciò che gli accade realmente e ciò ch’egli si
immagina gli accada, tra stato di veglia e stato di trance. In questa fase, i brani, i frammenti di
monologo interiore del personaggio mettono in fila le sue svariate ossessioni, che sono soprattutto
di natura filosofica e metafisica. La fase successiva sarà quella della paura, il personaggio
87
comincerà a temere ogni intrusione del mondo esterno nel suo rifugio, per cui vi si barricherà
progressivamente fino a credere che in strada, sotto casa sua, sia scoppiata una rivoluzione. E la
paura genererà visioni molteplici fino all’apparizione finale, un albero al centro di un bellissimo
giardino con una scala d’argento che sale in cielo. Il personaggio prenderà l’immagine per un
segno, non ci dice quale. Si ha l’impressione che si tratti di un presagio di qualcosa, che resta
tuttavia nella penna dell’autore.
Si tratta insomma di un progressivo sprofondamento, che dà la misura del senso di colpa del
personaggio, un personaggio qui senza nome ma che sogna i sogni di Ionesco e che è vittima delle
stesse sue visioni indotte dall’abuso di alcol.
Un esempio testuale: il sogno del muro, un topos nella scrittura di Ionesco. Nel Journal en miettes
torna a più riprese. Ecco una delle varianti:
Devant moi un mur immense, une falaise impossibile à escalader. Immensément au-dessus de mes
forces, aujourd'hui du moins. Mon devoir pourtant est de le franchir, ou de passer à travers. …
Le mur est le mur d'une prison, de ma prison ….
Il me sépare d'une communauté: il est donc l'expression de ma solitude, de la non-interprétation; je
n'arrive pas aux autres, les autres n'arrivent pas jusqu'à moi. Il est en même temps l'obstacle à la
connaissance, il est ce qui cache la vie, la vérité. … Je revois le mur du rêve. Bon. Il symbolise
entre autres la séparation d'avec moi-même.41
Nel romanzo, questo sogno ossessivo di Ionesco diventa idea fissa del personaggio. La esprime, ad
esempo, così:
[…] je ne puis démarrer. Je crois que je suis au mur du monde, oublier l'au-delà du mur. Je ne me
résous à démarrer du mur. C'est peut-être une maladie. Je suis demeuré tout seul au pied de ce mur.
Tout seul, comme un sot. Eux, ils ont fait du chemin, ils organisent même des sociétés, plus ou
moins bien, c'est vrai, et il y a des engins extravagants. Moi, je ne fais que regarder le mur et je
tourne le dos au monde. Je m'étais déjà proposé, oui, de ne pas penser puisqu'on ne peut pas penser.
C'est curieux, ils croient que le monde, que l'univers, que la création, ils croient que cela est tout à
fait naturel ou normal, donné. Et ce sont eux qui sont les savants et moi le cancre, l'ignorant. Nous
sommes en prison, bien sûr, nous sommes en prison.42
Oppure, altro esempio testuale, ecco una delle idee fisse di Ionesco, che nel Journal en miettes
figura nella forma seguente:
Un univers infini est inimaginable, inconcevable. Sans doute l'univers n'est-il ni fini ni infini,
finitude et infini n'étant que des façons humaines de le penser; de toutes façons, que la finitude et
l'infini ne soient que façons de penser et de dire est encore inconcevable, inimaginable.43
41
Journal en miettes, p. 84.
Le solitaire, p. 57.
43
Journal en miettes, p. 39.
42
88
Nel romanzo questa idea si traduce in senso d’impotenza, fonte d’angoscia per il personaggio:
Essayer de concevoir la finitude d'un globe dans la finitude d'un autre globe dans la finitude d'un
autre globe, dans la finitude d'un autre globe, toutes ces finitudes étant liées l'une à l'autre
infiniment, cela me donnait la nausée, mal à la tête. Le vertige. Ne pas avoir la puissance de
concevoir l'univers, de savoir comment est ce qui est, cela n'est pas admissible.44
Si può constatare un’evidente intertestualità, che sostituisce una memoria assente, ovvero la
mancanza di memoria generata qui dallo sprofondamento. Al di là dell’autocitazione, è palese che
Ionesco pensa a Roquentin, ma il personaggio del Solitaire non ha nello zaino Eugénie Grandet da
utilizzare come rimedio per la nausea: negli scaffali della sua libreria ci sono Dostoievski e Kafka, e
comunque preferisce curarsi con l’alcol.
(Apro una parentesi: com’è noto, l’accoglienza riservata dalla critica alle pièces d’esordio di
Ionesco è passata per due fasi ben distinte. La prima di grande entusiasmo, in virtù della forza
corrosiva del lavoro del drammaturgo che metteva – parafraso le parole di Bernard Dort – molta
dinamite sotto le convenzioni borghesi, e squarciava il velo soprattutto linguistico dell’ipocrisia e
del luogo comune, proiettando il quotidiano su uno specchio deformante e grottesco.
45
L’entusiasmo scaturiva da una convinzione: per Bernard Dort quelle pièces – le prime tre per la
precisione, La cantatrice chauve, La leçon et Les chaises 46– preannunciavano un progetto politico.
Poi però, ben presto, il favore iniziale scemò cedendo il passo ad attacchi sempre più virulenti.
Dopo aver assistito alla prima rappresentazione di Jacques ou la soumission, 47 Bernard Dort
pubblicò un articolo intitolato De la révolte à la soumission nel quale vituperava Ionesco dicendo
che era precipitato “dans un monde élémentaire” e che aveva preferito il nichilismo all’estetica del
messaggio.48
La delusione di Dort, va detto, era inevitabile. Nel suo primo entusiasmo infatti egli aveva
equivocato: se è certamente vero che La cantatrice chauve e La leçon squarciavano il velo delle
convenzioni linguistiche e che la parola vi si scomponeva in una sorta di magma corrosivo e
vertiginoso, è altrettanto incontestabile che quello scatenamento del linguaggio non sottintendeva in
44
Le solitaire, p. 56.
Cfr. Bernard Dort, “L’avant-garde en suspens” in Théâtre populaire n° 18, poi riedito nella raccolta di articoli
Théâtre public 1953-1966, Paris, Seuil, 1967.
46
La cantatrice chauve andò in scena la prima volta l’11 maggio 1950 al Théâtre des Noctambules; La leçon il 20
febbraio 1951 al Théâtre de Poche e Les chaises il 22 aprile 1952 al Théâtre Lancry.
47
La pièce venne rappresentata la prima volta il 15 ottobre 1955 al Théâtre de l Huchette.
48
L’articolo uscì sul France-Observateur del 20 ottobre 1955. È interessante notare che Ionesco aveva scritto Jacques
ou la soumission nel 1950. Il percorso verso la sottomissione recriminato da Dort era cioè smentito dalla stessa
cronologia.
45
89
alcun modo un progetto politico. Era bensì il risultato di una catastrofe interiore, e non la rivolta
contro un determinato sistema sociale. Ionesco ha sottolineato con chiarezza e a più riprese la
grossolanità dell’equivoco. Lo ha fatto ad esempio parlando del lavoro del suo amico Beckett:
L'interprétation que des esprits plus ou moins éminents donnent de l'oeuvre et de la personne de
Beckett est abérrante. En effet, voir dans Beckett une victime de la societé bourgeoise, du
capitalisme, va contre l'oeuvre et la pensée de l'écrivain. Ce n'est pas de la condition sociale et
politique que Samuel Beckett souffre, mais bien de notre condition existentielle, de la situation
métaphysique de l'homme […]. Tout Beckett a pour thème la plainte de l'homme contre Dieu, c'est
ainsi que je l'ai dit il y a plusieurs années, l'expression s'est répandue, celle de l'image de Job sur son
fumier.49
Come quelli di Beckett, anche i personaggi delle pièces di Ionesco, e sin dagli esordi, sono i
superstiti di una catastrofe, hanno inciampato contro qualcosa – il reale – e portano i segni dello
scontro impressi nella loro carne, cioè nel loro linguaggio. Lo ha scritto lo stesso Ionesco, peraltro
ben prima di diventare drammaturgo, in un articolo del 1931:
Seule la catastrophe peut nous révéler notre nature intime. Le voile du quotidien et du prévu nous
cache à nous-mêmes; il nous trompe sur nous-mêmes: d'où la nécessité du tragique et de l'imprévu
de la catastrophe qui, dans une éclatante lumière, vienne déchirer le voile.50
Siamo molto lontani dal progetto politico cui aveva pensato inizialmente Bernard Dort. Nel
rispondere alla questione essenziale – “Pourquoi est-ce que j’écris?” – e a quelle corollarie, perché
mi ostino a farlo anche se farlo è colpevole, anche se so che è inutile e se so che proprio in quello
consiste il mio torto primo e imperdonabile, Ionesco ha detto un giorno:
Tous mes livres, toutes mes pièces sont un appel, l’expression d’une nostalgie, je cherche un trésor
enfoui dans l’océan […].51
La ricerca del mondo di prima della catastrofe: un’utopia. Lo scrittore, per dire chi è, quello che ha
fatto della sua vita, non può che mettere fianco a fianco i pezzi del suo sogno, dei suoi sogni, che
confusamente gli parlano di quel tesoro sepolto.
Chiudo la parentesi e torno al Solitaire).
“À propos de Beckett”, in Antidotes, pp. 206-209.
L’articolo era stato pubblicato in una rivista romena intitolata Zodiac, poi ripreso con il titolo “Sur le mélodrame” in
Théâtre complet, p. 1397.
