ABSTRACT. Sui lidi della Poesia, esistono territori danzanti, dove le parole, discrete rispetto al
fracasso di una musica popolare in festa, in verità, lasciano apparire, qua e là, un canto popolare
familiare e denso d’immagini poetiche. È in un piccolo ballo perduto che si possono ritrovare le
parole di un mondo che si è inabissato da tanto tempo ormai ma che ha lasciato nell’immaginario
collettivo molti ritornelli e visioni che, con questo saggio, abbiamo cercato di raggruppare con
l’idea di un inventario elaborato per una poetica differente e originale nella sua forma-senso.
La chiave che ci consente di entrare in questo mondo equivoco e misterioso è il poeta scrittore
Francis Carco che ce la offre con uno dei suoi primi poemetti in prosa dove ci mostra questo mondo
scintillante e danzante, nei luoghi dove fiorisce la java, questo ballo di donne facili e cattivi
elementi. Siamo negli anni folli, anni 20 in cui la java fa furore, e vedremo come le parole che la
celebrano cambieranno durante gli anni, mentre oggi è soltanto un ballo tra tanti e che ha perso
quasi del tutto il suo potere di seduzione: O tempora o mores, le danze diventano più sagge e i
ballerini non si sfiorano praticamente più, la coppia evolve, gira, solitaria sopra una pista illuminata
al neon, ballerini solitari o quasi, coppia disunita poiché, oggi, così va la canzone.
Ma al di là dei miti, che la java sia il ballo dei delinquenti, prostitute e prosseneti, e ovviamente,
come il tango, sia una danza maschilista ci importa relativamente, quello che ci preme mostrare è
che i testi che completano l’insieme musicale offrono talvolta il giubilo incantatore della poesia e la
memoria emotiva di un mondo perduto: Parigi e i suoi balli popolari, la sua fisarmonica e i suoi
quartieri, i suoi abitanti, celebrati dai fotografi umanisti, in bianco e nero, e che Carco e Mac Orlan,
fra tanti, hanno cantato.
Così sul filo del tempo, diacronicamente, abbiano rintracciato la storia della java, da quelle degli
anni 20-30 dove i cliché si liberano, le java un po’ più tristi degli anni 30-40 dove l’amore passa
attraverso gli strappi dell’esistenza, poi il gruppo delle java amorose in cui l’amore, al suono e al
ritmo dei tre passi trionfa; la java comica che raccoglie vari gruppi eterogenei, e siamo già negli
anni 50, con i chansonnier e la java dei cabaret. Per finire, abbiamo posto l’accento sui testi degli
originali, ossia i grandi interpreti, oltre che poeti, come Boris Vian o Charles Trénet, che dànno a
questa musica popolare alcune poesie dense d’immagini con una fantasia spesso surrealista. E più di
recente, avremo una java che sembra contemplare se stessa, che cerca le sue parole e si riflette in
esse, immaginifiche come si deve, cercando di confidarsi: la java diventa allora metafora della
scrittura e della vita.
Oggi la java sembra aver trovato una specie di pace interiore e riappare solo nelle sale da ballo, il
tempo di una competizione ballerina o di una festa nazionale, un po’ come Parigi si è trasformata e
vive soltanto nei vecchi dischi e sulle cartoline ingiallite. Il merito dei parolieri (poeti?) – spesso
sconosciuti – che hanno scritto su questa musica indiavolata è quello di aver saputo coniugare con
parole semplici le sofferenze e le gioie del quotidiano. Alcuni hanno difficoltà a mormorare che
possa trattarsi di poesia, tutt’al più di canzonette, ma a guardarci bene, i sentimenti che vengono
esposti sono degni di figurare in una sorta di chassé-croisé poetico, tra musica e parole: questo
insieme (parole, musica, interpretazione e ballo) è in grado di svelare la poesia pura del quotidiano.
«Où sont-ils tous mes vieux bals musette
Leurs javas au son de l’accordéon?» Fréhel1
1 Où est-il donc? (1926), Paroles d’André Decaye, Lucien Carol, musique de Vincent Scotto.