51
“Pourquoi est-ce que j’écris?”, in Antidotes, p. 315.
49
50
90
La situazione iniziale del romanzo è dunque immaginaria, assolutamente non realistica, si potrebbe
dire che è una metafora della condizione dello scrittore che si isola perché, avendo scelto di
scrivere, non è più un essere sociale e il solo luogo in cui sente di stare è il testo, il suo proprio
testo. Ne deriva la messa a punto di una serie di immagini emblematiche. “Mon appartement est un
désert aussi vaste que le monde” pensa il personaggio. 52 “C’est comme si j’était entouré par le
monde mais pas au monde”.53 Così come dice:
J’étais dans un immense espace, enfermé cependant. Ou plutôt cela me semblait être une sorte de
grand bateau à l’intérieur duquel je me trouvais et dont le ciel était quelque chose comme un grand
couvercle.54
È certo presente qui la reminiscenza di un libro che Ionesco ha molto letto e amato, Oblomov.
Anche Oblomov è un uomo che rinuncia all’agitazione del mondo, alla passione, a qualunque
azione sia pur minima, a qualunque movimento. Un uomo che:
[…] s’installait doucement petit à petit dans le cercueil simple et large où il allait passer le reste de
ses jours, cercueil fait de ses propres mains à l’instar des sages du désert qui, après avoir renoncé au
monde, se creusent une tombe.55
Il movente è un altro, in Ionesco la scelta è determinata dall’angoscia, ma strutturalmente il
meccanismo è analogo: si tratta di un percorso verso il silenzio, la rinuncia a qualsiasi parola. E
questo, a livello simbolico, non fa che confermare il senso di colpa da parte di chi non sa, di chi non
può, fare altro che scrivere.
ΩΩΩ
Il meccanismo è ancora più evidente quando Ionesco adatta Le solitaire per la scena e crea la pièce
intitolata Ce formidable bordel!.56 Ed ecco il secondo punto della dimostrazione, i diversi linguaggi
usati per sviluppare lo stesso discorso. Uno solo evidentemente non bastava. La tecnica di
adattamento è in effetti sintomatica. Ionesco opera un capovolgimento totale: se nel romanzo il
52
Le solitaire, p, 135.
Ibid., p. 59.
54
Ibid., p. 27.
55
Cito dalla traduzione francese realizzata per la collana dei Classiques slaves: Ivan Goncharov, Oblomov, traduit du
russe par Luba Jurgenson, préfacé par Jacques Catteau, Lausanne, éd. L’Age d’homme, 1988, p. 457.
56
La prima rappresentazione della pièce ebbe luogo al Théâtre Moderne il 14 novembre 1973.
53
91
personaggio parlava ininterrottamente, o meglio si parlava ininterrottamente, nella pièce diventa
quasi del tutto muto. La sua solitudine si fa teatrale tramite il silenzio. Ionesco enuncia lui stesso la
trasformazione dicendo:
Dans le roman, le personnage s’exprime, se dévoile, se confesse. Dans la pièce, le personnage
principal est muet, se sont les autres qui parlent pour lui. En partie, les autres sont les projections de
ses propres pensées.57
Tornando ai due esempi testuali precedentemente citati, eccone l’esito a rovesciamento avvenuto. Il
sogno del muro, già transitato dal diario al romanzo, viene tradotto nella pièce con un’azione
mimica silenziosa:
Le Personnage va s'asseoir sur la chaise, il reste là quelques longs instants, immobile. Au bout d'un
certain temps, il lève la tête, regarde au plafond, puis le plancher, puis autour de lui. Lentement, il
se dirige à droite. Ses souliers craquent sur le plancher. Il a l'air d'être un peu pris de frayeur. Il se
penche, tâte le plancher, ses souliers. Doucement, sur la pointe des pieds, appuie la main sur le
mur de droite pour s'assurer de sa solidité. Hausse les épaules en ayant l'air de dire "C'est solide".
Il va vers le mur du fond, répète le même jeu. Il va aussi vers le mur de gauche. Le touche
doucement, puis plus fort, puis appuie de toutes ses forces. Un geste de recul. Recule quelques pas
encore. Il attend quelques moments. Il hausse les épaules.58
Quanto all’ossessione dell’infinito non concepibile, nella pièce passa in bocca a un vicino del
personaggio che lo ascolta silenziosamente, e si tratta di una battuta che lui stesso ha provocato, con
il suo silenzio appunto. È la scena VII della pièce, che ne comprta quindici in tutto e non è
suddivisa in atti. La didascalia dice che dalla porta dell’appartamento del personaggio entra un
signore “grand de préférence, aux cheveux blancs, boitant, s’appuyant sur une canne” e una nota
precisa che, nella mise en scène parigina, parlava con accento russo. È venuto per fare conoscenza
con il personaggio, con cui non ha ancora avuto occasione di parlare da quando è venuto ad abitare
nel suo palazzo e, di fronte al pervicace mutismo di cui dà prova, passando per una serie di
considerazioni filosofiche, giunge ad affermare quanto segue:
[…] On nous a amputés de la possibilité de concevoir ce monde parce qu'on ne peut concevoir le
fini ni l'infini ni le ni-fini ni-infini. Nous vivons dans une sorte de prison qui est une boîte. Cette
boîte est emboîtée dans une autre boîte, qui est emboîtée dans une autre boîte, qui est emboîtée dans
une autre boîte, qui est emboîtée dans une autre boîte, emboîtée dans une autre boîte, et ainsi de
suite, à l'infini. Et l'infini, je vous le disais, on ne peut pas le concevoir. Tout est inconcevable.59 (Ce
formidable bordel!, scène VII)
La citazione è tratta dal programma di sala distribuito la sera della prima, a firma dell’autore.
Ce formidable bordel!, sc. VIII, in Théâtre complet, p. 1148.
59
Ibid., sc.VII, p. 1147.
57
58
92
Tutto insomma è inconcepibile, a partire dal silenzio del personaggio. E poiché questo impossibile,
come ogni impossibile, deve essere detto, Ionesco sceglie di farlo dire qui dagli altri personaggi –
tutti alter ego del protagonista – che non possono fare altro che cercare di esprimere ciò che il suo
isolamento e il suo mutismo ispirano loro. In una lunga conversazione con Claude Bonnefoy,
pubblicata con il titolo di Entre la vie et le rêve (Paris, Belfond, 1977), Ionesco parla di una sorta di
sfida:
Comment j'ai procédé avec Le Solitaire? Je me suis dit que ce roman c'est pas du tout théâtral, et
alors justement j'ai voulu faire d'une matière a-théâtrale quelque chose de théâtral. La gageure me
tentait. Il y avait là une difficulté que je voulais résoudre, un problème de technique théâtrale.60
L’azione teatrale propriamente detta passa per due momenti: la relazione del personaggio con
Agnès, la cameriera del ristorante dove egli va a consumare i suoi pasti e a bere le sue bottiglie di
Beaujolais; e lo scontro del personaggio con i rivoluzionari, che sono probabilmente un prodotto
della sua immaginazione. Per quel che riguarda Agnès, il personaggio non reagisce quando lei gli
comunica che ha deciso di lasciarlo non potendo più sopportare la sua nevrastenia. Con un cenno
della testa, le dà a intendere che gli dispiace e dopo che la donna è andata via sembra sentirsi
smarrito, ma è un’impressione fugace e quasi subito il suo volto torna indifferente. Quanto ai
Rivoltosi, il personaggio ha un breve scambio verbale con loro. Dopo aver assistito a una
manifestazione di violenza di cui si sono macchiati, il personaggio chiede loro se non provano
vergogna. Per tutta risposta, uno di essi lo apostrofa chiamandolo “salaud” – allusione diretta a
Sartre – e gli sferra un pugno in faccia. Il personaggio crolla sulla sua sedia, con il volto
insanguinato, mentre i Rivoltosi lo accerchiano, mostrando il pugno, e tutti in coro gli urlano
“salaud”.61 Romanzo e pièce sono stati scritti all’indomani del maggio ’68, fatto non irrilevante dal
punto di vista delle immagini emblematiche scelte. Più avanti nella pièce, quando il personaggio è
ormai definitivamente barricato nella sua stanza e sembra non preoccuparsi più in alcun modo dei
fatti che avvengono fuori, ha ancora un breve scambio di battute con la cameriera in merito alla
violenza politica che lo tormenta. Le dice: “Je crois que je dois faire quelque chose”. La donna
ribatte: “Pourquoi? Pour qui?”. Allora il personaggio risponde, con un’alzata di spalle: “Ah…, ça…
Difficile”.62 Ancora una volta prevalgono il senso d’impotenza e il senso di colpa. A partire da
questo momento, lo spettatore ha la netta sensazione che tutto quello che vede sul palcoscenico sia
frutto di allucinazione e il sospetto, retroattivamente, tinge d’irrealtà anche tutta l’azione cui ha
60
E. Ionesco, Entre la vie et le rêve. Entretien avec Claude Bonnefoy, Paris, Gallimard, p. 115 (I ed. Paris, Belfond,
1977).
61
Ce formidable bordel!, sc. XII, in Théâtre complet, p. 1174.
62
Ibid., sc. XIV, p. 1181.
93
precedentemente assistito. Sono i sogni ossessivi di Ionesco che vengono a galla. Era del resto
convinto a pieno che:
Pour quelqu'un qui fait du théâtre, le rêve peut être considéré comme un événement essentiellement
dramatique. Le rêve c'est le drame même. En rêve, on est toujours en situation. Bref, je crois que le
rêve […] est une pensée en image et qu'il est déjà du théâtre, qu'il est toujours un drame puisqu'on y
est toujours en situation.63
Le visite che il personaggio riceve nell’ultima parte della pièce sono oniriche, sono morti che gli
appaiono (sua madre, il suo maestro di scuola) oppure persone che ha conosciuto in un lontano
passato. Tutti riuniti in una danza macabra, reclamano la restituzione dell’amore che gli hanno dato.
Allo scopo di disperderli, il personaggio getta loro in testa una bottiglia e li insulta come hanno
fatto i Rivoltosi con lui, gridando: “Salauds! Foutez-moi la paix!”. 64 La scena si vuota, il
personaggio resta completamente solo sprofondato nella sua poltrona, il solo mobile ancora
presente. Chiama la portinaia perché gli porti la colazione e siccome nessuno risponde, prende lui la
parola. Per la prima volta non per pronunciare i monosillabi ai quali si è limitato finora. E dice:
Je vais crever de faim ! Je vais crever de soif […]
Qu’est-ce que ça veut dire ! C’est plus la peine, il n’y a personne. Je n’y ai rien compris, je ne
comprends rien. Personne ne pourrait comprendre.65
Ed ecco che, anche qui come nel romanzo, appare un albero. Ma la conclusione cambia. Qui,
mentre raccoglie delle foglie per terra, il personaggio alza il viso verso l’alto e scoppia in una risata.
Ridendo, dice:
Ah ! coquin, va ! Coquin !… J’aurais dû m’en apercevoir depuis longtemps. Quelle farce ! C’est
ahurissant ! Quelle blague !… Quel formidable bordel !66
Da noi in Italia, la pièce ha ricevuto pessima accoglienza: è stata interpretata come un’involuzione
reazionaria dell’autore, soprattutto per via della rappresentazione del fenomeno rivoluzionario che
contiene, e il riso convulso della conclusione è stato letto come il segno di un pessimismo nichilista
e regressivo. Nessuno lo ha visto come un possibile riferimento al riso zen, alla prova del koan.67 Si
63
Entre la vie et le rêve. Entretien avec Claude Bonnefoy, p. 12.
Ce formidable bordel!, sc. XV, in Théâtre complet, p. 1200.
65
Ibid., pp. 1200-1201
66
Ibid., p. 1201.
67
È stata Marie-Claude Hubert, nella sua monografia consacrata a Ionesco a suggerire questa idea (Eugène Ionesco par
Marie-Claude Hubert, Paris, Seuil, 1990, p.204). Ma già Ionesco stesso l’aveva precedentemente suggerita: “J’ai sans
doute été inspiré par l’histoire de ce moine zen, qui arrivé au seuil de la vieillesse, après avoir cherché durant toute sa
vie un sens à l’univers, un début d’explication, une clef, a tout à coup une illumination. Regardant autotur de lui avec un
64
94
tratta di una prova nel corso della quale il maestro zen sottopone al giovane monaco un problema
insolubile. Il monaco, dopo aver lungamente meditato, scoppia a ridere. Si produce allora una
rivelazione, di ordine superiore, nel cui ambito non c’è più posto per la serietà. Ionesco ha spesso
ripetuto di aver vissuto, tra i diciassette e i diciotto anni, un’esperienza di satori, e di aver cercato
tutta la vita di ritrovarla, senza riuscirci però, purtroppo.
Per concludere, passo ora alla versione cinematografica dell’autoritratto: La vase. Ionesco ne ha
scritto la sceneggiatura a partire da un racconto intitolato nello stesso modo, incluso nella raccolta
La photo du colonel, 68 racconto che può essere considerato il pre-testo di tutta la trilogia qui
analizzata. Risale al 1956, Ionesco ha lui stesso affermato: “Le personnage qui se noie dans La vase
c’est le personnage du Solitaire et de Ce formidable bordel!”. 69 Nella Vase, il personaggio
sprofonda in una letargia suicida. All’inizio non è disperato. Vive in una sorta di malessere che
esprime il disagio esistenziale, non quello sociale. Ma comunica con il mondo, sia pur difficilmente,
grazie a certe lettere, agli indirizzi che scrive su certe buste. In questo curioso mestiere c’è un
doppio riferimento: il più evidente è certo quello al mestiere dello scrittore; ma ce n’è un secondo,
intertestuale: la madre del personaggio, nel Solitaire, quando rimane sola abbandonata dal marito
con un bambino e senza un soldo, può sopravvivere proprio grazie a un’attività analoga, scrivere
indirizzi su delle buste. Tornando alla Vase, d’un tratto il meccanismo s’inceppa. Lo afferma il
personaggio, sono le sue prime parole:
J’étais dans la force de l’âge, avais bonne mine, beaucoup de prestance, haute taille, de beaux
costumes, traits réguliers, expression énergique, tout l’air d’un homme plein de vigueur et de santé,
lorsque je ressentis les premiers symptômes du mal.70
A partire da questo momento, il personaggio entra in una sorta di depressione. Le sue funzioni
corporali ne subiscono un rallentamento. Progressivamente la vista gli si abbassa, si mette a
zoppicare, quando cammina – lui che era infaticabile nella marcia – è subito stanco, poi diventa
quasi sordo, viene colto da un sonno senza rimedio. Cerca di venirne fuori seguendo un regime
severo. Ma dopo alcuni giorni di apparente miglioramento, finisce per non poter mangiare più nulle
per paura degli alimenti. Pur dimagrendo, la sensazione di pesantezza aumenta. Non esce più per le
regard neuf, il s’écrie «Quel leurre!» et rit aux éclats” (“Pourquoi est-ce que j’écris!, in Antidotes, p. 324). L’influenza
del buddismo su Ionesco va peraltro riferita alla psicanalisi junghiana che ha seguito. Cfr. l’introduzione di Carl Jung a
un testo di Daisetz Teitaro Suzuki, professore di filosifia buddista all’università di Kyoto, An Introduction to Zen
Buddhism, New York, Grove Press, 1964.
68
La vase, in La photo du colonel, pp. 97-119.
69
Nel corso di un’intervista accordata a Marie-Claude Hubert e acclusa alla monografia citata, Eugène Ionesco par M.C. Hubert, pp. 257-258.
70
La vase, in La photo du colonel, p. 97.
95
abituali passeggiate nei campi, non fa che qualche passo nella sua stanza, poi non si alza più dal
letto dove trascorre interamente le giornate. Non risponde quando qualcuno bussa alla porta e in
capo a un certo tempo più nessuno si ricorda di lui. Non apre più la finestra, non accende più la
lampada. Il mondo esterno e il tempo smettono di esistere per lui. Una notte, viene colto
dall’angoscia e ha una visione allucinatoria:
Je me tenais au centre d’un cercle ; le lit était le point immobile de ce cercle ; j’ouvrais et fermais
les yeux […]. Lorsque je tenais les paupières closes, je voyais un disque sombre tournant à toute
vitesse autout d’un noyau incandescent, se faisant de plus en plus petit, puis fondant avec moi, dans
le sommeil épais.71
Il mattino successivo allora, per cercare di sottrarsi al tormento dell’immagine sognata, con enorme
fatica riesce a uscire di casa. La pioggia e il fango rendono difficoltoso il suo procedere, cade più
volte e finisce per rinunciare a rialzarsi. “Plus je m’enfonce, plus je ne trouve que de la vase”, dice
il personaggio del Solitaire.72 Qui, viene come inghiottito dalle sabbie mobili e s vede scomparire:
[…] je ne vis plus rien, soudain, de mon corps. Si, tout de même, un vague contour, quelque chose
comme une ombre à la place de mon corps.73
Prima che il corpo scompaia interamente, solo l’occhio, simbolo della coscienza, rimane visibile. E
così il personaggio muore, serenamente: “Les brumes s’étaient dissipées et c’est avec l’image bleue
d’un ciel lavé que je partis”. 74 Nel film, realizzato nel 1971 da H. von Cramer, prodotto dalla
televisione tedesca e interpretato dallo stesso Ionesco (“interprête principal et unique”, come diceva
lui stesso), l’immagine finale mostra come là dove c’era il corpo non ci sia più nulla, e la voce off
di Ionesco constata: “A la place du corps il n’y a plus rien”. In un’intervista televisiva diffusa
dall’ORTF il 13 aprile 1974, Ionesco spiegava: “Il s’agit d’un enlisement symbolique, mais assez
expressif parce qu’il y a l’image”. E aggiungeva: “Ce n’est pas un film réaliste, c’est un film
fantastique”. Ma soprattutto faveca notare che, prima di sprofondare definitivamente, il personaggio
dice: “Je recommencerai. J’ai tout raté, bien sûr, mais ça va recommencer”.
Dall’uno all’altro dei tentativi di Ionesco di dare risposta alla domanda del padre – che cosa hai
fatto della tua vita – è forse lecito vedere una ripresa nel senso kierkegaardiano del termine
(“Ripresa e reminiscenza rappresentano lo stesso movimento ma in direzione opposta, perché ciò
71
Ibid., pp. 106-107.
Le solitaire, p. 100
73
La vase, in La photo du colonel, p. 119.
74
Ibid. Sono le parole con cui si conclude il racconto.
72
96
che si ricorda è stato, ossia si riprende retrocedendo, mentre la vera ripresa è un ricordare
procedendo” 75 ). All’interno di ognuna delle versioni si può vedere un passaggio dallo stadio
estetico a quello etico e parallelamente dalla noia all’angoscia. L’ultimo passaggio, allo stadio
religioso, invece, nei vari testi, è solo abbozzato, suggerito, preso in considerazione ma come
un’ipotesi, che non rientra nell’autoritratto, ne resta al di fuori. Quest’ultimo passaggio
rappresenterebbe in effetti una soluzione e Ionesco, pur avendola cercata per tutta la vita, non l’ha
trovata. Ha avuto fortemente il desiderio di arrivarci, ma è rimasto al di qua, dal lato delle
supposizioni. Non era dotato, diceva, per le risposte, in particolar modo per le risposte definitive. Se
ripresa in avanti è individuabile tra l’uno e l’altro dei testi qui presi in esame, è allora forse corretto
parlare di una sorta di circolarità nell’avanzare: ognuno dei testi ne evoca un altro in ragione della
necessità di ricominciare ogni volta.
IL MERAVIGLIOSO AL DI LÀ DEL QUOTIDIANO,
OVVERO LA POETICA TEATRALE DI EUGÈNE IONESCO
Lorsque je n’existerai plus, Dieu dira:
“Je fais un tas de choses, tout le monde
les comprend. Il n’y a plus personne
pour ne pas les comprendre”.
Un malinteso grossolano ha vanificato gli sforzi di tanta critica ideologica nei confronti del teatro
dell’assurdo, ed è stato il voler vedere in un atteggiamento rivoluzionario dal punto di vista delle
convenzioni teatrali, una delle forme varie della lotta di classe in senso marxista.
Uno dei principali rappresentanti di questa corrente critica, Bernard Dort, scrisse che nel suo primo
movimento l’avanguardia aveva puntato alla dissociazione degli elementi che, disposti gli uni negli
altri e resi quasi irriconoscibili, costituiscono la scena borghese.
Dort aveva apprezzato, in quell’avanguardia, lo sforzo per rompere il patto di complicità che univa
le cose le une alle altre facendone un salotto, una camera in cui lo spettatore si sentiva “come a casa
sua”; e così pure per spezzare il linguaggio usurato, banale che veicolava il significato, come al
riparo. Gli era piaciuto che quella banalità, l’avanguardia l’avesse tirata fuori dalla luce calda,
spessa e dorata, nella quale aveva perduto la sua identità, e l’avesse mascherata.1 Eppure spesso, nel
75
S. Kierkegaard, La Ripresa (1843), ed. di Comunità, Milano, 1954, p. 27
97
corso della sua vita, Eugène Ionesco ha detto che una delle ragioni principali che lo avevano spinto
a scrivere era una sorta di nostalgia del paradiso: il desiderio di “retrouver le merveilleux de
l’enfance au delà du quotidien, la joie au delà du drame, la fraîcheur au delà de la dureté”.2 Sembra
una spiegazione intimista, se non decisamente riduttiva, della sua opera. In realtà, la ricerca del
meraviglioso cui fa riferimento Ionesco corrisponde a una quête metafisica3 che, in quanto tale,
supera ogni particolare per farsi universale, benché perseguita con mezzi molto ioneschiani.
Ma può, questa spiegazione di un’opera drammaturgica quale quella di Ionesco, non solo moderna
ma propriamente rivoluzionaria nel momento in cui egli la lanciò sulla scena francese, risultare
valida anche per gli altri autori che, con lui, incarnarono l’avanguardia cui si riferisce Bernard Dort
nel passaggio evocato? Secondo la visione di Ionesco, sicuramente sì. Per lui, anzi, è la sola
interpretazione accettabile per il teatro d’avanguardia. Scrive:
Le théâtre que quelques uns d’entre nous ont fait depuis l’année 1950 se distingue
radicalement du théâtre de boulevard. Il est même à l’opposé. Contrairement au
théâtre de boulevard [...] notre théâtre est un théâtre qui met en question la totalité
du destin de l’homme, qui met en question notre condition existentielle.4
Ma poi aggiunge che è altrettanto lontano dal teatro politico:
Nous ne faisions pas de théâtre politique non plus [...]. Le théâtre politique n’apporte qu’une lumière très limitée. Le théâtre idéologique est inférieur à l’idéologie
qu’il veut illustrer, dont il se fait l’instrument. Puisque le théâtre politique reflète
les idéologies que nous connaissons, il est tautologique. Rabâchant depuis un
siècle et surtout depuis cinquante ans les mêmes thèmes, il est académique.5
E di sentirsi schiacciato tra il teatro borghese e il teatro ideologico, che sono entrambi null’altro che
convenzioni, ed entrambi incapaci di svegliare la coscienza. Il primo, perché si limita a essere
divertimento; il secondo, perché fornisce risposte obbligate, senza nemmeno porre le domande: “Le
théâtre politique nous rend aussi inconscients métaphysiquement que le théâtre de boulevard”. 6
L’interpretazione che dà Bernard Dort del teatro d’avanguardia “dans son premier mouvement”, per
gli autori cioè che cominciano il loro lavoro – Beckett e Ionesco in prima linea – criticando un certo
linguaggio, usandolo ma con lo scopo di smascherarne l’inanità, è forse accettabile limitatamente a
quella prima fase. È però una lettura destinata a equivocare molto presto sul significato essenziale
del lavoro di quegli autori, perché Bernard Dort avrebbe voluto assistere, come proseguimento della
lotta, a un attacco sistematico contro il teatro borghese da un lato, e contro lo spettatore borghese
dall’altro, ch’egli avrebbe voluto vedere privato di qualsiasi possibilità di soddisfazione. In altre
parole, Dort avrebbe voluto vedere spezzato a oltranza il patto tradizionale che esisteva tra l’autore
98
e il pubblico, quel patto che rassicurava lo spettatore nella sua poltrona dandogli la conferma di
essere nel giusto. Bernard Dort aveva criticato proprio a partire da questi argomenti le altre forme di
avanguardia che gli avevano dato l’impressione di non essere ugualmente corrosive, il teatro ad
esempio di Audiberti, di Anouilh e persino di Artaud, in quanto teatro di rottura troppo brutale –
recupero dell’universo barocco da parte di Audiberti, del mito da parte di Anouilh, soppressione
dello spettatore da parte di Artaud – invece che di spezzamento dall’interno.7 Mentre, in un primo
tempo, aveva creduto che il teatro dell’assurdo avrebbe proseguito il cammino di critica della
società capitalista, e aveva in questo equivocato, prendendo per atteggiamento politico quello che al
contrario era una vera e propria poetica (svegliare la coscienza tramite l’atto teatrale). È in ragione
di questo equivoco che, successivamente, Dort – nel secondo movimento di quell’avanguardia, per
usare la sua cronologia – ne prese le distanze, salvando nei suoi giudizi solo il lavoro di Arthur
Adamov che, lui, effettivamente procedette in direzione politica in senso stretto.
Ionesco in particolare fu attaccato da Bernard Dort, in un articolo intitolato De la révolte à la
soumission,8 articolo nel quale il critico esprimeva la sua delusione per un’evoluzione diversa
rispetto a quella che aveva sperato.9 Dort vi accusava Ionesco di ridurre la società alla famiglia e a
un mondo assurdo in preda a una fatalità quasi fisiologica, e si chiedeva se sarebbe diventato uno
Strindberg da quattro soldi, un moralista ridotto a mimare l’inevitabile sopraffazione dell’Uomo
solo ad opera dell’ordine delle essenze maledette del sesso e della morte. E invitava il drammaturgo
ad abbandonare il nichilismo dell’avanguardia per aderire a un’estetica del messaggio.10
In seguito anche Beckett, in un articolo intitolato L’Apocalypse apprivoisée,11 fu accusato da Dort
di tradimento nei confronti del primo movimento dell’avanguardia, anche se in direzione opposta
rispetto a Ionesco. Beckett si sarebbe perso, con Oh les beaux jours, andando verso la fabbricazione
di un oggetto teatrale perfetto ma chiuso su se stesso, privo di critica attiva, destinato a venire
metabolizzato dal pubblico borghese e accettato tale e quale.12 Ionesco invece, per Dort, aveva
esaurito il coraggio iniziale rappresentato da pièces come La cantatrice chauve o La leçon, per farsi
fagocitare dal pubblico delle grandi sale, e il suo discorso teatrale si era normalizzato,
“sottomettendosi” a quelle stesse convenzioni sotto le quali per una stagione aveva messo la
dinamite.13
Ionesco è stato molto pesantemente strumentalizzato, da destra e da sinistra alternativamente. A
distanza di parecchi anni dalla fase più esacerbata del dibattito, Ionesco rievocò la doppia
manipolazione subita in questi termini:
Pour moi, il s’est passé une chose très curieuse: j’ai été très attaqué par la presse
de droite, Le Figaro notamment. Jean-Jacques Gautier m’a traité de fumiste, de
demeuré, de plaisantin, et j’étais alors très vanté par mes amis d’alors, qui ne sont,
99
hélas! plus mes amis, je veux parler de gens comme Bernard Dort; mais quand
ceux-ci ont vu que je résistais à m’engager dans un théâtre socialiste, réaliste,
comme le voulait aussi Elsa Triolet, ils ont déclaré que je ne valais plus rien. La
Cantatrice les intéressait uniquement en tant que parodie du théâtre de boulevard,
ce qui n’est que son aspect le plus extérieur, le plus superficiel. A partir de ma
querelle avec les brechtiens, Gautier m’a pris dans ses bras: “Ionesco égale
Shakespeare” a-t-il écrit à propos du Roi se meurt. D’un fumiste à Shakespeare, il
y a quand même un long voyage! Je crois que je ne méritais cet excès d’honneur
ni cette indignité. Kundera m’a raconté que, lorsqu’il a assisté, dans les
années ’60, à une représentation de la Cantatrice chauve (qui était à cette époque
jouée tout-à- fait librement en Tchécoslovaquie par exemple) à la Maison de la
Culture de Rennes, la salle était envahie de pancartes sur lesquelles on pouvait
lire: “Ionesco = réactionnaire et fasciste. Mais il a du talent, c’est pour cela que
nous allons la jouer, en essayant de la défasciser”. Pour défasciser la pièce, les
pompiers et la bonne prenaient des fusils et tuaient les Smith et les Martin, qui
étaient des bourgeois!16
Anche in quell’occasione Ionesco ribadì che quel garbuglio interpretativo era stato annodato in
completo spregio del suo principale desiderio, cioè che il suo discorso drammaturgico venisse
capito per ciò che ai suoi occhi aveva di più rivoluzionario, l’interrogazione metafisica.
Quando Dort lo attaccò all’uscita di Jacques ou la soumission,17 Ionesco preferì in quel caso
rispondere direttamente con una pièce, invece che con un articolo polemico o uno scritto teorico. Fu
L’Impromptu de l’Alma,18 il cui titolo era un calco dell’Impromptu de Versailles di Molière, scritto
analogamente in conseguenza di una querelle, quella provocata dall’Ecole des femmes.
Nell’Impromptu de l’Alma, Ionesco metteva in scena tre professori – Bartholoméus I, Bartholoméus
II e Bartholoméus III,19 trasposizione beffarda di Barthes, Dort e Gautier – i quali criticavano la
pièce di Ionesco di cui erano i personaggi. Mise en abîme o pièce nella pièce che si mangia la coda,
Ionesco vi era anch’egli personaggio, e a un certo punto diventava così insolente con i professori
che Marie, la cameriera, finiva per gettargli sulle spalle la toga del professore. Fu allora che
Adamov ruppe fragorosamente l’amicizia con Ionesco, accusandolo di aver ridicolizzato la sua fede
brechtiana. Anouilh al contrario si schierò al suo fianco20 contro le ideologie in generale, che egli
qualificò “machines à se casser la tête”, in nome del classicismo, cioè del teatro archetipale.
In seguito, l’equivoco che aveva determinato le interpretazioni erronee del lavoro di Ionesco – come
di quello di Beckett e di Vauthier (En attendant Godot del primo e La soirée des proverbes del
secondo erano del ’53) – ancora possibili per testi come Les chaises,21Amédée ou comment s’en
débarrasser,22 o Le nouveau locataire,23 pièces che vengono solitamente chiamate “della
proliferazione”, e che in effetti hanno in comune il fatto di presentare a un dato momento la scena
invasa da un plein de (sedie, un cadavere che cresce a dismisura, mobili) – equivalente simbolico
del vuoto – diventa impossibile con il ciclo di Béranger. È la fase più impegnata del teatro di
Ionesco, nel senso specifico che dava lui al termine. Tueur sans gages,24 Rhinocéros25 e Le Roi se
100
meurt26 sono pièces in cui l’assurdo dell’esistenza appare chiaramente nella sua universalità. Ogni
fanatismo vi è stigmatizzato, non importa di quale colore sia. Il protagonista, Béranger nelle tre
pièces, è il prototipo dell’individuo che si sforza di resistere all’alienazione. Ciò che uccide
l’umanità delle persone è, per Ionesco, la mancanza di spiritualità, causa anche di ogni
degenerazione mentale.
Beckett scriveva allora Fin de partie (1957) e Happy days (1961), pièces con le quali – come diceva
del resto Dort nell’articolo L’Apocalypse apprivoisée27 – il drammaturgo irlandese approfondiva a
sua volta la riflessione sulla solitudine dell’individuo di fronte alla fatalità di una verità indicibile
(perché non la si conosce).28 In un articolo intitolato A propos de Beckett, Ionesco scrisse che per lui
tutto il teatro di Beckett era un lamento dell’uomo contro Dio, a causa dell’impressione che egli ha
che la Creazione sia un fallimento:
L’interprétation que des esprits plus ou moins éminents donnent de l’oeuvre et de
la personne de Beckett est abérrante. En effet, voir dans Beckett une victime de la
société bourgeoise, du capitalisme, va contre l’oeuvre et la pensée de l’écrivain.
Ce n’est pas de la condition sociale et politique que Beckett souffre, mais bien de
notre condition existentielle, de la situation métaphysique de l’homme [...]. Tout
Beckett a pour thème la plainte de l’homme contre Dieu, c’est ainsi que je l’ai dit
il y a plusieurs années, l’expression s’est répandue, celle de l’image de Job sur
son fumier. Le théâtre ne peut évoluer sans qu’il soit dépolitisé.29
Interpretazione evidentemente metafisica, che Beckett non smentì.
Degli autori che, a partire dalla definizione data da Martin Esslin,33 sono stati qualificati
“dell’assurdo” – Ionesco, Beckett e Adamov, ma anche Robert Pinget sulla scia di Beckett, Roland
Dubillard sulla scia di Ionesco, e Harold Pinter – Ionesco è quello che, più degli altri, ha percorso
per intero il cammino laboriosamente scavato attraverso le mille contraddizioni dell’espressività
contemporanea. L’ultima parte della sua vita e della sua opera è in effetti interamente dominata
dalla ricerca di quella verità che Beckett continuava a considerare inaccessibile. Testi come
L’homme aux valises34 e Voyages chez les morts,35 ma anche già Le piéton de l’air,36 La soif et la
faim,37 Jeux de massacre38 e Ce formidable bordel!,39 aprendosi a un onirismo molto forte – dopo
aver conosciuto Ziegler a Ginevra, il drammaturgo si avvicinò sensibilmente alla psicoanalisi per
via dell’importanza che egli accordava da sempre al sogno come fonte di creazione – testimoniano
di questo punto culminante sul quale si chiude l’avventura teatrale e umana di Ionesco: sempre più
universale e allo stesso tempo sempre più individuale, la questione posta in ultima istanza dalla sua
opera concerne la presenza di Dio, percepita ma confusamente, dietro un velo, che si vorrebbe
strappare, ma che non si riesce a toccare.
101
Niente di più lontano rispetto a una semplice mise en abîme – necessaria e rivoluzionaria senza
dubbio, ma insufficiente – delle convenzioni borghesi.
B. DORT, “L’avant-garde en suspens”, Théâtre populaire n. 18, poi riedito nella raccolta di articoli
Théâtre public 1953- 1966, Paris, Seuil, 1967, tradotta in italiano da Marsilio con titolo invariato lo
stesso anno.
2
“Pourquoi est-ce que j’écris?”, in Antidotes, Paris, Gallimard, 1977, p. 314.
3
Lungamente poi illustrata in La quête intermittente, libro di riflessioni dell’età avanzata, Paris,
Gallimard. 1987.
4
Op. cit., p. 326.
5
Op. cit., pp. 327-328.
6
Op. cit., p. 328.
7
B. DORT, “L’avant-garde en suspens”, p. 254: “Nessuno di questi drammaturghi esce veramente
dal sistema in atto. Al contrario, vi rientrano, quali ostaggi, divenuti fornitori di un teatro di cultura,
scenografi della scena borghese. Non è un caso se le loro opere di successo, sul piano del pubblico,
come su quello della creazione letteraria, sono deliberatamente anacronistiche”; p. 255: “Il grande
difetto del Théâtre et son double del resto, sta in questo sognare un teatro senza pensare a un
pubblico”; p. 256: “È necessario dire che la rottura non può essere netta”; p. 259: “Ma il teatro resta
tutto da fare. E io credo che può essere fatto soltanto partendo da codesto rapporto nullo,
nuovamente indeterminato, tra lo spettatore e la rappresentazione teatrale. Si tratta ora di ristabilire
questo rapporto, di dargli un senso, delle significazioni che, questa volta, siano il prodotto di uno
scambio di libertà: quella dell’autore e quel- la dello spettatore”.
8
Con esplicito riferimento a Jacques ou la soumission, pièce rappresentata per la prima volta al
Théâtre de la Huchette nell’ottobre del 1955.
9
B. DORT, “De la révolte à la soumission”, in France- Observateur, 20 octobre 1955, riprodotto in
op.cit., pp. 253-254: “Ionesco sembra sprofondare in un mondo elementare...”.
10
Ibid.
11
B. DORT, Théâtre populaire n. 52, poi in op. cit., ed. it., pp. 273-277.
12
B. DORT, “L’Apocalypse apprivoisée”, in op. cit., ed. it. p. 276: “È proprio questa chiusura
dell’opera su se stessa, questa perfezione e questa finzione che falsano radicalmente il senso
dell’impresa beckettiana al teatro. En attendant Godot era ancora una commedia aperta [...]. In Oh
les beaux jours il gioco è fatto: Winnie interpreta la sua ineluttabile conclusione. Ella esiste per il
niente, ma esistendo è questo niente che esalta [...]. L’opera di Beckett ha cambiato direzione: è
passata dal livello dell’esistenza a quello dell’essenza”.
13
Ibid.: “Metamorfosi del genere sono moneta corrente nell’arte moderna: a forza di voler eliminare
ogni significato, si finisce per istituire un’ipertrofia del significato, e il rifiuto di ogni pubblico,
postulato, diventa ben presto sottomissione a un pubblico qualsiasi. Rimane allora, per lo scrittore o
il drammaturgo, la tentazione di rifugiarsi nella fabbricazione di un oggetto perfetto e indifferente”.
14
Cfr. H. BECQUE, “Conférences, notes d’album, poésie, correspondance”, in Œuvres complètes,
Genève, Slatkine Reprints, 1979, t. III, vol. VII.
15
Cfr. H. BECQUE, “Molière et l’Ecole des femmes”, conferenza pronunciata a Bruxelles nel 1886,
in op. cit., pp.1-24: “Mesdames, Messieurs, nous allons [...] rencontrer un auteur dramatique
exceptionnel, si excellent qu’à aucune époque et dans aucun pays on ne peut en trouver un autre, je
ne dis pas qui lui soit comparable, mais qui ait seulement les grands traits communs avec lui [...].
L’Ecole des femmes: une pièce de théâtre admirable et qui, avec huit ou dix autres ouvrages du
même poète, représente ce que la comédie, ce que l’art comique a produit de plus humain, de plus
vrai et de plus libre”.
16
Intervista pubblicata da L’Evénement du jeudi del 27 nov.-3 dic. 1986.
17
Cfr. nota 9.
18
Rappresentato per la prima volta a Parigi, allo Studio des Champs Elysées, il 20 febbraio 1956.
1
102
19
Il nome, lo stesso per i tre, ironizzava su quello di Barthes, che aveva a sua volta attaccato il
drammaturgo in un articolo intitolato “A l’avant-garde de quel théâtre?”, Théâtre populaire, 1956,
poi incluso negli Essais critiques, Seuil, 1964, p.83-84 (ed. it. Saggi critici, Einaudi, Torino, 1966).
20
Con un articolo pubblicato su Le Figaro del 23 aprile 1956, “Le chapitre des Chaises. Réflexions
sur le théâtre moderne”.
21
Creazione a Parigi, al Théâtre Lancry, il 22 aprile 1952.
22
Parigi, Théâtre de Babylone, 14 aprile 1954.
23
Creazione in Finlandia, in lingua svedese, nel 1955; l’anno successivo a Londra, poi il 10
settembre 1957 a Parigi, al Théâtre d’Aujourd’hui.
24
Prima rappresentazione in Germania, il 14 aprile 1958, al Landestheater Darmstadt; a Parigi
l’anno successivo, il 27 febbraio 1959, al Théâtre Récamier.
25
Prima mondiale a Düsseldorf, Schauspielhaus, 6 novembre 1959, poi a Parigi, al Théâtre de
l’Odéon, il 22 gennaio 1960.
26
Parigi, Théâtre de l’Alliance française, 15 dicembre 1962.
27
Théâtre populaire 52, cfr. nota 11.
28
cfr. Paolo BERTINETTI, “Beckett, o la compressione della forma”, in Samuel Beckett, Teatro
completo, Torino, Einaudi-Gallimard, 1994, pp. XVII-XLIX.
29
Antidotes, Paris, Gallimard, 1977, pp.206-209.
30
Le Nouvel Observateur, 25 décembre 1982. “Le document de la semaine” è un’intervista
intitolata “Ionesco entre deux chaises”, nel corso della quale, a proposito della critica marxista alla
sua opera, il drammaturgo dice: “Barthes, qui par la suite est devenu un grand écrivain classique,
était un homme trop estimable pour symboliser le brechtisme de base. Mais combien d’autres,
moins talentueux, écrivaient partout des sottises [...]. Car il ne faut pas s’y tromper: les brechtiens
engagés, enragés, de la guerre froide refusaient toute forme de coexistence pacifique avec ce qui ne
s’inscrivait pas dans leurs obsessions. Et lorsqu’on était, par malentendu, admis dans leurs faveurs,
c’était pour y recevoir des conseils, des ordres. Je me souviens ainsi d’un article de Bernard Dort,
dans un Express de 1954, où il était dit en substance: ‘Ionesco et Adamov seront certainement les
plus grands auteurs dramatiques européens si, après avoir critiqué le monde petit-bourgeois, ils
affirment quelque chose de positif’. Vous vous rendez compte? Prétendre apprécier mon théâtre
pour me prier, dans la même phrase, de songer à y affirmer ‘quelque chose de positif’? Comme si
mon théâtre, alimenté par le surréalisme et l’irrationnel, pouvait s’engager sous la bannière de
quelque ‘positivité’!”, p.18.
31
Cfr. nota 19. R. BARTHES, Saggi critici, Einaudi, Torino, 1966, pp. 34-37.
32
Ibid., p. 35: “Al di là del dramma personale dello scrittore d’avanguardia, e qualunque sia la sua
forza esemplare, viene sempre un momento in cui l’Ordine recupera i suoi franchi tiratori. Fatto
probante: a minacciare l’avanguardia non è mai stata la borghesia [...]. No, a dire il vero
l’avanguardia non è mai stata minacciata che da una sola forza, e non borghese: la coscienza
politica. Non sono stati gli attacchi borghesi a disperdere il surrealismo, ma la viva
rappresentazione del problema politico, e per dir tutto, del problema comunista”.
33
M. ESSLIN, The Theater of the Absurd, New York, Garden City, Doubleday & Co, coll. “Anchor
Books”, 1961.
34
Dicembre 1975, Parigi, Théâtre de l’Atelier.
35
Messo in scena il 22 settembre 1980 al Guggenheim Museum di New York, poi a Basilea nel
novembre del 1982, e a Londra nel gennaio del 1987. In Francia venne trasmesso per radio, da
France-Culture, il 23 settembre 1982, e a teatro andò in scena nel 1983 in una elaborazione
intitolata Ionesco, ad opera di Roger Planchon, che univa L’homme aux valises e Voyages chez les
morts.
36
Dicembre 1962, Schauspielhaus di Düsseldorf, e a Parigi, Théâtre de l’Odéon, 8 febbraio 1965.
37
Dicembre 1964, Schauspielhaus di Düsseldorf, e a Parigi, Comédie Française, 28 febbraio 1966.
38
Febbraio 1970, Schauspielhaus di Düsseldorf, con il titolo Le Triomphe de la mort ou la Grande
Comédie du massacre, poi Parigi, 11 settembre 1970, Théâtre Montparnasse, con il titolo originale.
103
39
14 novembre 1973, Théâtre Moderne, pièce tratta dal solo romanzo scritto da Ionesco, Le
solitaire, Paris, Mercure de France, 1973.
Inizio presentazione di En attendant Godot
Lettura primo atto fino all’arrivo di Lucky e Pozzo
104
SAMUEL BECKETT
Lettura e commento di Assez per mostrare temi comuni con diversa scrittura.
Versione italiana (traduzione mia edita in S. Beckett, Racconti e prose brevi, a cura di Paolo
Bertinetti, Einaudi, Torino, 2010):
BASTA
Tutto quello che precede dimenticare. Non posso molte cose insieme. Questo lascia alla penna il
tempo di annotare. Non la vedo ma la sento laggiù dietro. Per dire il silenzio. Quando lei si ferma io
continuo. A volte lei rifiuta. Quando lei rifiuta io continuo. Troppo silenzio non posso. O è la mia
voce troppo debole a tratti. Quella che esce da me. Questo per il metodo.
Facevo tutto quello che desiderava. Anche io lo desideravo. Per lui. Ogni volta che desiderava una
cosa io anche. Per lui. Bastava che dicesse quale cosa. Quando non desiderava niente io neanche. Di
modo che non vivevo senza desideri. Se avesse desiderato una cosa per me l’avrei desiderata anche
io. Per esempio la felicità. O la gloria. Avevo solo i desideri che lui manifestava. Ma doveva
manifestarli tutti. Tutti i suoi desideri e bisogni. Quando stava zitto doveva essere come me.
Quando mi diceva di leccargli il pene io mi precipitavo. Ne traevo soddisfazione. Dovevamo avere
le stesse soddisfazioni. Gli stessi bisogni e le stesse soddisfazioni.
Un giorno mi disse di lasciarlo. Usò questo verbo. Non doveva più averne per molto. Non so se
dicendo quello voleva che lo lasciassi o solo che mi allontanassi un momento. Non mi sono posto il
problema. Non mi sono mai posto problemi che non fossero i suoi. Comunque sia filai via senza
voltarmi. Fuori dalla portata della sua voce ero fuori dalla sua vita. Forse è quello che desiderava.
Ci sono problemi che si capiscono senza porseli. Non doveva averne più per molto. Io in cambio ne
avevo ancora per molto. Ero di tutta un’altra generazione. Non ha durato. Adesso che penetro nella
notte ho come dei bagliori nel cranio. Terra ingrata ma non del tutto. Disponendo di tre o quattro
vite avrei potuto arrivare a qualcosa.
Dovevo avere sui sei anni quando mi prese per mano. Uscivo appena dall’infanzia. Ma non tardai a
uscirne del tutto. Era la mano sinistra. Stare a destra era un supplizio per lui. Avanzavamo così
fianco a fianco mano nella mano. Ci bastava un paio di guanti. Le mani libere o esterne
penzolavano nude. Non gli piaceva sentire contro la sua pelle una pelle estranea. Le mucose è
diverso. Gli capitava comunque di togliersi il guanto. Allora mi faceva fare lo stesso. Percorrevamo
così un centinaio di metri con le estremità che si toccavano nude. Raramente di più. Gli bastava. Se
mi ponessero la questione direi che le mani spaiate sono poco adatte all’intimità. La mia non trovò
105
mai un posto nella sua. A volte si lasciavano andare. La stretta s’indeboliva e loro cadevano ognuna
dalla sua parte. Lunghi minuti spesso prima che si riprendessero. Prima che la sua riprendesse la
mia.
Erano guanti di filo abbastanza aderenti. Lungi dallo smorzare le forme le evidenziavano
semplificandole. Il mio per anni era naturalmente troppo largo. Ma non tardai a riempirlo. Trovava
che avevo mani da Acquario. È una casa del cielo.
Tutto mi viene da lui. Non lo ridirò ogni volta a proposito di questa o quella conoscenza. L’arte di
combinare o combinatoria non è colpa mia. È una tegola del cielo. Per il resto direi non colpevole.
Il nostro incontro. Pur essendo già molto curvo mi faceva l’effetto di un gigante. Finì per avere il
tronco in orizzontale. Per bilanciare l’anomalia allargava le gambe e piegava le ginocchia. I piedi
sempre più piatti gli si giravano verso l’esterno. Il suo orizzonte si limitava al suolo che calpestava.
Minuscolo tappeto mobile di torba e fiori schiacciati. Mi dava la mano alla maniera di uno
scimmione stanco sollevando il gomito al massimo. Bastava che mi raddrizzassi per superarlo di tre
teste e mezza. Un giorno si fermò e mi spiegò scegliendo le parole che l’anatomia è un tutto.
All’inizio quando parlava lo faceva continuando ad andare. Mi sembra. Poi un po’ andando un po’
da fermo. Alla fine solo da fermo. E sempre più in basso. Per evitargli di dover dire la stessa cosa
due volte di fila dovevo chinarmi profondamente. Si fermava e aspettava che prendessi la posa. Non
appena con la coda dell’occhio intravedeva la mia testa a lato della sua emetteva i suoi mormorii.
Nove volte su dieci non mi riguardavano. Ma voleva che tutto venisse sentito e persino le
eiaculzioni e i brandelli di litanie che scagliava al suolo fiorito.
Si fermò dunque e aspettò che la mia testa arrivasse prima di dirmi di lasciarlo. Divincolai
lestamente la mano e filai via senza voltarmi. Due passi e mi perdeva per sempre. Ci eravamo scissi
se è questo che desiderava.
Parlava raramente di geodesia. Ma dobbiamo aver percorso parecchie volte l’equivalente
dell’equatore terrestre. Al ritmo di circa cinque chilometri in un giorno e una notte in media. Ci
rifugiavamo nell’aritmetica. Quanti calcoli mentali fatti insieme piegati in due! Elevavamo alla
terza potenza interi numeri ternari. A volte sotto una pioggia torrenziale. Bene o male incidendosi
106
nella sua memoria a mano a mano i cubi si accumulavano. In vista dell’operazione inversa a uno
stadio ulteriore. Quando il tempo avesse fatto la sua opera.
Se mi venisse posta la questione nei giusti termini direi che sì in effetti è la fine di quella
passeggiata che fu la mia vita. Diciamo circa gli ultimi undicimila chilometri. A contare dal giorno
in cui per la prima volta mi accennò alla sua infermità dicendo che secondo lui aveva raggiunto
l’apice. L’avvenire gli diede ragione. Per lo meno quello che avremmo reso passato insieme.
Vedo i fiori ai miei piedi e sono gli altri che vedo. Quelli che calpestavamo ritmicamente.
D’altronde sono gli stessi.
Contrariamente a ciò che a lungo mi era piaciuto immaginare non era cieco. Solo pigro. Un giorno
si fermò e cercando le parole mi descrisse la sua vista. Concluse dicendo che secondo lui non
sarebbe più diminuita. Non so fino a che punto non si facesse illusioni. Non mi sono posto il
problema. Quando mi chinavo per ricevere la comunicazione intravedevo un occhio rosa e azzurro
apparentemente impressionato che mi guardava strabico.
Gli capitava di fermarsi senza dire niente. O che alla fine non avesse niente da dire. O che pur
avendo qualcosa da dire alla fine rinunciasse. Io mi chinavo come al solito perché non dovesse
ripetersi e restavamo così. Piegati in due con le teste che si toccavano. Muti mano nella mano.
Mentre tutto intorno a noi i minuti si aggiungevano ai minuti. Prima o poi il suo piede si staccava
dai fiori e ripartivamo. Salvo poi fermarci di nuovo in capo a qualche passo. Perché di nuovo
dicesse quello che aveva sullo stomaco o di nuovo rinunciasse.
Altri casi principali si presentano alla mente. Comunicazione continua immediata con ripartenza
immediata. Stessa cosa con ripartenza ritardata. Comunicazione continua ritardata con ripartenza
immediata. Stessa cosa con ripartenza ritardata. Comunicazione discontinua immediata con
ripartenza immediata. Stessa cosa con ripartenza ritardata. Comunicazione discontinua ritardata con
ripartenza immediata. Stessa cosa con ripartenza ritardata.
Insomma è allora che avrò vissuto o mai. Dieci anni come minimo. Dal giorno in cui dopo aver a
lungo passato il dorso della mano sinistra sulle sue sacre rovine emise il pronostico. Fino a quello
della mia supposta disgrazia. Rivedo il luogo a un passo dalla cima. Due passi dritto davanti a me e
già scendevo dall’altro versante. Voltandomi non l’avrei visto.
107
Gli piaceva arrampicarsi e di conseguenza anche a me. Esigeva le salite più ripide. Il suo corpo
umano si scomponeva in due segmenti uguali. Questo grazie alla flessione delle ginocchia che
accorciava l’inferiore. Su una pendenza del cinquanta per cento la sua testa rasentava il terreno.
Non so come mai gli piacesse così. Per amore della terra e dei mille profumi e sfumature dei fiori.
O più banalmente per imperativi d’ordine anatomico. Non ha mai sollevato la questione. Raggiunta
la cima ahimé bisognava riscendere.
Per poter godere ogni tanto del cielo si serviva di uno specchietto rotondo. Dopo averlo appannato
con il fiato e poi fregato contro il polpaccio vi cercava le costellazioni. Ce l’ho! gridava parlando
della Lira o del Cigno. E spesso aggiungeva che il cielo non aveva niente.
Ma non eravamo in montagna. Ogni tanto intravedevo all’orizzonte un mare il cui livello mi
sembrava superiore al nostro. Che fosse il fondo di un qualche vasto lago evaporato o svuotato dal
basso? Non mi sono posto il problema.
Tutte queste nozioni sono sue. Non faccio che combinarle a modo mio. Disponendo di quattro o
cinque vite come quella avrei potuto lasciare una traccia.
Ciò nonostante si presentavano abbastanza spesso quelle specie di pani di zucchero alti un centinaio
di metri. Alzavo mio malgrado gli occhi e avvistavo il più vicino spesso all’orizzonte. Oppure
invece di allontanarci da quello da cui eravamo appena scesi lo scalavamo di nuovo.
Parlo del nostro ultimo decennio compreso tra i due avvenimenti che ho detto. Oscura i precedenti
che devono essergli assomigliati come fratelli. È a quegli anni sepolti che è ragionevole imputare la
mia formazione. Perché non mi viene in mente di aver imparato nulla in quelli di cui ho ricordo. È
con questo ragionamento che mi calmo quando cado sgomento di fronte al mio sapere.
Ho situato la mia disgrazia vicino a una cima. Ebbene no fu in piano in una grande calma.
Girandomi l’avrei visto nello stesso posto in cui lo avevo lasciato. Un niente mi avrebbe fatto capire
l’equivoco se equivoco ci fu. Negli anni che seguirono non escludevo la possibilità di ritrovarlo. Là
stesso dove lo avevo lasciato se non altrove. O di sentirlo chiamarmi. Dicendomi che non ne aveva
più per molto. Ma non ci contavo troppo. Perché non alzavo quasi gli occhi dai fiori. E lui non
108
aveva più voce. E come se non bastasse andavo ripetendomi che non ne aveva più per molto. Di
modo che non tardai a non contarci più del tutto.
Non so più che tempo fa. Ma al tempo della mia vita era eternamente dolce. Come se la terra si
fosse addormentata al punto vernale. Parlo del nostro personale emisfero. Pesanti piogge
perpendicolari e brevi ci coglievano d’improvviso. Senza incupimento sensibile del cielo. Non avrei
notato l’assenza di vento se lui non ne avesse parlato. Del vento che non c’era più. Delle tempeste
che lo avevano lasciato in piedi. Bisogna dire che non c’era niente da portar via. I fiori stessi erano
senza stelo e appiattiti a terra come ninfee. Fuori discussione che brillino ancora all’occhiello.
Non contavamo i giorni. Se arrivo a dieci anni è grazie al nostro podometro. Percorso finale diviso
per percorso giornaliero medio. Tanti giorni. Dividere. Una certa cifra la vigilia del giorno della
consacrazione. Una cert’altra la vigilia della mia disgrazia. Media giornaliera sempre aggiornata.
Sottrarre. Dividere.
La notte. Lunga come il giorno in quell’equinozio senza fine. Cade e noi continuiamo. Ripartiamo
prima dell’alba.
Posa a riposo. Piegati in tre incastrati uno nell’altro. Seconda squadra alle ginocchia. Io all’interno.
Come un sol uomo cambiavamo posizione quando ne manifestava il desiderio. Lo sento di notte
contro di me in tutta la sua lunghezza contorta. Più che di dormire si trattava di stendersi. Perché
camminavamo in un semisonno. Con la mano superiore mi teneva e toccava dove voleva. Fino a un
certo punto. L’altra si teneva ai miei capelli. Parlava a voce bassa delle cose che per lui non c’erano
più e che per me non avevano potuto esserci. Il vento negli steli aerei. L’ombra e il riparo della
foresta.
Non era chiacchierone. Cento parole in media per un giorno e una notte. Scaglionate. Non più di un
milione in totale. Molte ripetizioni. Eiaculazioni. Di che sfiorare appena la materia. Che cosa so del
destino dell’uomo? Non mi sono posto il problema. Ne so di più dei rapanelli. Loro lui li aveva
amati. Se ne vedessi uno lo nominerei senza esitazione.
Vivevamo di fiori. Questo per il sostentamento. Si fermava e senza doversi abbassare afferrava una
manciata di corolle. Poi ripartiva biascicando. Nell’insieme esercitavano un’azione calmante.
Nell’insieme eravamo calmi. Sempre di più. Tutto lo era. Questa nozione di calma mi viene da lui.
Senza di lui non l’avrei avuta. Adesso me ne andrò cancellando tutto salvo i fiori. Niente più
109
piogge. Niente più mammelloni. Nient’altro che noi due a trascinarci tra i fiori. Basta i miei vecchi
seni sentono la sua vecchia mano.
(1966)
Identico scopo facendo vedere il film girato da Beckett e intitolato Film.
Samuel Beckett sur sa pièce
« Vous me demandez mes idées sur En attendant Godot, dont vous me faites l'honneur de donner
des extraits au Club d'essai, et en même temps mes idées sur le théâtre.
Je n'ai pas d'idées sur le
théâtre. Je n'y connais rien. Je n'y vais pas. C'est admissible.
Ce qui l'est sans doute moins, c'est
d'abord, dans ces conditions, d'écrire une pièce, et ensuite, l'ayant fait, de ne pas avoir d'idées sur
elle non plus.
C'est malheureusement mon cas.
Je ne sais pas plus sur cette pièce que celui qui
arrive à la lire avec attention.
Je ne sais pas dans quel esprit je l'ai écrite.
Je ne sais pas plus sur
les personnages que ce qu'ils disent, ce qu'ils font et ce qui leur arrive. De leur aspect j'ai dû
indiquer le peu que j'ai pu entrevoir. Les chapeaux melon par exemple.
Je ne sais pas qui est
Godot. Je ne sais même pas, surtout pas, s'il existe. Et je ne sais pas s'ils y croient ou non, les deux
qui l'attendent.
Les deux autres qui passent vers la fin de chacun des deux actes, ça doit être pour
rompre la monotonie.
Tout ce que j'ai pu savoir, je l'ai montré. Ce n'est pas beaucoup. Mais ça me
suffit, et largement. Je dirai même que je me serais contenté de moins.
Quant à vouloir trouver à
tout cela un sens plus large et plus élevé, à emporter après le spectacle, avec le programme et les
esquimaux, je suis incapable d'en voir l'intérêt. Mais ce doit être possible.
Je n'y suis plus et je n'y
serai plus jamais. Estragon, Vladimir, Pozzo, Lucky, leur temps et leur espace, je n'ai pu les
connaître un peu que très loin du besoin de comprendre. Ils vous doivent des comptes peut-être.
Qu'ils se débrouillent. Sans moi. Eux et moi nous sommes quittes».
Samuel Beckett, Lettre à
Michel Polac, janvier 1952
Su Assez.
Ipotesi che sia una forma molto particolare di scrittura autobiografica, quella che non si può più
chiamare così non corrispondendo alle norme dell’autobiografia tradizionale, ma piuttosto roman
du je o ancora più ampiamente écriture du je (teorizzata da Philippe Forest).
110
Che io parla qui? Due diversi tra primo paragrafo e tutto il resto. Si invertono i ruoli. Nel piccolo
paragrafo iniziale l’io è quello dello scrittore che enuncia un metodo, il modo in cui procede, e
l’altro personaggio, chiamiamolo così, è la plume. Poi nel testo vero e proprio chi dice io potrebbe
essere inteso come la scrittura e l’altro personaggio è lo scrittore. La relazione raccontata, sotto
forma di immagini, è quella tra l’autore (Beckett) e la scrittura, l’avventura della scrittura la vita di
cui ci viene raccontato.
Beckett aveva già una certa età quando cominciò a scrivere, la scrittura aveva pochi anni (aveva
scritto prima del Godot – inizio ufficiale – il Kid circa sei anni prima) ecc. Si possono trovare
interpretazioni a tutti i passaggi del testo se si procede con questa idea in mente.
Rifletteteci, magari rileggendo poi una seconda volta il racconto.
In ogni caso, qui le coppia individuate, il nesso relazionale presentato, non è più tra due personaggi
distinti come nel Godot, ma tra due parti di un unico personaggio. La comunicazione, le sue
difficoltà, le sue impossibilità da un certo punto in poi, sono tra l’io e il suo alter ego. Alter ego che
nel caso di uno scrittore è la scrittura.
La dernière bande
Analogo rapport tra l’io e un’altra parte di sé è presente ne La dernière bande, pièce scritta una
decina di anni dopo il Godot questa volta prima in inglese e poi tradotta in francese dallo stesso
Beckett come di consueto – in certi casi si è fatto aiutare da un altro autore dell’assurdo meno noto
ma anch’esso molto interessante (altro soggetto di tesi che suggerisco) Robert Pinget.
In questa pièce il nesso relazionale è tra il soggetto, colui che dice io, e il suo passato.
Leggiamo la prima didascalia.
Il personaggio a ogni compleanno sente una cassetta registrata in un compleanno precedente, nastro
in cui relazionava dei fatti avvenuti in quella tranche de vie. Modo per immobilizzare un certo
passato e evitarne la dissoluzione. Memoria consegnata a un nastro perché esista, non si volatilizzi.
Sorta di soliloquio dell’autore con se stesso, o meglio dell’autore con la propria voce registrata. Va
avanti e indietro però nel nastro, risente pezzi già sentiti o ne salta dove il racconto gli pesa troppo.
Quindi torna alla manipolazione del ricordo, insensibilmente e come senza rendersene conto
Rispetto alle speranze e aspettative di trent’anni prima, nulla è andato come sperato. Le promesse di
111
una carriera nella scrittura sono fallite, oggi l’autore è quasi un clochard, invecchiato e spiantato.
Non saprebbe più nulla di sé se non ci fossero questi nastri.
Alla fine registra il nastro di questo che, in ordine di tempo, è l’ultimo compleanno. Riracconta
ancora quella che è stata una parvenza di storia d’amore momento clou del contenuto sentimentale
della sua vita, ma rarefacendo sempre di più il racconto stesso e poi approdando al silenzio. La
conclusione della pièce è il rumore del nastro che scorre senza che più nulla venga registrato.
Anche questa imagine del percorso, della carriera nella scrittura di Beckett: verso il silenzio e verso
l’impossibile.
Torniamo a Godot.
Brano dall’introduzione di Bertinetti su Blin che parla di Pozzo e Luchy, loro rapporto. Ipotesi della
lettura politica.
Beckett, come Ionesco, contrario.
MONOLOGO DI LUCKY pagina 56
Spiegazione dello stesso Beckett a Walter Asmus, coregista per la messa in scena allo Schiller
Theater:
“Lo si può dividere in tre parti. La prima parte riguarda l’indifferenza celeste, la divina apatia, e
termina con mais n’anticipons pas. La seconda parte comincia con et attend d’autre part e riguarda
l’uomo che si rimpicciolisce, che diventa sempre più insignificante.
Il tema della terza parte che comincia con et considérant d’autre part ce qui est encore plus grave è
che la terra è un luogo fatto per le pietre e non per gli esseri umani,
Il tema del monologo è il rimpicciolirsi dell’uomo sotto un cielo indifferente e su una terra
impossibile.”
Peter Szondi in Teoria del dramma moderno (1956, tradotto in Italia per Einaudi nel 1962) parla di
dramma-conversazione per definire la forma teatrale dela modernità dove progressivamente
l’azione viene sostituita dal dialogo. Beckett parte di lì, e ancora in Godot la conversazione per
quanto svuotata spesso di senso e di scopo, c’è.
Ma poi va verso l’abolizione del dialogo e poi progressiavamente della parola stessa per puntare al
silenzio.
112
Aveva cominciato a scrivere il Godot, scrisse, per riposarsi dale fatiche della pesantissima prosa del
Malone meurt, terzo volume della trilogia romanzesca.
A questo proposito, sull’evoluzione della scrittura in Beckett verso il silenzio appunto, si legga il
saggio introduttivo del Teatro completo a cura di Bertinetti, saggio intitolato Beckett, o la
compressione della forma (Einaudi –Pléiade, Torino, 1994).
Conclusione ATTO I Pozzo e Lucky poi vanno via, arriva il garçon dicendo di essere mandato da
Godot, altro lui non sa, a dire che Godot stesso non verrà quel giorno lì ma il successive.
Didi e Gogo si chiedono se valga la pena di separarsi visto che non vanno poi tanto d’accordo ma si
dicono che ormai non ne vale più la pena e poiché Godot per quella sera non verrà si dicono
andiamocene. Ma poi no si muovono.
ATTO II p. 76
Didascalia che già anticipa quella de La dernière bande
Lettura
Ultima considerazione: le gag (oltre al fatto che a Beckett piaceva molto il personaggio-clown)
sono frequenti per via del fatto che “non c’è niente di più grottesco del tragico”.
Da appaiare alla considerazione di Ionesco: “il comico è l’altra faccia del tragico”.
113
SOMMAIRE
Introduction
p.
2
Corneille
p.
4
Molière
p. 10
Marivaux
p. 21
Diderot
p. 29
Musset
p. 37
Romains
p. 57
Crommelynck
p. 74
Ionesco
p. 87
Beckett
p. 105
114
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